ABSTRACTS DEGLI INTERVENTI SU “IL PERTURBANTE”

ABSTRACTS  DEGLI  INTERVENTI  SU  “100  ANNI  DI  PERTURBANTE”

Sede IPRS, Passeggiata di Ripetta 11, Roma

6 dicembre 2019

 

Maurizio Balsamo

“Il perturbante. Transizioni nella metapsicologia”

 

Il saggio sul Perturbante può essere pensato non tanto lungo il crinale dell’applicazione concettuale della psicoanalisi ai testi letterari, quanto come la costruzione/invenzione di un dispositivo finzionale, accessorio, per pensare ciò che non appare più iscrivibile nel registro di funzionamento della prima topica e del primato del principio di piacere. Comprendiamo dunque meglio non solo il riferimento, nel saggio sul Perturbante,  all’Al di là del principio di piacere, ma il fatto medesimo che esso si ponga come una declinazione, una parentesi, una nota a piè di pagina del celebre testo.

Si offre così, come propongo, la sua utilizzazione come struttura inquadrante provvisoria per fenomeni clinici di difficile concettualizzazione metapsicologica. E cosa di più che la patologia del limite, la dimensione dell’oscillazione fra vivente e meccanico, fra sé e doppio angoscioso,  fra pensiero ed espropriazione, ritrovabili nei fenomeni della telepatia, della trasmissione del pensiero, del ritorno dello psichico nella ripetizione di eventi materiali, può meglio esprimere la necessità di far ricorso ad una struttura letteraria caratterizzata  dall’oscillazione fra livelli di realtà per pensare l’impensabile della teoria e la novità dirompente di strutture cliniche sconosciute nel loro funzionamento?

 

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Luciano De Fiore

“Amori automatici”

Nel mio intervento, proverò a dire due cose, frutto prima di una rilettura anagogica dello scritto freudiano, provando a rimontare il testo verso il più alto e insieme profondo, e poi di un’altra, nel corso della quale mi sono concesso invece un’attenzione fluttuante, soffermandomi proprio intorno a quel punto di oscurità costituito dal concetto freudiano di Unheimlich.
La prima. Come sappiamo tutti, «l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna». In questo apparire improvviso risiederebbe la particolare natura traumatica e disturbante dell’Unheimlich. Freud spiega le occasioni in cui ciò può accadere. Premette però una circostanza curiosa: che lui ne è, per così dire, immune. Anche se poi, sul finire dello scritto, nella famosa nota di sé stesso nello scompartimento del treno, si smentisce, raccontando un episodio perturbante che gli era capitato in prima persona. Ma nel testo, parlando in terza persona, afferma di esser piuttosto refrattario al perturbante, poiché sarebbe “protetto” da “eine besondere Stumpfheit”, da una particolare sordità. Dunque, quel che resta unheimlich, sepolto sotto la sabbia, è l’udire. Questa allusione all’ascolto mi fa pensare che Freud, inconsciamente, col perturbante stia qui alludendo all’esperienza analitica tout court, e dall’angolazione particolare del paziente. Questa sì davvero perturbante. Dichiararsi sordo al perturbante rappresenterebbe in modo elettivo, attraverso la negazione, una resistenza alla propria autoanalisi.
La seconda. Più avanti nel testo, Freud cita l’episodio biblico di Giuseppe, figlio tardivo di Giacobbe. Questi era detto “il Sognatore”. Ragionerò brevemente sulla sua storia, attraverso la Genesi, Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann e l’ultimo romanzo di Eshkol Nevo. Tra le cause del perturbante, Freud enumera per ottava lo slittamento tra realtà e immaginazione. Per esempio, scrive, nei sogni ad occhi aperti. E perché non nei sogni tout court? Cosa c’è di più perturbante del sogno? Potremmo forse considerare i sogni come l’essenza stessa del perturbante, quel che rende complesso, zoppicante, incerto alla comprensione ciò che si produce in noi stessi come quanto c’è di più familiare e prossimo, pur permanendo nel mistero, pur restando in larga misura segreto anche a noi stessi.

 

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Giovanni Bottiroli

“Problemi di identità. Da E.T.A. Hoffmann a David Lynch”

 

Parlerò della differenza tra desiderare e credere, e rivolgerò la mia attenzione al versante del desiderio.

Riprenderò le tesi presentate in questi articoli:

“Il perturbante è l’identità divisa. Un’interpretazione di ‘Der Sandmann’” (in Enthymema, rivista online, open access, XII, 2015)

“I registi sono alleati preziosi” (su “Mulholland Drive”) (in Segnocinema 144).

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Sergio Benvenuto

“Cosa ci perturba nel perturbante?”

 

Da Heidegger a Lacan c’è una tradizione che fa dell’Unheimlich (“lo spaesante” secondo certi traduttori) un momento privilegiato di accesso all’angoscia. Qui invece mi interrogo sulla specificità, anche storica, dell’Unheimlich. Mettendo insieme le intuizioni di Freud e l’analisi letteraria di Todorov, situo storicamente la nascita del perturbante come effetto della conversione illuminista della nostra società, che rinuncia al soprannaturale, e in particolare al diabolico. Del resto l’Unheimliche è sì qualcosa di angoscioso, ma che l’arte volge in piacere. Da qui una certa oscillazione concettuale di Freud, che riconnette il perturbante al ritorno del rimosso secondo una linea direi classica, ma anche al “superato”, ovvero alle credenze che, come donne e uomini moderni, rifiutiamo. Il perturbante svela certe nostre credenze profonde, inammissibili. Da qui un’interrogazione sulla presenza del sovrannaturale nel mondo dominato, oggi, dalla scienza e dalla tecnica.

 

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Alessandra Campo

“Il sentimento del reale”

La realtà, nella sua distinzione dal reale, somiglia all’Olimpo greco. Questo almeno suggerisce la ripresa di Freud della definizione schellinghiana di perturbante. Nella XXVIII lezione della sua Filosofia della mitologia, Schelling definisce infatti l’Unheimliche come “tutto ciò che deve restare nel segreto, nell’occulto, nella latenza e, invece, è uscito allo scoperto” e lo fa, comparando le divinità omeriche con quelle asiatiche. Le prime, spiega, sono tautoegoriche, ossia “significano solo ed esclusivamente ciò che esse sono” senza alcun rinvio ad altro da sé. La tautoegoria, cioè, è la costituzione di qualcosa resa possibile dal nascondimento di qualcos’altro, qualcosa che, appunto, uscendo allo scoperto non può che perturbare.

È stato merito soprattutto degli psicoanalisti ungheresi Abraham e Torok aver rimarcato l’equivalenza tra realtà e segreto. Invero, da un punto di vista metapsicologico, realtà significa “ciò che è rifiutato, mascherato, negato”. O, a dir meglio, “luogo in cui il segreto è sepolto”. Simile a un crimine, la realtà è ciò che si costituisce occultandone le prove non meno delle armi: “proprio come il desiderio nasce col divieto [essa] nasce dall’esigenza di rimanere nascosta, inconfessabile (…) Il suo nome è affermativo e, dunque, innominabile, come quello di Dio e del godimento”. Nella realtà, perciò, l’esistenza occulta fa rima con l’assenza manifesta perché la realtà di qualcosa come una cripta o una tomba è la prova sufficiente dell’avvenimento reale in essa incistato alla stregua di un morto-vivente.

E tuttavia, la realtà metapsicologica del segreto è parallela a quella del mondo esterno: parallela in un modo che, proprio il termine “unheimliche” rivela. Equivoco, questo conio linguistico della lingua tedesca che Jentsch non ha esitato a giudicare “felice”, contiene in sé l’idea di una polarizzazione. La realtà psichica, in quanto Eden, è un campo magnetico in cui i due poli del noto e dell’ignoto, del familiare e dell’estraneo possono all’occorrenza scambiarsi di posto. Ed è questa reversibilità improvvisa la causa di quello strano sentimento che Freud, procedendo in modo incerto, chiama “perturbante”. Che si tratti di un sentimento del reale è presto detto: nel perturbante, dice Freud, “non ci si raccapezza” e, per Lacan, solo l’urto col reale ci manda alla deriva. Meno certo è che il reale di cui qui è questione coincida col solo rimosso.

C’è, per così dire, un’altra incertezza intellettuale suscitata da questa misteriosa Stimmung che, sempre Jentsch, ha detto risolversi in un rompicapo del Verstand e, sulla sua natura, abbozzeremo un’ipotesi in conclusione.

 

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Cristiana Cimino

L’Unheimlich freudiano è legato all’angoscia di castrazione, sia dal lato della minaccia di evirazione (accecamento da parte di Sabbiolino-Coppelius), che da quello della scoperta dell’assenza di pene nella donna (l’antica e perturbante Heimat dell’uomo). L’attribuzione di un sentimento di “angoscia e orrore” alla mancanza (di organo) è coerente con la concezione freudiana di invalicabilità di questo limite estremo, che resterà invariata e, se possibile, si rafforzerà nel tempo. L’incontro con un doppio (a differenza dello specchio) che incarna la mancanza, reifica, in qualche modo, il soggetto e genera così il sentimento del perturbante. Proprio il tema del sosia permette a Freud di affrontare quello della ripetizione e della sua ineluttabilità, rivelando la contiguità di questo testo con l’altro del ’19 ossia Al di là del principio del piacere. Dal piano dell’angoscia di castrazione Freud si sposta sul piano pulsionale, e precisamente di quella pulsione che torna con insistenza sul “luogo del delitto”, guidata dal desiderio-godimento di ri-trovare das Ding, idea che permea implicitamente tutto Al di là del principio del piacere, cosa che Lacan aveva capito benissimo. Sebbene non spiri “il soffio oceanico” come sull’Acropoli, ci troviamo, attraverso un’altra strada (l’angoscia) nel “territorio proibito (Fachinelli)” o reale della Cosa, oltre il potere significante, nel quale Freud non vuole addentrarsi nonostante i ripetuti tentativi.

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Attilio Balestrieri

 

Il rapporto con la diversità si accompagna al fascino destato dalla meraviglia di fronte al nuovo ed all’inatteso, ma produce anche angoscia. La paura che sorge di fronte alla diversità – e che dà ragione di tante manifestazioni di intolleranza ed ostilità – è stata oggetto d’attenzione anche da parte della psicoanalisi, che ha posto l’accento sulle sue cause più nascoste o più profonde. Un punto di riferimento fondamentale per la ricerca psicoanalitica su questo tema è rappresentato da un breve scritto del 1919, in cui Sigmund Freud considera che «la parola tedesca unheimlich (perturbante) è evidentemente l’antitesi di heimlich (confortevole, tranquillo, da Heim, casa ), heimsh (patrio, nativo), e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare. Naturalmente, però, non tutto ciò che è nuovo ed inconsueto è spaventoso, la relazione non è reversibile; si può dire soltanto che … quanto più un uomo si orienta nel mondo che lo circonda, tanto meno riceverà un’impressione di turbamento (Unheimlichkeit) da cose o eventi » (Opere vol. IX, Boringhieri , Torino 1977, p.82-3). Quando questo orientamento è smarrito, il mondo non è più familiare (heimlich), non è più la casa (Heim) dell’uomo, ma diventa la dimora dell’insolito, dell’inquietante, per l’appunto del perturbante. Recuperando anche il secondo significato di heimlich, che rimanda a ciò che è nascosto e segreto, Freud afferma che quando ciò che doveva rimanere nascosto e segreto (heimlich) è invece affiorato (unheimlich), il proprio mondo interiore subisce una scossa, e ciò che prima era familiare si presenta come insolito: «questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo e di estraneo, ma è invece un che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi e ad essa estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione. Il rapporto con la rimozione ci chiarisce ora anche la definizione di Schelling, secondo la quale il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece affiorato» (p.102 ). Questo tema è stato sviluppato in particolar modo da Julia Kristeva, che ha passato in rassegna le principali concettualizzazioni formulate e le principali posizioni assunte – soprattutto nell’ambito della cultura occidentale – nei confronti dello straniero, inteso come principale figura portatrice di diversità. Sostiene l’Autrice: «Nel rifiuto affascinato che suscita in noi lo straniero, c’è una parte di inquietante estraneità nel senso della depersonalizzazione che Freud ha scoperto e che si ricollega ai nostri desideri e alle nostre paure infantili dell’altro … Lo straniero è dentro di noi. E quando fuggiamo o combattiamo lo straniero, lottiamo contro il nostro inconscio – questo “improprio” del nostro impossibile “proprio”. Delicatamente, analiticamente, Freud non parla degli stranieri: egli ci insegna a scoprire l’estraneità dentro di noi. E questo è forse il solo modo di non perseguitarla fuori. Al cosmopolitismo stoico, all’integrazione universalista religiosa, succede in Freud il coraggio di dirci disintegrati, non per integrare gli stranieri e ancor meno per perseguitarli, bensì per accoglierli in quella inquietante estraneità che è loro come nostra … un invito (utopico o modernissimo?) a non reificare lo straniero, a non fissarlo come tale, a non fissar noi stessi come tali … un cosmopolitismo di tipo nuovo che, trasversale ai governi, alle economie e ai mercati, opererebbe per una umanità la cui solidarietà sarebbe fondata sulla coscienza del suo inconscio» (Kristeva J., 1988, Etrangers à nous-mêmes, Fayard, Paris, Feltrinelli, Milano 1990, p.174-5).

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Fabio Ciaramelli

“Il “perturbante” e la legge”

Ciò che a me pare filosoficamente in gioco in Das Unheimliche – cioè, per dirla in breve, l’estraneità del proprio, o, riprendendo la traduzione francese di Olivier Mannoni (Payot 2011), l’inquiétant familier – concerne un turbamento, uno spaesamento, un disagio che non provengono dall’alterità esterna a noi, ma dalla nostra stessa intimità: da un estraneo che abita dentro di noi. Questa peculiare forma di spavento, angosciante proprio perché emerge dal più profondo di noi stessi, ha certo anzitutto una rilevanza “estetica”, a patto, ovviamente di non ridurre quest’ultima “alla teoria del bello, per descriverla, invece, come la teoria delle qualità del nostro sentire”, come Freud precisa all’inizio del saggio. Ma ciò che i Greci chiamavano poetica e che da Kant in poi chiamiamo estetica ha molto da dire alla filosofia überhaupt.

In questa prospettiva, la portata generale della riflessione di Freud nel testo sul “perturbante” (pubblicato nel 1919, sulla base di un saggio tenuto a lungo nel cassetto) si comprende meglio se vi si legge l’eco di quella delusione del “cittadino del mondo civile” che Freud evoca nel 1915, quando osserva che costui, a causa della guerra, “si sente smarrito in un mondo che gli è divenuto straniero”. Gli diviene straniero ciò che fino ad allora gli era stato familiare. Ne consegue che la scoperta del carattere effimero e transitorio di tutto ciò che fino ad allora poteva pretendersi o sperarsi stabile e incontrovertibile, “si riduce – precisa ancora Freud – al crollo di un’illusione” (“Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”, OSF, vol. VIII, p. 128. La sottolineatura della sofferenza che genera questa scoperta era già al centro del testo sulla “Caducità [Vergänglichkeit]”, nato da una passeggiata nelle Dolomiti “l’estate precedente la guerra”).

Sullo sfondo di quella delusione “epocale” e del suo graduale aggravarsi nelle esperienze degli stati totalitari culminanti nei massacri di massa, la storia politica del Novecento va letta come l’esplicitazione del carattere uheimlich,”perturbante” o “spaesante” della legge, dal momento che in quest’ultima non si manifesta affatto la dimensione universale e necessaria della razionalità umana ma l’arbitrio, l’aggressività e la violenza delle pulsioni inconsce. In questo senso, i testi freudiani sulla “cultura”, che dopo quello sul perturbante si fanno sempre più frequenti, mi sembrano costituire una radicale smentita alla concezione kantiana della sublime, che il filosofo di Königsberg interpretava come inoppugnabile testimonianza della presenza del sovrasensibile nell’umano.

Riletta oggi, alla luce del Novecento compiuto e dispiegato, la nozione freudiana di unheimlich si presenta dunque come la consumazione e il capovolgimento del sublime kantiano. Le due nozioni svolgono una funzione analoga: più che applicarsi a questo o quell’oggetto (da sottoporre al giudizio di gusto), esse fanno riferimento al vissuto soggettivo, alla sua precarietà. Ma quest’ultima solo in Kant diventa l’attestato della destinazione sovrasensibile dell’umanità, grazie all’autodonazione della legge.

Ebbene, è esattamente nella legalità della legge che, negli stessi anni di Freud, Max Weber individua il fondamento della dominazione legittima, in quanto appunto razionale, cioè universale e necessaria. Ed è proprio questa presunta invulnerabilità della legge che la scoperta freudiana dell’estraneità del proprio riesce a mettere in discussione. Già all’indomani della morte di Weber (1864-1920) nel testo sulla Psicologia delle masse e analisi dell’Io Freud presta attenzione alla “sete di sottomissione” che, secondo la formula di Le Bon, anima le masse e vi individua il fondamento pulsionale della dominazione, facendo così emergere il carattere perturbante e non sublime della legge e della sovranità di quest’ultima.

 

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Silvia Vizzardelli

“Il perturbante: magismo e inerzia psichica”

Il perturbante non ha altra ambientazione che quella del pensiero magico. Esclusioni intestine o inclusioni clandestine sono gli atti spettrali che lo caratterizzano. Partiremo da un esempio musicale: Wenn mein Schatz Hochzeit macht. Il primo dei Lieder eines fahrenden Gesellen di Mahler (1884-85). Mahler offre spunti notevoli a chi si occupa del perturbante in musica, perché la sua sensibilità è tutta raccolta intorno al tentativo di integrare l’opposizione in una logica dell’intimità differenziale. Isola una cellula melodica, ce la fa ascoltare come un imbozzolamento ritmico autonomo per poi integrarla nel tessuto del canto. All’interno di questo tessuto mantiene la sua differenza dal canto, senza mai scivolare nell’identità o nella opposizione. E’ in generale la musica che è capace di farci assaporare il senso di una compenetrazione che mantiene la differenza. E Mahler porta alla massima vividezza tale funzione.

Gli anni in cui Freud lavora al saggio sul perturbante sono anche quelli in cui intraprende la stesura di Al di là del principio di piacere (1920). Il filo rosso che tiene unita la claudicante elaborazione di questi anni è il tentativo di opporre alla logica opposizionale del pensiero occidentale una logica della differenza, avrebbe detto Derrida. E questa logica si insinua prepotentemente e in modo illuminante anche all’interno di quello che sembrerebbe il modello della opposizione princeps: vita-morte.

Una specie di corpo estraneo lavora nel nostro spazio mentale. Mentre la parola si muove in avanti, inseguendo il senso, in un altro luogo, spazio profondo, criptico, si disegnano consistenze plastiche che a tutto aspirano meno che a dissolversi, sciogliersi, dileguarsi. Sono piuttosto ‘figure’ che resistono, conservano, trattengono, parassitano il pensiero. Queste straordinarie intuizioni sono suggerite a Derrida, peraltro attento lettore di Al di là del principio di piacere,  dalla lettura di un testo chiave per il discorso che faremo: Il Verbario dell’Uomo dei Lupi di N. Abraham e M. Torok. E’ importante raccogliere l’invito di Derrida a servirci del concetto di incorporazione e di produzione fantasmatica per penetrare i segreti della magia. E’ interessante questo capovolgimento di direzione: la magia non viene presentata come un discorso stravagante che attende di essere illuminato, o rigettato, bensì come il sistematico ripresentarsi di fenomeni che costituiscono l’impalcatura, demonica quanto si vuole, della nostra comune esperienza psichica. Derrida ci suggerisce cautela, prudenza, incredulità dove si maneggiano parole del senso comune, e coraggio, fidatezza,  dove si avvicinano mondi magici. Siamo cioè abituati a trattare con disinvoltura i fenomeni legati alla creatività, all’immaginazione, alla fantasia, alla memoria, considerandoli di casa, e a drizzare le antenne del sospetto, quando si parla di materializzazione, teleplastia, ideoplastia, incorporazioni. Quanta magia si annida, invece, proprio nei percorsi dell’immaginario? Insomma, per comprendere il mondo magico occorre volgere l’attenzione al normale funzionamento della mente umana. Non abbiamo forse già convocato tutto un armamentario magico-allucinatorio per poter parlare di quello strano sentire che importa, incorpora ciò che in un primo tempo si presentava come clandestino?

 

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Gabriele Frasca

“In camera

Per una permeabilità delle mura domestiche”

 

Perché il saggio sul Perturbante, a inquadrarlo come talvolta occorre fare nell’indice rigorosamente cronologico delle Opere, è così perfettamente incorniciato fra i due brevi interventi che Sigmund Freud dedicò alle nevrosi di guerra? Una ben nota lettera a Ferenczi ci ricorda come per scrivere questo breve saggio Freud accantonasse per un po’ la stesura di Al di là del principio di piacere, ma sappiamo anche per certo che si trattò per l’occasione del recupero di un materiale che aveva cominciato a sedimentare fra il 1912 e il 1914, e dunque tutt’intorno alla scampagnata antropologica di Totem e tabù. Che cosa dunque mancò in quei sette anni al concetto di “perturbante”, che Freud aveva preso a sviluppare probabilmente a partire dalla riscoperta dall’animismo, al punto da lasciare il saggio in latenza? E perché la soluzione per affiorare attese che a dissodare il terreno ci pensassero le bombe della guerra? E soprattutto, e alla vigilia di quella che si potrebbe definire la nuova svolta naturalistica di Freud, quella che gli consentirà insomma di raccontare la favola stessa dell’origine della vita nel grande saggio metapsicologico del 1920, come mai leggendo Das Unheimliche si ha la strana sensazione che la cara vecchia casa borghese si dissolva, con tutto quello che questa aveva significato per la psicoanalisi, per lasciare il posto a un paesaggio più che arcaico spettrale? E, infine, perché Freud, si sente in dovere di dichiarare in prima battuta «una sua particolare sordità in proposito», e dunque la circostanza di non provare nulla di perturbante «da parecchio tempo», per poi smentirsi per ben due volte con l’esempio della sua immagine riflessa nel vagone letto, e quello ancora più inquietante della cittadina italiana col suo stregato quartiere a luci rosse? In poche parole: che cosa s’annida di perturbante nel saggio sul Perturbante?

 

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European Journal of Psychoanalysis