Alcune riflessioni sulla pandemia

“Ricordi un periodo così pieno di morte come questo?” Così scrisse Freud agli inizi del 1920, dopo la morte della figlia Sophie a causa della cosiddetta Influenza Spagnola, la pandemia che provocò oltre 50 milioni di morti in tutto il mondo.  Anche la moglie di Freud, Martha, e tutti i loro figli se ne ammalarono, ma sopravvissero. Tuttavia, leggendo oggi la corrispondenza di Freud, è incredibile dover constatare quanti pochi accenni ci siano alla pandemia. Allo stesso modo, le raccolte di lettere pubblicate da altri analisti dell’epoca, nonché i loro libri e i loro diari, a stento accennano alle devastazioni provocate da una malattia che ha fatto un numero di morti ben superiore a quello della Prima Guerra Mondiale.

Molti di noi sapranno forse qualcosa sulla Spagnola dai racconti dei nonni che da bambini hanno vissuto quegli anni di pandemia e le storie sui parenti che ne sono morti. Ma stranamente manca una memoria culturale di quello che fu un evento immane.  Il capitolo conclusivo di uno dei primi studi accademici sull’argomento, quello di Alfred Crosby intitolato America’s Forgotten Pandemic(“La pandemia che l’America ha dimenticato”), è dedicato non alle nuove malattie emergenti, ma all’amnesia.  Esaminando sette libri di testo di storia americana tra i più venduti, notò come tra tutti vi era una sola frase che accennava alla Spagnola.

Anche la nostra ‘nuova normalità’ comporterà un’amnesia, un oblio dei morti e degli effetti globali di una malattia che ha già avuto un impatto sconvolgente a ogni livello della società?  Oggi le cose parrebbero indicare il contrario.  Della pandemia se ne parla ininterrottamente, le televisioni, gli aggregatori di notizie e i media di ogni tipo ci raccontano ogni risvolto del Covid e dimenticarsene sembrerebbe praticamente impossibile.  Tutto questo, oltre a fornirci informazioni e dati, si accompagna a un linguaggio della pandemia, un nuovo lessico per parlare della situazione in cui ci troviamo.

Ogni paese ha ormai le sue frasi fatte: stiamo vivendo giorni ‘straordinari’ o ‘complicati’, si teme una ‘seconda ondata’, si consente di frequentare i ‘congiunti’ e si spera in ‘ponti aerei’.  Il modo in cui veniamo bombardati da queste espressioni ripetitive e vuote è rivelatore in sé.  Il conio di un nuovo lessico rappresenta una reazione umana basilare a una crisi, a un trauma.  La prima cosa che si tende a fare è dare un nome, ma la pandemia ci mostra chiaramente l’ampia differenza tra nominare e conoscere.

Il nuovo linguaggio potrà anche lasciar intendere una certa padronanza della situazione che stiamo vivendo, ma non aggiunge nulla a ciò che sappiamo o a cui possiamo dare un senso.  Eppure qui la conoscenza rappresenta una moneta chiave che ha assunto due forme alquanto diverse durante la pandemia, una pubblica e una privata.  Nelle fasi iniziali, tra marzo e aprile, vi erano costanti riferimenti a conoscenze personali, private: ‘Il mio amico’ che lavora al Ministero della Salute o nella pubblica amministrazione o in un reparto di terapia intensiva mi ha dato per certo che il lockdown avrà inizio/finirà tra tot giorni, o che ci sarà una carenza di PPE (dispositivi di protezione personale) entro una certa data, o che questo determinato farmaco è la vera panacea.

Molti hanno ricevuto la famosa ‘lettera di Stanford’, una email presumibilmente inviata da un medico della facoltà di Medicina dell’Università di Stanford che prescriveva cosa fare per evitare di infettarsi.  Alla fine si è rivelata una bufala e i consigli che vi si impartivano erano banali e ampiamente noti.  Ma ciò che questa lettera ha fatto emergere in modo lampante è quanto fosse importante l’accesso a una fonte esclusiva, a una catena che connettesse il ricevente a un serbatoio segreto di informazioni.  Avere finalmente una fonte affidabile poteva sembrare un perfetto antidoto alla cultura delle ‘fake news’, ma toccava qualcosa di molto più profondo.

Ricordiamoci che ormai siamo quotidianamente infantilizzati.  Ci viene detto quello che dobbiamo e non dobbiamo fare per salvaguardare noi stessi e gli altri in modi che probabilmente non ricordavamo da quando eravamo bambini.  È qualcosa che inevitabilmente risuscita in noi i nostri primi rapporti con il sapere: cosa sanno i grandi che noi non sappiamo?  Che cosa ci nascondono?  Come faccio ad accedere al loro sapere proibito?

Si fa fatica a non riconoscere in queste affermazioni di un sapere illecito, riservato, sul Covid le stesse di un bambino che arriva al cortile della scuola foriero di inedite e devastanti informazioni su come nascono i bebè.  E nell’esigenza quasi compulsiva di condividere la Lettera di Stanford e quello che la fonte ci ha comunicato, non cogliamo forse quel certo senso di colpa infantile che circonda un sapere proibito, un sapere che va passato agli altri per alleggerirne il peso?

A questo fa eco il modo in cui ci vengono presentati i reparti di terapia intensiva, con un misto di fascino, soggezione e terrore.  Cosa succede in questi spazi inaccessibili dove la vita è appesa a un filo?  Come si comportano realmente i protagonisti dietro le quinte?  Le rare incursioni televisive in questi spazi non sono riuscite a fornire una risposta e forse evocano la curiosità infantile per la camera da letto dei genitori, una curiosità venata di avversione e timore.

Evocare i quesiti della nostra infanzia potrebbe sembrare irrilevante riguardo alla crisi che stiamo vivendo, ma tuttavia essi plasmano quasi ogni aspetto del nostro comportamento, anche quando questo può mettere a repentaglio vite altrui.  Durante l’infanzia non impariamo la cautela per prova ed errori, non ci fiondiamo in mezzo alla strada per imparare che le auto sono pericolose.  Al contrario, apprendiamo la cautela imparando a obbedire, quindi alla fine le regole della cautela sono quelle dell’obbedienza.  Ora, se poi un bambino si trova da solo e decide di fiondarsi e attraversare una strada trafficata da solo, è probabile che abbia più paura di essere scoperto da un genitore che non di essere investito da un’automobile.

Quindi, il rischio e la cautela non comportano semplicemente il modo di evitare pericoli concreti, ma hanno a che fare con la percezione degli altri su come dovremmo comportarci, con il modo in cui saremo giudicati e valutati.  Alcuni studiosi del Blitz (la campagna di bombardamenti tedeschi ai danni del Regno Unito durante la seconda guerra mondiale) hanno evidenziato che molti cittadini oscuravano solo le finestre delle loro abitazioni che davano sulla strada, trascurando di fare altrettanto per quelle che davano sul retro.  Ovviamente un oscuramento fatto in tal modo non avrebbe scoraggiato i bombardieri tedeschi, ma avrebbe tenuto buoni gli addetti alla protezione antiaerea, i quali controllavano esclusivamente le facciate principali delle case.

Questi atti di disobbedienza svolgono diverse funzioni.  Quando si viene a sapere che alcuni scienziati o politici hanno infranto le stesse regole e linee-guida da loro prescritte, la reazione tende a essere di sdegno e di rabbia.  Come hanno potuto?  Hanno messo in pericolo la vita delle persone con i loro comportamenti ipocriti!  Il fatto che si considerano delle eccezioni è giudicato qualcosa di inaccettabile, eppure non è questo un proprio desiderio che segretamente tutti nutrono?  La cultura Popolare – da ‘Guerre Stellari’ a ‘The Umbrella Academy’ – gioca su questo tema di un’unicità nascosta che saranno gli altri a scoprire.  E come confermano gli studiosi dell’infanzia, quando due genitori accolgono la loro creatura appena nata, le cose potrebbero non andare nel migliore dei modi se la considerano un mero dato demografico e non un essere unico, speciale ed eccezionale.

Per cui in tanti si sentono di biasimare gli altri per aver infranto quelle stesse regole che essi stessi trasgrediscono, come se la sola unicità che conti qualcosa fosse la propria.  Questo lo hanno notato molti storici delle epidemie e delle pandemie, dalla Peste di Atene alla Spagnola: quando le regole e le leggi sono così stringenti, molti tendono a comportarsi come se la legge si applicasse a tutti tranne che a sé stessi.

Se la vita stessa si basa sul nostro sentirci in qualche modo diversi, eccezionali, non solo si può avere la sensazione che le regole non si applichino a noi, ma si può anche agire attivamente per trasgredirle.  Ritorniamo ancora alla situazione del bambino, a differenza dei piccoli della maggior parte delle altre specie: nei primi anni di vita il bambino umano è indifeso e totalmente dipendente dai propri genitori o badanti – interpellato, discusso, spostato qua e là, praticamente senza alcun potere di imporsi.  In queste circostanze come possono formarsi una soggettività e una capacità di agire se non tramite atti di rifiuto?  Respingere il seno o il biberon, per esempio, e più in là scuotere la testa, potrebbero rivelarsi le prime forme di autoaffermazione e quindi dotate di un valore unico.

Definiamo noi stessi tramite atti di negazione nei confronti delle nostre prime autorità, e quindi nei romanzi e nei film, quando, per esempio, un computer comincia a diventare ‘come noi’, a sviluppare un agire indipendente, il primo atto tende a essere un rifiuto.  Risponde di ‘No’ ai propri padroni.  La nostra soggettività è qui formata in rapporto a norme di comportamento imposte dall’esterno, e il classico esempio di questo è l’addestramento all’uso del vasino.  Il bambino impara a fare i propri bisogni quando gli viene detto di farlo, ma c’è una differenza tra farlo per paura e farlo per accettazione.

Quando ci viene imposta una norma comportamentale a noi aliena, possiamo accondiscendere ma al contempo nutrire un risentimento bruciante.  Questo potrebbe portarci ad attraversare la vita con una personalità gentile e arrendevole che però cela una pervicacia vendicativa.  Chiunque abbia mai lavorato in gruppo avrà forse notato questo aspetto del comportamento umano: che qualcuno che dice sempre Sì sta forse mettendo in atto (acting out) un No.  Non a caso quando durante la pandemia cominciamo improvvisamente a ricevere istruzioni che regolano così tanti aspetti delle nostre azioni vediamo un moltiplicarsi di atti di disobbedienza, sia discreti che plateali.

Quando questi balzano all’attenzione dell’opinione pubblica, il colpevole può essere punito o linciato, ma dovremmo riconoscere qui il quadro più ampio dei concetti di colpa, accusa e responsabilità.  Alcuni studi pioneristici sulle emergenze nazionali degli anni 50 e 60 hanno individuato uno schema piuttosto prevedibile.  Innanzi tutto, un’idealizzazione, di solito di operatori sanitari o soccorritori.  Contemporaneamente, un’individuazione di capri espiatori in alcune figure politiche o in minoranze etniche.  Infine, una cultura di accusa, a livello locale o nazionale.  Coloro che hanno donato generosamente cominciano a pentirsi della loro beneficenza e cercano di essere rimborsati; nascono sospetti su coloro che hanno accettato gli aiuti; cominciano ad apparire articoli sui media riguardanti richieste illegittime di aiuti statali; sempre più persone cominciano a pensare che non abbiano ricevuto la parte del piatto degli aiuti che spettava loro; l’entusiasmo dei volontari comincia a scemare.

La terza fase, quella in cui cerchiamo qualcuno a cui dare la colpa, deve essere riconosciuta e contemplata.  Il virus in sé sembra stranamente privo di colpe, e cerchiamo una causa umana, un atto di negligenza, di avidità o corruzione lì dove possiamo circoscrivere qualche responsabilità.  Il modo di identificarlo può spaziare dal commento di un bambino di cinque anni – ‘Io a quello che si è mangiato il pipistrello lo odio’ – alle numerose teorie complottistiche riguardanti il laboratorio di Wuhan o il 5G.  Alla base di questa crisi globale deve per forza esserci un reato o una violazione.

Quando una particolare teoria viene definitivamente smontata, ne cerchiamo altre, come parte di una ricerca di colpe che riflette lo schema concentrico del contagio.  Data la devastazione causata dalla pandemia covid, come possiamo localizzare la rabbia e il senso d’ingiustizia?  La questione della responsabilità può aiutarci a spiegare uno strano fenomeno che è stato notato da terapeuti di diversi paesi: chi ha una storia pregressa di sintomi ansiosi acuti, che spesso gravitano proprio attorno alla paura di un contagio, appare in questo caso meno ansioso, mentre chi non ha mai sofferto di ansia o ne ha sofferto poco, può improvvisamente provarla.  Perché quindi non siamo tutti più ansiosi in generale?

Queste idee di contagio sono molto diffuse e classicamente vengono interpretate come il tentativo di nascondere il desiderio di toccare.  Reprimiamo la nostra voglia di toccare perché vorremmo effettivamente toccare, con intenzioni aggressive o sessuali immaginate per danneggiare l’oggetto.  Il desiderio di fondo viene represso, quindi non ne siamo consci, e invece siamo soggetti a sintomi dolorosi in cui temiamo di contagiarci e contagiare.  Dovrei o non dovrei abbracciare mia madre o mio padre?  Cosa penseranno se non lo faccio?  Le nuove regole di distanziamento sociale e igiene sono una buona notizia in questi casi, perché sostituiscono una proibizione interna con una proibizione esterna.  Non dobbiamo più lottare contro noi stessi perché una proibizione esterna ci fornisce già la restrizione.  Di conseguenza si presenta una riduzione dell’ansia.

Questa rimozione delle responsabilità personali è ben accolta anche da chi ha problemi di distanza interpersonale.  Quanto voglio che gli altri mi si avvicinino?  Come faccio a creare una distanza appropriata dagli altri?  Come faccio ad assicurarmi che gli altri rispettino il mio spazio personale?  L’imposizione esterna di regole estremamente inequivocabili e concrete riguardo l’osservazione della distanza sociale aiuta a creare e rafforzare le barriere che molti percepiscono come mancanti nella vita di tutti i giorni.  Ora che in alcune parti del mondo queste regole di distanziamento sono in fase di rilassamento o di abbandono, potremmo aspettarci un aumento degli sforzi per ristabilire la giusta distanza – qualcosa che in alcuni casi potrebbe assumere forme violente.

Un altro aspetto rilevato da questi terapeuti è che la paura d’infettare gli altri è molto più frequente di quella di infettarsi personalmente.  Ora, questo potrebbe essere un artefatto causato da una scarsa rappresentatività delle nostre popolazioni di pazienti, ma riflette una preoccupazione più generale.  Verso l’inizio della pandemia molti teorici della società si sono trovati a disagio, perché i loro sistemi di convinzioni andavano aggiornati.  Il tardo capitalismo privilegia i mercati finanziari rispetto alla vita umana, quindi come è stato possibile che l’economia venisse messa a repentaglio in modo cosi clamoroso dai vari lockdown?  I conti sembravano non tornare, a meno che non ci fosse il timore che troppi lavoratori avrebbero perso la vita, ma neanche questo si adeguava ai dati, data la differenza tra i tassi di morbilità e quelli di mortalità.

Qui potremmo citare la battuta che gira tra i medici: “se cinquant’anni fa era una tragedia perdere un paziente, oggi la vera catastrofe è perdere la cartella clinica di un paziente”.  In altre parole, la chiave è la responsabilizzazione, essere visti come burocraticamente responsabili per la vita umana.  Ed è qui che la pandemia ha fatto emergere ancora una volta una delle conseguenze più devastanti delle moderne forme di governo neoliberali: la riduzione della vita umana ai più basilari parametri biologici.

Vediamo qui la feroce divisione tra due concezioni della vita umana: la vita intesa come corpo biologico tenuto in vita e la vita come qualcosa che coinvolge i nostri legami e le nostre esperienze.  Cos’è la vita, potremmo chiedere, se un moribondo non può dare l’ultimo saluto alla propria famiglia?  Se non puoi dare il tuo addio a un genitore, a una sorella o a un fratello prima della loro dipartita?  In che misura questo sminuisce la vita di una persona o permette di viverla dopo la perdita?

Che alcuni ospedali abbiano potuto cambiare i protocolli quando un paziente covid era prossimo alla morte, permettendo i commiati, è stato un segnale positivo, tuttavia il paradigma più ampio di considerare la vita un mero evento biologico è pervasivo.  Questo è stato documentato anche da molti operatori delle case di cura, i quali hanno notato che molti ospiti morivano dopo aver perso quel collegamento con che il contatto umano rappresentava.  La solitudine e il senso di isolamento introdotto dal distanziamento facevano sì che vi fossero meno motivi per continuare a vivere.

Il finale de La guerra dei mondi di H.G. Wells (1898) ha deluso e continua a deludere molti lettori.  Un’invasione aliena, eroi che la combattono, ma poi la vittoria arriva non per via di un atto di coraggio o di qualche nuova invenzione, ma semplicemente perché i batteri della terra uccidono gli invasori.  Vogliamo di più.  Forse vogliamo un atto violento come risposta a un atto altrettanto violento.  Wells si era ispirato alle recenti scoperte di fine Ottocento sui nessi tra malattie infettive e batteri, ma l’umana ricerca di colpe e responsabilità ha fame di bersagli umani.

Dopo la morte della figlia, Freud scrisse: “Poiché sono profondamente non credente, non posso incriminare nessuno e so che non esiste alcun luogo in cui si possa presentare una denuncia.”  Ma quanti di noi sanno che la colpa non ha sempre un bersaglio ben definito, unico e nominabile?

Data di pubblicazione:

1/09/2020

Biografia dell'autore:

Darian Leader è uno psicanalista con base a Londra e membro del Centre for Freudian Analysis and Research (CFAR) e del College of Psychoanalysts-UK.  È autore di diversi libri, tradotti in varie lingue, tra cui: Perché le donne scrivono lettere che non spediscono? (Feltrinelli, 1996); Freud’s Footnotes (“Le note di Freud”, Faber & Faber, 2000); Stealing the Mona Lisa: What Art Stops Us From Seeing (“Il furto della Mona Lisa, quello che l’arte ci impedisce di vedere”, Faber 2002); Why do people get ill?, con David Corfield (“Perché le persone si ammalano?”, Penguin UK 2008); The New Black: Mourning, Melancholia and Depression (“Il nuovo nero: lutto, malinconia e depressione”, Penguin, 2008); What is Madness? (“Che cos’è la pazzia?”, Penguin UK 2011); Strictly Bipolar (“Strettamente Bipolare”, Penguin, 2013); Mani. Come le usiamo e perché (Ponte alle Grazie, 2017).  Il suo libro più recente è Why Can’t We Sleep? (“Perché non riusciamo a dormire?”, Penguin, 2019).  Scrive frequentemente di arte contemporanea.

Share This Article

European Journal of Psychoanalysis