Autismo: traiettorie di cura con la psicoanalisi. Il caso di Riccardo

Pubblichiamo qui il contributo clinico di Carla Urbinati sulla propria esperienza con un bambino autistico. Ci auguriamo che altri siano pronti a scriverci per commentare questa esperienza, oppure per illustrarci la loro esperienza con gli autistici, oltre che con i problemi teorici che costoro sollevano.

Scrivere a: advanced.psychoanalysis@gmail.com

Qualunque sia il modello etiologico di riferimento – psicoanalitico, cognitivo o biologico –, “oggi c’è consenso nel dire che l’autismo è una patologia del legame con l’altro”[1], ad insorgenza precoce[2]. L’autismo è dunque una patologia precoce del legame Soggetto-Altro[3], in cui compromesso è il principio di pensiero e condotta, che con Freud definiamo principio di piacere. Nel libro Non ci sono. Autismo: orientamenti di guarigione con la psicoanalisi[4], grazie al supporto dell’elaborazione psicoanalitica di Giacomo B. Contri[5], con la collega Prof.ssa Maria Gabriella Pediconi[6] abbiamo tentato di mettere a fuoco l‘incipit della vita psichica e gli intoppi che in tale avvio incontra il soggetto autistico. Ci siamo interrogate su come si possa vivere in uno stato di incompiutezza della legge di moto, in assenza della rappresentazione dell’Altro come partner e quali possano essere le traiettorie terapeutiche percorribili con la psicoanalisi a favore di soggetti autistici, raccogliendo accanto a contributi dedicati alla metapsicologia, casi riusciti di trattamento. Alle pagine che seguono è dedicata la descrizione di alcuni bivi decisivi nella tardiva, ma comunque possibile, opera di composizione della legge pulsione[7], attraverso la presentazione di tratti salienti del lungo lavoro terapeutico svolto con Riccardo, un bambino autistico. A lui, che per anni ha continuato a vivere come dicendo: “Non ci sono!”, è dedicato il libro che ha saputo ispirare.

 

       L’incontro con i genitori: quale domanda?

 

Ricordo in modo vivido il primo incontro con i genitori di Riccardo, l’incipit di un rapporto che sarebbe durato anni. Entrambi erano molto angosciati ed impauriti, benché il contenuto della problematica esplicitata – un’enuresi secondaria a seguito dell’ennesima influenza – non presentasse elementi di gravità. Solo in seguito mi avrebbero raccontato che il pediatra li aveva sollecitati a richiedere una valutazione psicologica e neuropsichiatrica del bambino.

Poco prima di salutarci, come ad integrare con un dettaglio irrilevante quanto già comunicato, aggiunsero: “a scuola Riccardo piange spesso, si isola e non parla con nessuno. Le maestre dicono che dovrebbe stare di più con i bambini”.

Durante il colloquio non avevano parlato liberamente, ma misurato accuratamente frasi e parole, aspettando che fossi io a porre domande e rispondendo attenendosi solo a quanto richiesto, senza sviluppare collegamenti o nessi. Chiedevano aiuto sì, ma senza dichiarare apertamente per cosa lo stessero domandando.

Il primo colloquio si concluse con un non detto, di cui era percepibile il gravoso peso. Sul momento trovai significativa questa formulazione trattenuta della domanda, e pensai che tale elemento non andasse trascurato.

 

L’anamnesi di Riccardo: il bambino raccontato

 

Riccardo al momento dell’invio ha quattro anni. Sin dal primo anno dorme molto e mangia poco, non viene allattato al seno, cammina verso i diciotto mesi e inizia a dire alcune parole a due anni. Il controllo sfinterico viene raggiunto intorno ai due anni e mezzo. Dorme già da tempo nella sua cameretta e la separazione notturna dai genitori non ha comportato alcuna difficoltà.

Nei suoi primi quattro anni si ammala spessissimo. A scuola “non tocca cibo”. A casa mangia poco, sempre le stesse cose, “ma almeno non digiuna”.

A volte resta seduto per ore, in silenzio, nello stesso posto, con alcuni oggetti-giochi attorno a sé, ma non li tocca. Se lo chiamano, non risponde e resta lì, immobile. Per farlo alzare occorre quindi toccarlo, aiutandolo fisicamente. Una visita audiologica ha escluso i problemi di udito che i familiari avevano ipotizzato verso i tre anni, considerate le reiterate mancate risposte del figlio alle loro richieste.

In casa non si sposta mai da solo da una stanza all’altra. Se chiamato “non risponde e resta dove si trova”. Sono i genitori o i nonni che devono raggiungerlo e, se serve, portarlo in un’altra stanza. Anche quando è malato fa lo stesso, non chiama nessuno; i genitori sottolineano che “non ha mai chiesto aiuto”. Più di una volta, di notte, lo hanno trovato nel suo letto febbricitante, sudato ed evidentemente sveglio già da tempo, senza che avesse però fatto niente per richiamare la loro attenzione.

Riccardo non chiede nulla. Non fa domande, né ricerca attivamente l’intervento dei genitori; a volte piagnucola in modo soffocato, senza gridare né mostrare rabbia; al più lascia intuire un fastidio. In questi casi i genitori interpretano, di volta in volta, la specifica necessità del figlio e cercano di trovare soluzioni adeguate; alcune volte riescono subito, altre volte procedendo per tentativi ed errori ci impiegano più tempo, mentre il bambino continua a produrre lamenti monotoni. Parla poco e comunque solo con i genitori o i nonni; le sue frasi sono minime, per lo più usa parole-frase che formula ripetutamente. Non appare interessato né alla televisione, né ad alcun cartone specifico. In genere non guarda lo schermo.

La vita sociale della famiglia è inesistente. “Riccardo è spesso malato e questo ha ostacolato le uscite”. Il passeggino è ancora nuovo, mai utilizzato.

Il bambino evita parenti o vicini; manifesta malessere, disagio quando viene accompagnato a casa di qualcuno. All’inizio non vuole entrare, poi si nasconde dietro i genitori e piange; “queste reazioni hanno determinato la riduzione delle visite al minimo”.

Non gioca mai con altri bambini e non li cerca, ma alla scuola materna li preferisce alle maestre. Quando qualcuno lo avvicina al momento dell’ingresso, lui resta immobile, indifferente e muto, ma non piange. Si dispera invece durante l’ora di musica, quando i compagni cantano e suonano i tamburelli o altri strumenti. Al riguardo i genitori commentano: “In casa nostra c’è sempre molta tranquillità e quindi forse i rumori forti lo spaventano, non è abituato.”. Raccontano che le insegnanti hanno insistito perché accompagnassero Riccardo alle feste di compleanno, ma in due anni non sono mai riusciti a farlo “perché lui è sempre malato”.

Quando l’appuntamento sta per concludersi mi dicono, con un po’ di imbarazzo, che Riccardo sa leggere le lettere e conosce bene i numeri, già da quando aveva circa tre anni. L’informazione è riferita come se dovessero giustificarsi e scusarsi per queste conoscenze del figlio.

Comprenderò più tardi che, preoccupati per le caratteristiche del bambino, avevano dedicato tempo a presentargli numeri o lettere e poi, riscontrato un certo interesse di Riccardo, cosa alquanto rara; avevano così fatto di lettere e numeri il loro “gioco” preferito con il figlio. In seguito tuttavia si erano reciprocamente colpevolizzati per aver favorito questi passatempi, ipotizzando che potessero averlo distolto dalle attività tipiche di un bambino della sua età.

 

Riccardo ed il suo biglietto da visita: “tre”[8]   

 

Riccardo al momento del nostro primo incontro è un bambino di quattro anni, ha capelli scuri ed una carnagione bianchissima; molto magro, si muove lentamente e di traverso, avanzando con la parte destra del corpo e trascinandosi dietro la sinistra. Comprenderò solo più tardi, che questo modo di procedere faceva parte di un più articolato modo di Riccardo di “essere nel mondo”: ridurre l’impatto sulla realtà, vivendo in punta di piedi o trascinandosi.  Non mi guarda e non guarda neppure i genitori; nonostante gli occhi siano aperti sembra non vedere nulla. Quando il suo sguardo incrocia il mio, mi attraversa come fossi trasparente. Il suo muoversi nella stanza appare senza meta. Arrivato in un angolo, si sposta subito da un’altra parte e così per almeno mezz’ora; si dirige di preferenza verso gli spazi in cui non ci siamo né io né i suoi genitori. Non tocca nulla, ma ad un certo punto dice: “tre”! Dopo qualche perplessità mi accorgo che tre è il numero indicato su un profumo per ambienti che si trova nella stanza. Quando lo prendo in mano, o mi avvicino a Riccardo per dire qualcosa, lui si allontana voltandomi le spalle.

L’incontro si conclude senza che Riccardo mi abbia guardata e senza che mi abbia rivolto alcuna parola. I genitori appaiono più sereni rispetto ai nostri primi incontri; solo in seguito mi diranno che erano stati sorpresi dal fatto che Riccardo non avesse pianto, come faceva sempre dal pediatra, “forse – aggiungono – sarà stato per la stanza, che assomiglia più ad una casa che non ad un ospedale”.

Mi congedo da Riccardo e dai suoi genitori con il guadagno di una parola, l’unica parola pronunciata da Riccardo: “tre”.

Dopo il primo incontro, comunico ai genitori che vorrei rivedere il bambino per una valutazione, al termine della quale li riceverò per una restituzione. I genitori si mostrano d’accordo, iniziamo così gli incontri individuali.

Riccardo viene accompagnato da entrambi i genitori, quando li accolgo alla porta noto che il bambino entra con la mano della madre stretta sull’avambraccio, un po’ sopra il polso. Il tratto di strada che percorrono a piedi per entrare in studio è lungo circa venti metri, e si sviluppa in un’area privata, all’inizio della quale madre e figlio vengono lasciati dal padre, che parcheggia l’auto un po’ più avanti. É primavera, c’è bel tempo, arrivano sempre con almeno dieci, quindici minuti di anticipo, so che, una volta scesi dall’auto non possono incontrare pericoli lungo i venti metri che li separano dallo studio. Eppure il rituale dell’arrivo, che si ripete con regolarità, fa pensare all’accompagnamento di un bambino malato – a cui si cerca di evitare ogni sforzo non necessario – o in pericolo, un pericolo non realmente esistente, se non nella mente dei genitori.

Fin dal secondo appuntamento Riccardo entra da solo nella stanza e ripete i movimenti che avevo già notato, gira nello studio senza meta, nulla nell’arredamento lo interessa, neppure i giochi, i libri, i pennarelli colorati lasciati a disposizione sul tavolo o gli oggetti in un cesto.

Dopo alcuni minuti dall’ingresso in stanza, si avvicina di nuovo al deodorante per ambienti che aveva notato la prima volta, lo guarda e ridice: “tre”, fissando il numero su cui è registrata la gradazione. Approfitto del fatto che sia tornato su quest‘oggetto, l’unico a cui aveva dedicato attenzione durante il primo incontro, per avvicinarmi lentamente a lui, o meglio, per avvicinarmi al deodorante e dire ad alta voce, “ci sono anche due e quattro”, ruotando con il dito il cilindro di plastica, per mostrare, mentre li nomino, gli altri due numeri.

Lui tace, ma non si allontana, come aveva fatto altre volte quando mi avvicinavo nella zona dove si trovava per prendere una penna o chiudere la porta.

Avevo capito che potevo essergli vicino, solo se non ero in relazione con lui. Lui aveva detto “tre”, ed io avevo detto “due” e poi “quattro”. Avevo sì parlato, ma non avevo chiesto nulla, né detto alcunché di diretto univocamente a lui. C’era stata una comunicazione, ma senza domanda e senza risposta. Ritenni fosse già molto.

Negli incontri di valutazione le uniche altre parole di Riccardo erano state numeri: “ventiquattro”, “sedici”, “trenta”, ecc., cifre che poteva aver letto sul telecomando del climatizzatore, riferite alla temperatura della stanza o all’orario. Talvolta, quando si avvicinava al telecomando senza toccarlo, io lo prendevo in mano e, facendo in modo che mi vedesse, aumentavo o diminuivo la temperatura: Riccardo talvolta leggeva il numero sul display.

Durante le sedute di valutazione avevo letto ad alta voce una favola. Riccardo non aveva mostrato alcun interesse: era rimasto fermo per un po’ e poi aveva cominciato a vagare. Sembrava lontano anni luce. Non aveva mai toccato nulla. Le sue mani, sottilissime, apparivano prive di muscoli, incapaci di afferrare, molli come gli orologi dipinti da Salvador Dalì.

 

Il colloquio di restituzione: “restituire l’autismo?”

 

Gli incontri con Riccardo mi avevano permesso di raccogliere informazioni sufficienti ad una diagnosi di un Disturbo dello Spettro Autistico; risultavano ampiamente confermati tutti i criteri previsti dal DSM V.

Riccardo manifestava gravi deficit della comunicazione verbale e non verbale in vari contesti, assenza di espressività facciale e gestuale, linguaggio estremamente povero, ripetitivo e caratterizzato da ecolalie, interessi limitati, movimenti stereotipati, riluttanza ai cambiamenti – cui rispondeva con estremo stress – ed iper-reattività agli stimoli sensoriali.

Nessuna domanda veniva rivolta da Riccardo all’Altro, solo i genitori e i nonni sembravano destinatari di qualche parola. L’intero mondo degli altri risultava completamente eliso, nessuno diventava suo prossimo. Come viene osservato da Lacan,[9] il bambino autistico è nel campo del linguaggio, ma questo non si fa discorso, non diventa domanda all’Altro, la sua parola congela, si pietrifica senza farsi ponte.

Tutto confermava la diagnosi di autismo, parola che per i genitori era risultata impronunciabile e che dovevo decidere ora se e come usare. Era impossibile che il pediatra non l’avesse già compreso da tempo o che i genitori e non l’avessero almeno ipotizzata. Mi interrogavo su come trattare la restituzione. I genitori non avevano neppure sfiorato la parola autismo, benché fosse di certo il non detto che aveva angosciosamente dominato il primo colloquio, in cui avevano sostenuto di essere venuti a consultarmi per l’enuresi secondaria del bambino.

Mi domandavo quali effetti avrebbe potuto produrre su di loro quella parola impronunciabile e quali significanti avesse già prodotto; che cosa avrebbe potuto evocare il mio dichiararla e quali sarebbero state le conseguenze sui rapporti famigliari nonché sul possibile percorso di cura di Riccardo. Decisi di non affrettare l’uso dell’etichetta. Dissi che l’enuresi secondaria era solo un aspetto marginale del problema di Riccardo, mentre la sua difficoltà più rilevante riguardava il costruire legami, tessere rapporti, rivolgersi all’Altro e “stare nel mondo”.

Aggiunsi che si trattava di una difficoltà importante, di cui dovevamo occuparci senza rinvii: ci attendeva un lavoro in cui il loro contributo sarebbe stato decisivo.

Era evidente dal loro modo di parlare, quanto dalle giustificazioni per certe condotte – come l’insistenza nella presentazione al figlio di numeri e lettere -, che vivevano con un’angoscia opprimente, non raccontabile a nessuno, forse neppure a loro stessi, il terrore per la condizione del figlio.

Occorreva lavorare su tre fronti: con il genitore come soggetto, con il genitore come Altro del bambino e poi con il bambino stesso.

 

La cura: una questione di desiderio

 

Questione decisiva in ogni lavoro di cura, ed in modo tutto particolare con bambini autistici, è il desiderio. Per dirla con Lacan, “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”.[10]

Trovo utile iniziare la descrizione del lavoro svolto con Riccardo, parlando di quello che ritengo esserne stato un elemento decisivo: il desiderio. «Solo se si desidera, solo se fortemente si desidera di stabilire un qualche filo che intercorra con il soggetto autistico, astenendosi tuttavia dal domandare – sembra un paradosso, ma è così – allora c’è una chance che il bambino autistico colga il filo che gli è teso e si senta in grado di poter rispondere.»[11] Questa affermazione di Chiara  Mangiarotti descrive bene quello che ha connotato il mio lavoro con Riccardo, in particolare nei primi dodici, diciotto mesi.

La terapia iniziò con una frequenza di due incontri a settimana. Riccardo continuò per mesi a non guardarmi, a non parlarmi, a non toccarmi. Entrato nella stanza vagava per un po’, mentre io stavo seduta o sfogliavo un libro, mostrandomi disponibile nei suoi riguardi, senza però avanzare alcuna pretesa. Non appena accennavo qualcosa come “Dai vieni? Avvicinati”, lui si agitava, cominciava a muoversi come in preda a tremori ed era necessario diverso tempo, a volte decine di minuti ed un mio distanziamento fisico, perché potesse riprendere un qualche controllo di sé. Tuttavia non lasciò mai la nostra stanza.

Questi episodi sono stati per me altamente formativi: una occasione per constatare chiaramente che il desiderio di costruire un nesso con il soggetto autistico deve essere alleggerito da ogni pretesa, astenendosi da domande ed interventi diretti.

La psicoanalisi ci insegna che per tentare di costruire un ponte con il bambino autistico occorre saperlo riconoscere come soggetto, senza spaventarlo; occorre fargli un posto senza pretendere che lo occupi; occorre saperlo ascoltare anche quando sembra che non parli; occorre sapergli parlare senza che la nostra parola lo angosci.

I bambini autistici, e così Riccardo, non vogliono saperne dell’Altro. Tuttavia, anche loro, non possono esistere senza l’Altro, “anche loro sono nel campo del linguaggio”.[12] Ma allora come avvicinarli? Come applicare con loro i principi della psicoanalisi di Freud e di Lacan?

 

Quando l’angoscia si fa un po’ da parte

 

Riccardo all’apparenza risultava essere un bambino molto tranquillo, entrava nello studio senza alcuna riluttanza e durante il tempo trascorso in sala d’attesa era sempre composto e quasi immobile, accanto alla mamma. Anche in seduta era silenzioso, non produceva suoni o rumori, non toccava né urtava alcun oggetto. La sua era una presenza silenziosissima, non lasciava trasparire preferenze di alcun tipo. Decisi quindi che, in sua presenza, avrei cominciato a fare qualcosa che fosse di qualche gradimento per me, ritenendo che questo modo di procedere avrebbe potuto creare un contesto piacevole per me, in cui ci sarebbe stato spazio anche per Riccardo, se e quando avesse voluto partecipare.

Cominciai ad utilizzare il gioco della cucina. Quando arrivava, aprivo l’armadio, estraevo la scatola e iniziavo a distribuire sulla scrivania stoviglie e cibi: ortaggi, carne, uova, ecc.

Preparavo poi la tavola e organizzavo dei pranzi, apparecchiando sempre per almeno due persone. A volte giocavo al ristorante dove attendevo l’arrivo di qualcuno. Ripetei il gioco della cucina per molte settimane; sebbene con qualche variante, la cucina fu presente in tutte le sedute, per mesi. Avevo pensato che i nostri appuntamenti dovessero prevedere una certa costanza nelle proposte, utile alla presentazione di un modo “regolato”. Il gioco della cucina era l’atelier, che proponevo a Riccardo.

Accompagnavo i giochi con commenti e riflessioni ad alta voce: “Oggi ho proprio voglia di mangiare il minestrone, … ecco qua una bella zucchina, una melanzana, … ora le cucino”, oppure “ma che buon pranzetto!”, “oh, ho bruciato tutto!”. Riccardo guardava: non me direttamente, ma la zucchina, la melanzana ecc…, seguiva i miei spostamenti nella stanza, mantenendo sempre la distanza di un paio di passi e non incrociando mai i suoi occhi con i miei.

Un giorno, affaticata dal mio soliloquio, pensai di costruirmi un interlocutore … parlante. Presi allora una penna e disegnai occhi e bocca sulla zucchina, quella che tante volte avevo utilizzato per i pranzi, e cominciai a farla parlare con me. La scena incuriosì Riccardo che si avvicinò alla zucchina e la guardò con un’aria interrogativa, mai mostrata prima.

La zucchina, di lì in avanti, fu nostra compagna: io, Riccardo e la zucchina, finché un giorno, entrato nella stanza, Riccardo si diresse subito verso l’armadio, dove stavano i giochi. Si trattava di un atteggiamento che assomigliava ad un interrrogativo, sebbene formulato in modo non verbale. Decisi di trattare quest’iniziativa come una domanda e così dissi: “Giochiamo con la zucchina?”. Il mio intervento lo infastidì, era stato di troppo. Rivolto a lui, proprio a lui, lo aveva fatto sentire sovrainvestito, un fastidio che nel corso degli anni ho avuto modo di annotare più volte.

Di tanto in tanto infatti è accaduto che io avanzassi la pretesa, sottilmente buonista, che lui parlasse normalmente: domanda-risposta. Il fastidio di Riccardo offriva subito, in queste occasioni, una netta sanzione ai miei eccessi e mi offriva l’occasione per una correzione. Nel tempo questi errori sono risultati molto fecondi per le considerazioni che mi hanno permesso di sviluppare sul tema del desiderio dell’analista, in particolare a proposito dell’astinenza dell’analista come guadagno per il paziente, nonché sulle condizioni che possono promuovere o piuttosto bloccare il desiderio ed il moto del soggetto.

In quell’occasione decisi quindi di aprire l’armadio e cominciare a giocare come al solito. Lui rimase a guardare, impegnato visibilmente in un lavoro di pacificazione del fastidio che la mia domanda aveva suscitato. Nelle sedute successive fui molto attenta a non ripetere richieste dirette, finché Riccardo tornò, di nuovo, a posizionarsi davanti all’armadio.

Quel giorno estrassi la zucchina e cominciai a giocare. Quando l’ebbi appoggiata sul tavolo Riccardo lentamente allungò la mano e la prese, guardò per alcuni istanti gli occhi e la bocca che io vi avevo disegnato un po’ di tempo prima e poi la riappoggiò sul tavolo. Era la prima volta che toccava un oggetto nello studio, ed aveva toccato proprio qualcosa che aveva visto nascere lì, in diretta. Quando c’eravamo conosciuti la zucchina era infatti solo una zucchina, ma poi da quell’oggetto muto era stato generato un essere parlante. Riccardo aveva saputo rilevare la trasformazione di un oggetto in oggetto-parlante come un “soggetto”, e questa metamorfosi lo aveva incuriosito, al punto da muoverlo fino a toccarlo. Una genesi che aveva mobilitato in lui qualcosa dell’ordine del desiderio. Ed io? Io compresi che lui aveva investito con interesse il passaggio dall’inanimato all’animato, l’atto dell’ anim(a)azione non era passato inosservato[13].

Ritenni un successo quello che era accaduto: avevo avuto conferma che Riccardo poteva avere un qualche interesse a che il mondo si animasse, aveva inoltre usato le mani per toccare la zucchina vivificata. Con un aforisma, … “la fortezza non era vuota!”[14]

Nelle settimane successive, durante una seduta in cui davo voce alla zucchina con occhi e bocca, facendola parlare delle caratteristiche di altre verdure, pensai che potevo arricchire il nostro atelier, dando la possibilità alla zucchina di parlare non solo delle altre verdure, ma anche con le altre verdure. Dissi allora: “vorrei che la zucchina avesse un amico…”, lui rimase indifferente. Presi una penna e disegnai anche sulla melanzana gli occhi e la bocca. Zucchina e melanzana, una volta animate, cominciarono a parlare e a giocare. Per me era molto più semplice giocare così. Potevo trattare le due verdure come se fossero dei pupetti, soggetti che giocavano, correvano, saltavano, andavano a fare passeggiate, bisticciavano, ecc. Era un gioco normale, molto più ricco dei precedenti, un gioco di ruolo in cui realtà e fantasia potevano intrecciarsi.

Questo incremento dei personaggi lasciò Riccardo perplesso, come in sospeso. Toccava più volte sia la zucchina che la melanzana poi si allontanava, rimaneva in un angolo per un po’ o girovagava per lo studio, per poi riavvicinarsi di nuovo. Di tanto in tanto passava, come si dice “passo a farti una visita“: le sue visite erano mute, ma connotate da una certa curiosità, veniva a controllare che cosa accadeva; toccava, afferrava, a volte teneva in mano per qualche istante la zucchina o la melanzana.

Osservai che non teneva mai in mano contemporaneamente melanzana e zucchina e le afferrava sempre dalla parte opposta rispetto a quella in cui avevo disegnato occhi e bocca, che in tal modo rimanevano ben visibili. Dunque era il volto ciò che più lo interessava, proprio il volto che nei rapporti con le persone, me compresa, evitava accuratamente di guardare.

 

Un giorno, mentre lui aveva in mano la zucchina ed io la melanzana, dissi: “Ciao! “, guardando la melanzana. Riccardo rimase lì con la zucchina in mano, fermo!

Non si era allontanato, non aveva lasciato immediatamente la zucchina, ma era rimasto immobile. Si trattava di un altro step importante. Di certo importante per me: il suo esserci stato, essere rimasto nel luogo in cui io-melanzana avevo tentato un contatto con Riccardo-zucchina, sosteneva il mio desiderio di rapporto con lui, mi faceva sperare nella possibilità che potesse afferrare il filo che gli tendevo.

In seguito si moltiplicarono le situazioni in cui ognuno di noi teneva in mano zucchina o melanzana, il mio ortaggio parlava al suo e lui restava ad ascoltare. Poi il suo ortaggio cominciò a rispondere agli inviti del mio: se la mia melanzana diceva: “zucchina andiamo a fare una passeggiata?” e muovevo la melanzana come se stessi passeggiando, lui faceva muovere nello stesso modo la zucchina che teneva in mano.

Questi momenti erano di breve durata, preceduti o seguiti dalle solite modalità di spostamento nella stanza o di stazionamento in punti in cui non faceva nulla. Di tanto in tanto tornava a dire qualche numero, come era accaduto nel nostro primo incontro. I numeri erano quasi le uniche parole che pronunciava, lo rassicuravano. Le rarissime occasioni in cui aveva risposto ad una qualche mia domanda, tipo: “Giochiamo? “, o “Ti piace questo disegno? “, lo aveva fatto pronunciando un numero. Un giorno ad esempio gli avevo chiesto: “Giochiamo? “, e lui aveva risposto “sei”.

Approfittai allora dei numeri per provare ad arricchire il gioco con gli ortaggi. Proposi di farli contare, alternandoci io e lui, un numero per ciascuno, come avevo già fatto da sola impersonando sia la zucchina che la melanzana. Ma la proposta lo infastidì,  e ne compresi subito la ragione. Quando io dicevo “uno”, lui avrebbe dovuto dire “due”, il “due” sarebbe divenuto allora risposta al mio “uno”, ed avrebbe suscitato il mio “tre”: sarebbe stata dunque la coproduzione di una disposizione ordinata. Questa dinamica non sarebbe più risultata una sequenza casuale di numeri, come quelli che lui leggeva sul telecomando del climatizzatore o sul deodorante per ambienti, ci sarebbe stata una forma ordinata di relazione. Ci sarebbe stato inoltre il momento in cui, dopo aver detto il mio numero, io lo avrei guardato, attendendomi qualcosa da lui; il solo pensiero di quell’attesa, di certo lo agitava ed angosciava terribilmente. Non era ancora giunto il momento in cui poter costruire nessi dotati di un significato condiviso.

Il passo successivo nel nostro lavoro, fu segnato dalla ripetizione da parte di Riccardo di miei gesti, frasi e comportamenti. Un giorno prese infatti una banana e ci disegnò sopra gli occhi e la bocca, come mi aveva visto fare con la zucchina e la melanzana. Questa volta era stato lui a far passare qualcosa da oggetto a soggetto, aveva generato qualcuno; questa genesi era stata mediata dal gioco, dalla finzione, ma gli aveva permesso di immaginare di essere lui l’autore di questa trasformazione: questo faceva di lui un soggetto generatore, vivificante, legiferante.

 

Seguirono le ripetizioni di alcune sequenze di gioco che io avevo compiuto pochi minuti prima. Se facevo saltare zucchina e melanzana e poi le lasciavo sul tavolo per fare altro, capitava che lui le prendesse e rifacesse la stessa cosa. Così con le frasi, se io facevo dire alla zucchina: “buongiorno a tutti!“, lui dopo un po’, o nella seduta successiva, afferrando la zucchina diceva: “buongiorno“. Le mie azioni e le mie frasi erano quindi attentamente scrutate e mi sembrava che divenissero per Riccardo orme sicure entro cui poggiare i piedi, lungo un percorso incerto, in un mondo pericoloso.

Riccardo stava sperimentando le sedute come uno spazio di pacificazione, il suo modo di muoversi era diventato meno controllato, più sciolto e sicuro, la rilassatezza dei suoi muscoli era diversa dalla mollezza che aveva caratterizzato l’inizio dei nostri appuntamenti, le espressioni del volto, con accenni di curiosità o di stizza al momento della conclusione della seduta, confermavano l’ipotesi di una elaborazione in atto e la connotazione della seduta come luogo gradito e protetto.

Decisi allora di dargli più spazio, avrei costruito meno giochi, lasciandogli più libertà nella strutturazione del tempo a nostra disposizione. Notai che, lasciato da solo con i giochi, li disponeva l’uno accanto all’altro. La zucchina, la melanzana, la banana, e poi ancora l’uva, il pomodoro; gli oggetti venivano aggiunti sia a destra che a sinistra, senza una ragione apparente, e così la serie si allungava. Capitava che io inserissi a mia volta qualcosa senza che quest’intervento provocasse fastidio. Quando aggiungevo un oggetto, a volte lo nominavo oppure commentavo ad alta voce: “il pomodoro si è messo vicino all’uva”; altre volte, terminata la disposizione, nominavo gli oggetti secondo l’ordine progressivo in cui erano disposti. Capitava che anche Riccardo nominasse qualcuno degli oggetti, ma, terminata la loro disposizione, non mostrava alcuna soddisfazione, come accade invece quando si conclude con profitto un’attività.

Restava lì, davanti alla fila di vegetali e li guardava. Un giorno mostrò segni d’insofferenza. Aveva portato avanti il gioco della disposizione degli oggetti, li aveva nominati, ma poi si era agitato. Piagnucolando e muovendosi, come a volersi scrollare qualcosa di dosso, disse: “E poi?”. Questa domanda giungeva inattesa, in seguito sarebbe accaduto molte altre volte che mi stupisse, con domande o affermazioni che non avrei mai saputo prevedere.

I bambini autistici, spesso più di quanto non facciano i bambini in generale, ci sorprendono in modi e tempi del tutto inattesi. Per questo è importante seguire il bambino “un passo avanti”, in modo da farci afferrare dalle sue produzioni e, nello stesso tempo, essere preparati ad accoglierne al volo le sollecitazioni e, se necessario, a parare eventuali difficoltà.

Riccardo mi stava interrogando con una domanda che comunicava tutto il suo disagio per l’impossibilità di trattare come materia prima quegli oggetti che pure aveva saputo toccare, nominare, disporre. Gli oggetti erano lì davanti, ma intrattabili; la loro presenza produceva in lui un terremoto. Finché gli stessi oggetti erano sparsi erano come nulla e come nulla agivano su di lui, ma una volta che li aveva scelti, affiancati, nominati, diventavano qualcosa e quel qualcosa lo interrogava, gli domandava un poi; se ci fosse stato un poi, avrebbe rappresentato la produzione di un nesso, di un legame.

Mi si rese evidente, in quella circostanza, che Riccardo era alle prese con la parte più complessa del nostro lavoro, la costruzione di una legge di moto che gli consentisse di essere nel mondo. Si era infatti concesso di cominciare a nominare le cose, toccarle, disporle ed anche utilizzarle, imitando i miei gesti; ora gli si presentava davanti la questione del prendere un’iniziativa personale, essere lui nel mondo con la sua soggettività.

Questo passaggio alla dialettica, se mai fosse arrivato, avrebbe richiesto altro tempo e al momento si trattava di evitare che l’interrogativo prodotto da Riccardo stesso lo sprofondasse nell’angoscia.

Ripresi allora la sua domanda e dissi: “E poi, e poi, e poi, e poi … “. Ripetei “e poi” molte volte; il suo quesito diventava così il mio, ed ogni volta lo ripetevo con un tono un po’ diverso, trasformandolo in una sorta di canzoncina che rassicurò Riccardo. Difficile spiegare razionalmente come mi venne in mente di rispondere in quel modo, tutto accadde molto velocemente, tanto che solo, tempo dopo, durante una supervisione riuscii a riflettere su questa mia iniziativa.

All’istante mi era stato chiaro che Riccardo, con quella domanda – “E poi?” – aveva aperto una breccia nel muro dietro cui si proteggeva dall’intrusione del mondo esterno. Ora però aveva paura di quella fessura: andava aiutato ad evitare che l’intrusione dei pensieri, attraverso la breccia, divenisse soverchiante.

Avevo notato molte volte il gusto che aveva per la ripetizione di parole e suoni e così avevo pensato di trasformare in un ritmo l’interrogativo di Riccardo, che risuonava alle sue orecchie come un tuono. Mentre il tuono arriva improvviso e ci terrorizza, il ritmo può essere gradevole ripetizione: quando è noto lo si può ripetere all’infinito, si può interrompere e riprendere, è manipolabile con serenità.

Questa e numerose altre occasioni, connotate da una dinamica simile a quella appena descritta e che non riporto per esigenze di sintesi, furono utili a farmi comprendere che per un bambino autistico la costruzione di una legge che ordini, regoli il suo rapporto con il mondo, è l’operazione decisiva ed estremamente complessa. L’analista non solo non dovrebbe affrettarla – se mai ne avesse la possibilità -; dovrebbe piuttosto tentare – se gli riesce – di rallentarla, qualora si accorga che il bambino sta avanzando senza essere ancora pronto. Si tratta cioè di affiancare il bambino autistico nella posizione di Altro regolato;[15] un altro che non invade, non pretende, pur essendo disponibile ad ascoltare, accogliere, e, se necessario, proteggere; un altro che garantisce il bambino dalle minacce di un mondo vissuto come persecutorio, costituendo, nel contempo, un porto cui ancorarsi.

 

A scuola: “e luce fu!”

 

Le scoperte che stavo facendo con Riccardo furono decisive in occasione dell’incontro con le sue insegnanti. Riccardo stava allora frequentando l’ultimo anno della scuola materna, aveva compiuto cinque anni ed eravamo ormai giunti al mese di ottobre. Le insegnanti avevano chiesto ai genitori di potermi incontrare e così avvenne.

Sin dalle prime battute con l’educatrice fu chiaro il suo giudizio. Unica docente di classe, con la sola compresenza di una collega durante i pasti, non poteva in alcun modo occuparsi di un bambino – così lo descrisse – che non aveva mai parlato in classe, non svolgeva alcuna attività autonomamente, e “non rispondeva ad alcuna richiesta“. Alle elementari Riccardo non sarebbe potuto andare senza prevedere per lui un insegnante di sostegno.

Quando ebbe terminato il suo racconto, le dissi che comprendevo le difficoltà sperimentate con Riccardo e soprattutto la frustrazione che poteva aver vissuto di fronte al fallimento dei suoi numerosi tentativi di avvicinamento al bambino. Fu allora che disse di aver tentato di affiancarlo in tanti modi, notando che con lui la dolcezza e la prossimità fisica, tanto efficaci persino con i bambini più difficili, erano controproducenti. Compresi che si era sentita respinta e che questi rifiuti avevano contribuito a produrre una situazione di empasse e di blocco nel rapporto con Riccardo ed i suoi genitori.

Le parole della maestra rendevano evidente la necessità per la scuola di un totale ribaltamento del rapporto con Riccardo. Fino ad allora era stato trattato come un allievo a cui dover insegnare qualcosa, esattamente come accadeva con gli altri piccoli studenti, dunque non era mai stato pensato invece come un bambino innanzitutto da comprendere e dalla cui comprensione ricavare indicazioni sulle modalità da mettere in campo per tentare un contatto.

È quel che afferma di Ciaccia, nella prefazione al libro di Chiara Mangiarotti Il mondo visto attraverso una fessura, invitando a rovesciare il modo comune d’intendere l‘apprendimento: «il bambino autistico, oggi, è più che mai insegnante.»[16] Ma che cosa può insegnarci un bambino che risponde con un muro alle amorevoli cure di genitori ed insegnanti, provocando in chi gli si fa incontro un senso di profonda desolazione ed impotenza? Il bambino autistico – continua Di Ciaccia – insegna alla società, agli esperti, alle autorità e soprattutto ai burocrati, che l’a-(p) prendimento dall’Altro non è una questione di imposizione, ma di desiderio, non di costrizione ma di coinvolgimento. I bambini autistici sono in una posizione di diffidenza verso il mondo esterno. Quando un’insegnante cerca di spingerli ad apprendere, riscontra due reazioni possibili: si chiudono sempre di più o diventano aggressivi, perché non capiscono cosa si voglia da loro. Si tratta in entrambi i casi di reazioni difensive, eppure non di rado capita che vengano vissute dai docenti come offensive, oppositive nei propri confronti o altamente frustranti.

Alla docente offrii la possibilità di sentirci con regolarità, ritenendo che parlare con qualcuno del suo rapporto con Riccardo lo avrebbe alleggerito da agiti inopportuni e avrebbe fatto sentire lei meno sola; avrebbe anche compilato un questionario osservativo sugli aspetti comportamentali, motori, cognitivi, metacognitivi rilevabili a scuola; io stessa sarei entrata in classe per una seduta di osservazione.

Dai risultati del questionario emerse un quadro estremamente compromesso. La maestra non aveva dati per rispondere alla maggior parte delle domande, ad esempio non aveva riscontri per rispondere a quella in cui si chiedeva se il bambino comprendesse il significato delle parole dell’insegnante.

La docente suggeriva di trattenere ancora un anno Riccardo alla scuola dell’infanzia, proposi di non affrettare la decisione visto che con la famiglia avevamo concordato di rinviare la scelta all’estate successiva.

L’osservazione a scuola avvenne a novembre, qualche mese dall’avvio della terapia, in un momento in cui Riccardo, in studio, aveva ormai cominciato a dire qualche parola, toccare oggetti e ripetere le mie azioni o frasi. Prima dell’osservazione a scuola avevo chiesto ai genitori che mi portassero in visione il libro dei lavori che utilizzava in classe e che tanto lo preoccupava. A casa, piangendo, aveva infatti detto più volte: “io non faccio i lavori!”.

In studio lo avevamo sfogliato, utilizzandolo come libro di storie. In ogni pagina c’erano pupetti o animali, forme geometriche; con questi elementi, di volta in volta, in compagnia delle nostre amiche verdure, inventavo delle storie che lui ascoltava volentieri. Capitava che la zucchina dicesse: “qui c’è il cane che morde l’osso, mentre il gatto rincorre il topolino“ o che la melanzana raccontasse: “questo bambino regala il pallone alla bambina con le trecce“, oppure che la banana toccasse tutti gli oggetti di un certo colore o di una certa forma, rappresentati su una pagina. Nulla di predefinito, nessuna domanda a Riccardo, solo gioco: io giocavo e lui stava lì con me. Cominciarono pian piano i suoi interventi sul libro. Una volta, seguendo l’istruzione per un esercizio, mentre cercavo tutti gli oggetti tondi in una pagina, esitai qualche istante prima di nominare e toccare l’ultimo e Riccardo mi precedette, toccandolo. Il libro dei lavori era ormai diventato un gioco, solitamente gradito.

Stabilito questo nesso tra i nostri appuntamenti e la scuola, ne feci tesoro in occasione dell’osservazione in classe.

All’inizio della seduta di osservazione in classe la maestra aveva chiesto ai bambini di eseguire una delle schede, la vicina di banco di Riccardo aveva preso dal suo astuccio il pennarello rosso e glielo aveva messo in mano, lui lo impugnava come i suoi compagni e colorava il foglio guardando in aria. Arrivò l’ora della pausa: tutti i bambini si disposero in fila per andare in bagno e Riccardo venne afferrato per un braccio dalla solita compagna, inserito nella fila e un po’ spinto e un po’ tirato arrivò in bagno. La bambina gli arrotolò le maniche del grembiule fino al gomito, Riccardo restò immobile, con le braccia tese in avanti, finché la bidella non lo avvicinò al lavandino ed aprì il rubinetto. Mentre l’acqua scorreva sulle sue mani, Riccardo muoveva leggermente le dita, senza mai toccare una mano con l’altra, come normalmente si fa per lavarsi.

L’immagine che se ne ricavava era quella di un dispositivo meccanico attivato dall’esterno.

Dopo la merenda, che Riccardo non consumava mai a scuola, fu la volta dell’ora di musica, ma  lui era esonerato poiché tutte le volte in cui aveva partecipato aveva pianto in modo inconsolabile per l’intera lezione.

Rimanemmo così in classe io, Riccardo e la coordinatrice della scuola. Prendemmo il libro e, utilizzando la modalità di gioco inventata in studio, cominciammo a sfogliarne le pagine. La coordinatrice poté così osservare Riccardo mentre associava colori e forme o seguiva dei percorsi con il dito; disse che fino ad allora non lo aveva mai visto lavorare in quel modo. Non era l’unica sorpresa che avremmo avuto quel giorno.

Mentre sfogliavamo il libro, improvvisamente la luce si spense; io dissi: “è andata via la luce!”; riprendemmo il lavoro, approfittando della luminosità che entrava dalle finestre. Di lì a poco la luce si accese di nuovo e Riccardo esclamò: “è tornata!”.

Era la prima volta, in tre anni, che Riccardo pronunciava una parola a scuola. Cos’era accaduto di nuovo?

Nei nostri appuntamenti, Riccardo aveva sperimentato la possibilità di un Altro regolato, non intrusivo, fiducioso nelle sue capacità, questo gli aveva permesso di liberarsi un po’ dall’angoscia e cominciare a prendere parola in studio. A scuola, quel giorno, era diventato possibile ripetere una dinamica già sperimentata come sicura nel nostro atelier.

Riprendendo le parole con cui Donna Williams ha raccontato la sua storia, potremmo dire: «l’autistico cerca una guida che lo segua»,[17] qualcuno cioè che gli faccia strada senza tirarlo, che gli stia dietro con la certezza che lui può andare avanti.

Se le insegnanti furono tutte sorprese dal fenomeno delle parole pronunciate finalmente in classe, parole che ponevano fine al mutismo scolastico, molto pesante anche per loro, io fui sorpresa per l’edificazione, da parte di Riccardo, di un nesso tra due accadimenti: con la sua frase “è tornata”, si era connesso alla mia frase “è andata via la luce!”, aveva afferrato e rilanciato la mia offerta. Aveva superato il codice incomprensibile, fatto di parole isolate e numeri, accedendo al linguaggio in termini di produzione di legami tra parole e frasi, con l’obiettivo di comunicare con gli altri.

 

            Il primo appello: l’istituzione della domanda e l’istituzione dell’Altro

 

L’osservazione di Riccardo a scuola mi permise di constatare che in quel luogo a Riccardo veniva chiesto di fare nulla: si era costituito un articolato apparato sostitutivo di ogni sua possibile iniziativa, apparato a cui collaboravano i compagni, le bidelle, gli insegnanti.

Una dinamica simile mi era stata descritta dai genitori, sin dai primi incontri, rispetto al tempo trascorso in casa. Avevo dato il suggerimento di non anticipare più le richieste di Riccardo, lasciando a lui il compito di esprimere bisogni ed esigenze. Ai genitori che mi evidenziavano: “il bambino mugugna o piange per comunicare il fastidio o le richieste”, suggerii di lasciargli il tempo di mugugnare o piangere e di avvicinarsi a lui, senza la fretta di risolvere, concedendogli piuttosto la possibilità di esprimersi come riusciva. Avevo anche proposto di chiamare Riccardo da una stanza all’altra della casa, per chiedergli di andare a pranzo, ad esempio, smettendo di accompagnarlo negli spostamenti anche minimi, come avevano raccontato di aver fatto per anni.

A distanza di un anno dall’inizio dei nostri appuntamenti, durante uno dei colloqui periodici che avevo con i genitori, mi raccontarono che qualche giorno prima, in piena notte, Riccardo, febbricitante, li aveva chiamati dalla sua cameretta. Aveva detto, con un tono abbastanza alto da svegliarli: “Mamma, mamma … vieni”.

Era la prima volta che rivolgeva loro un appello intenzionale, formulando una frase che era una domanda. La madre ed il padre erano accorsi e si erano occupati di lui[18]. I suoi genitori, erano stati invitati all’incontro con lui, erano stati convocati, affinché gli offrissero aiuto e, con l’aiuto, la soddisfazione che desiderava. Era stata istituita la domanda e, con la domanda, l’esistenza di un altro collaboratore, un partner, socio a cui rivolgersi per ottenere soddisfazione.

Questo momento rappresentò per Riccardo un punto di svolta sulla via di uscita dalla landa desolata che aveva abitato per anni, non si trattava più soltanto di una breccia, nel muro dell’autismo, il suo atto di richiesta, di domanda, inaugurava infatti, dopo l’ingresso nel mondo, non più sentito radicalmente pericoloso, la sua stessa costruzione.

 

       Costruire il mondo

 

L’ingresso nel mondo era un inizio, ora questo stesso mondo andava edificato, proprio come fanno tutti i neonati. Dopo un anno e mezzo di trattamento cominciò ad essere annotabile l’avvio di questa costruzione. Riccardo aveva cominciato a parlare con discreta fluidità a casa e in studio, mentre a scuola accadeva ancora di rado e solo con due bambini, un maschio ed una femmina. Aveva chiamato più volte i genitori in suo aiuto ed anche con me il parlare era diventato meno angosciante.

Nei mesi successivi i giochi si erano arricchiti con animali e favole – alle quali contribuiva solo con l’aggiunta di qualche parola, ma che seguiva sempre con interesse -; aveva iniziato a disegnare, a scrivere lettere e parole, arrivando a leggere le frasi che appuntavo. Il suo intervenire era pacato e silenzioso, con un filo di voce: continuava a vivere in punta di piedi.

Un giorno, al momento del congedo aveva mantenuto in mano un panino di gomma, rivestito di un tessuto morbido, e vedendo il padre entrare nello studio aveva iniziato a piagnucolare. Guardai il padre per capire e lui disse: “Credo che Riccardo vorrebbe portarlo a casa”. Dissi che ero contenta che Riccardo avesse pensato di tenere con sé il panino, e che ero disponibile a darglielo purché lo avesse restituito all’appuntamento successivo. Riccardo smise di piangere; la seduta successiva entrò mostrandomi la mano in cui teneva stretto il panino. Fu l’inizio di una serie di traffici. Durante le sedute mi domandava, ogni volta, rispetto ad un oggetto diverso: “posso portarlo a casa?”[19], io acconsentivo a patto che poi lo riportasse. I genitori mi riferivano che a casa utilizzava gli oggetti che prendeva in studio e aveva chiesto di avere altri giochi simili a quelli che trovava da me.

Un pezzo alla volta Riccardo stava traslocando il nostro atelier, arredando la sua casa con ciò che preferiva per ripetere a casa, di sua iniziativa, ciò che facevamo in studio. La porta che chiudevo quando lo salutavo era divenuta una “membrana permeabile”, da cui era possibile portare fuori ciò che desiderava, utilizzarlo e riportarlo indietro arricchito, mentre con ciò che ne era uscito Riccardo trasformava intanto il fuori, appoggiandosi alla memoria di un uso sperimentato e di un suo modo di servirsi degli oggetti, per comporre esperienze ovunque desiderasse.

Stava assaporando il mondo: così pensai il giorno in cui, mentre giocavamo al “pranzo”, mise in bocca un hamburger di plastica, poi le patatine, un uovo, ecc. Quando raccontai l’episodio ai genitori mi riferirono che anche a casa lo trovavano spesso con oggetti di tutti i tipi in bocca, sottolineando che questa cosa non era mai accaduta in passato. Infatti durante i primi anni di vita Riccardo non aveva mai portato alla bocca oggetti o parti del proprio corpo, come fanno di norma tutti i bambini. Stava dunque vivendo ora, a sei anni, una riconquista della fase orale.

Questa considerazione mi sollecitò a considerare il vigore dell’oralità e più in generale la possibilità di entrare in contatto con il mondo con energia e con la voglia di sperimentarla con forza. Sin dal primo incontro mi avevano colpito inermità e mollezza di Riccardo. Il suo corpo sembrava pronto ad evaporare da un momento all’altro e nel contempo era malleabile come plastilina. Ecco, invece che finalmente sperimentava come il mondo potesse essere preso, assunto, fatto a bocconi. Con questi pensieri, in cui costruzione e distruzione si intersecavano, cominciai a proporre il gioco dei lego.

Collegare insieme i pezzi sembrava confonderlo. Prendeva un pezzo e lo appoggiava sopra ad un altro, senza esercitare alcuna pressione o senza fare attenzione ai punti d’incastro: non riusciva a costruire. Un giorno, entrando nello studio, vide una torre costruita da un altro bambino e cominciò a guardarla: era molto alta e troppo sottile per reggere i suoi ripetuti avvicinamenti, ed infatti poco dopo cadde, mentre i pezzi saltarono via fino ai quattro angoli della stanza. La torre, cadendo aveva fatto un rumore piuttosto forte e Riccardo aveva emesso un gridolino, ma non aveva avuto paura. Ridendo dissi: “Abbiamo fatto un disastro!”. A quel punto iniziò a muoversi saltellando, divertito ed eccitato dall’evento. Cominciai a montare una nuova torre e proposi a lui di buttarla giù. Si rifiutò e fui allora io a farla cadere, senza eccessivo fragore, non potevo rischiare di farlo spaventare, avevo imparato da lui che era più efficace non affrettare nulla. Riccardo riprese a ridere e a saltellare.

Smontare, lanciare pezzi, rovesciare il sacco dei giochi, producendo rumori fragorosi diventarono occasioni frequenti di divertimento e Riccardo mostrava di divertirsi davvero, come non era ancora mai successo. Un giorno fu lui a commentare la caduta di una torre, dicendo: “Che disastro!!“. Cominciò allora a muoversi rapidamente nello studio ripetendo come un ritornello: “Un disastro! Un disastro!”. In seguito la frase avrebbe assunto altre varianti: “Abbiamo fatto un disastro!“, o “Io ho fatto un disastro”, “Crashhh!”.  Di lì a qualche tempo, durante una seduta Riccardo disse: “Io qui vengo a fare un disastro. Queste cose a casa non si fanno!”. A distanza di due anni dall’episodio del crollo casuale della torre trovata costruita in studio, queste frasi confermano che quel crollo aveva edificato il pensiero di una sua competenza nella trasformabilità e manipolazione del mondo. Della costruzione come della scomposizione di un oggetto possiamo dire: “sono stato io!”. Il commento di Riccardo evidenziava che il lavoro di cura offre luoghi e rapporti in cui sperimentarsi, permettersi e anticipare atti non ancora vivibili altrove. Il setting della cura diventa una palestra, un banco di prova, un’anteprima rispetto al “teatro” del mondo.

Il gioco con le costruzioni tradizionali facilitava l’introduzione di puzzle che si componevano tra loro formando una base su cui poter inserire pareti, porte finestre e poi tetti, fino a dar vita a costruzioni, popolabili con pupetti di tutte le età e con tante caratteristiche somatiche. Quest’ultimo gioco era piuttosto articolato e richiedeva a Riccardo tempo e concentrazione.

Un giorno era arrivato in studio piuttosto nervoso, prima ancora di completare il montaggio fece intenzionalmente cadere tutto a terra, poi, piangendo, cominciò a dire: “E adesso, e adesso… e adesso?”[20].

Mi venne in mente di prendere uno dei puzzle e di dire: “Adesso possiamo fare che questo era un pezzo di terra che cominciava a navigare; navigando, navigando incontrava un altro pezzo di terra e si collegavano insieme, così diventavano un pezzo più grande”. Continuammo il gioco ricomponendo tutti i pezzi e Riccardo mi aiutò ad unirli; aggiunsi allora: “questo bambino – un pupetto – pensò allora che poteva salire sulla terra e ricominciare a costruire”. Riccardo a quel punto prese vari pezzi per ricostruire le case, animandole poi con gli altri pupetti. Avevamo ricostruito il mondo! Lo dissi a Riccardo, usando quest’espressione: “Ecco, il mondo rifatto!”. In seguito Riccardo fece sua l’espressione, utilizzandola per indicare i momenti in cui si trattava di ricostruire qualcosa.

La costruzione del mondo ha a che fare con la costruzione di una legge che permetta al soggetto di essere nel mondo, la legge che consente di costruire ponti e partnership: uno statuto che preveda un posto costituibile e occupabile dal soggetto e un secondo posto che il soggetto prepara perché venga occupato da un altro soggetto. Istituita la legge – con Giacomo B. Contri la definisco Regime  dell’Appuntamento – e costituito il posto di Altro, esso potrà essere occupato, di volta in volta, da qualcuno con cui il soggetto intesse traffici e commerci, anch’essi, caso per caso, giudicabili come soddisfacenti o meno.

 

Finalmente: “… giocare è difficile!”

 

Riccardo ha da poco concluso la seconda elementare. Prima che iniziasse a frequentare la primaria avevo incontrato le insegnanti per presentare il lavoro svolto e il percorso compiuto insieme; avevo detto che la presentazione del bambino inviata dalla scuola materna corrispondeva al Riccardo che lui aveva fatto conoscere alle sue insegnanti in quel tempo: un bambino di cui la maestra non sapeva neppure dire se comprendesse o meno le richieste. Di fatto Riccardo, sapeva leggere, scrivere, fare addizioni e sottrazioni con dieci numeri già prima dell’ingresso alle elementari, questo mi permetteva di suggerire che il primo anno fosse dedicato alla costruzione di un rapporto personale con lui, favorendo l’incontro con i compagni.

Organizzammo alcune visite a scuola, durante l’estate, affinché Riccardo potesse conoscere i luoghi e le persone adulte che lì avrebbe incontrato. Appena entrato in quella che sarebbe stata la sua classe, guardando i cartelloni alle pareti, esclamò: “Ci sono le lettere!” e quando la futura insegnante, vedendolo dirigersi verso la lavagna, gli disse che se voleva poteva usarla, lui scrisse: “Ciao, sono Riccardo”. Con l’insegnante di italiano si mostrò particolarmente tranquillo e, uscendo dalla scuola, la salutò pur non guardandola negli occhi.

L’inserimento fu connotato da un certo timore: il mattino arrivava nel cortile e cominciava a piagnucolare, ma una volta entrato in classe, accompagnato dai suoi compagni preferiti della materna, si tranquillizzava. Non parlava e stava sempre al suo posto anche durante l’intervallo. Ingresso, uscita e ricreazione erano i momenti più faticosi, perché meno strutturati e più lasciati alla libera iniziativa dei bambini.

Un giorno, arrivato in classe trovò che la maestra aveva cambiato i posti, tornò al banco che era stato suo fino al giorno precedente, e, trovandolo occupato, cominciò a piangere. Una bambina che era sempre stata molto attenta a Riccardo fin dalla scuola materna, lo accompagnò dalla maestra, la quale riuscì a trovare il modo di convincerlo a sedersi nel nuovo posto che gli era stato assegnato.

La disponibilità e la creatività delle docenti unitamente all’impegno e al desiderio di Riccardo di essere realmente presente in classe, gli hanno consentito di seguire il programma curricolare, risultando tra i più bravi in italiano ed il migliore in inglese. Dopo i primi mesi di scuola aveva iniziato a parlare sottovoce con una bambina con cui aveva condiviso il banco anche alla materna. Lei era molto abile nell’interpretare i suoi momenti di nervosismo e spesso si faceva mediatrice delle esigenze e delle intenzioni di Riccardo con compagni e insegnanti. Verso la fine del primo anno di scuola aveva iniziato a interloquire anche con altri bambini e a salutarli.

Oggi capita spessissimo che Riccardo in seduta non solo eserciti il linguaggio, ma se ne serva per giocare con le parole. Un giorno inventò che un personaggio di fantasia, creato insieme, parlava spagnolo e per molte sedute si divertì ad aggiungere la “s” alle parole: andiamos, giochiamos, casas. Accadeva che correggesse qualcosa che scrivevo velocemente senza rendere le lettere chiaramente distinguibili, oppure amplificava il suono di alcune sillabe. In un’occasione gli avevo risposto “Yessss” e lui iniziò subito a scrivere la parola “yes” su un foglio aggiungendovi decine di “s”.

Nell’ultimo anno, approfittando di un giorno in cui era arrivato con i capelli visibilmente più corti, ho provato a proporgli il gioco del parrucchiere, dapprima con delle bambole e poi tra noi. Io mi sedevo e lui doveva lavarmi i capelli. Lui si limitava a sfiorarmi, su mio invito, mentre lasciava che io “lavassi” i suoi. Lo toccavo facendo piccoli movimenti sulla testa con i polpastrelli e lui aveva sentito solletico. In seguito capitava che si sedesse sulla stessa sedia con la testa appoggiata sulla spalliera, attendendo che ripetessi “lo shampoo”. Stava sperimentando il piacere di essere toccato delicatamente.

 

Con questa frase di Riccardo: “Giocare è difficile!”, pronunciata con agitazione ed angoscia, durante una recente seduta in cui aveva disposto pupetti ed animali, senza però riuscire ad avviare alcuna attività, sintetizzerei il punto dell’elaborazione, raggiunto dopo quattro anni di lavoro.

I genitori mi avevano riferito che nell’ultimo periodo di scuola era spesso tornato a casa dicendo: “non riesco a giocare”, o “non so parlare con i bambini”. Riccardo oggi guarda i bambini con interesse e tenta avvicinamenti spesso goffi e poco sintonizzati con i movimenti dei compagni. Li imita correndo, riproducendo le loro azioni o ripetendo alcune frasi; raramente prende l’iniziativa e non sempre mostra reciprocità con tempistiche sincroniche agli atti altrui; se un bambino lo abbraccia lo lascia fare, senza corrispondere con il suo corpo in maniera sintonica, rimanendo rigido, ma poi a casa capita che racconti l’accaduto mostrandosene compiaciuto. Si avvicina e si lascia avvicinare, si intristisce però quando non trova corrispondenza, mentre apprezza la compagnia dei bambini che con continuità mostrano esplicitamente interesse e disponibilità a giocare con lui. La difficoltà principale di Riccardo risiede oggi nel prendere un’iniziativa diretta verso l’altro, che abbia la forma di un invito.

Durante un incontro in cui i genitori mi raccontavano la preoccupazione di Riccardo per le difficoltà incontrate nel giocare, utilizzai con loro per la prima volta la parola autismo, per indicare che cosa Riccardo era riuscito a lasciarsi alle spalle, un superamento testimoniato anche dal dispiacere e dalla delusione che lui provava per relazioni non ancora del tutto soddisfacenti. Erano consapevoli che quella era la condizione psichica di Riccardo all’inizio dei nostri incontri, ma ora, di fronte al figlio che aveva ricominciato a vivere, potevano nominarla senza che nuocesse, aggiungendo terrore e confusione ai loro pensieri.

Oggi i rapporti sono diventati fonti di piacere e di dispiacere per Riccardo, come accade ad ogni essere umano. Costruire relazioni è un’aspirazione e nel contempo può comportare problemi; gli stessi genitori riescono ad accogliere questi passaggi senza esserne troppo angosciati.

Nell’autismo la vita sociale è un problema che non si pone, in quanto l’autistico non la cerca, non avendone alcun desiderio. È solo nella salute – ossia laddove sia stata composta una legge di moto a due posti e dove la soddisfazione abbia assunto la veste di meta raggiungibile, grazie all’apporto di altri – che le persone ed i rapporti vengono riconosciuti e perseguiti come irrinunciabili. La difficoltà di Riccardo nel fare amicizia ed il conseguente dispiacere si correlano oggi alla consapevolezza della fatica e dei fallimenti possibili nei rapporti, segnalando nel contempo il raggiungimento di un traguardo importante, il suo voler esserci con gli altri, base solida per il permanente lavoro di conquista del mondo.

 

[1]Laznik M.C, La teoria lacaniana della pulsione permetterebbe di far progredire la ricerca sull’autismo, in La Célibataire, Automne-Hiver 2000, pp 67-78, (trad. it: in Rivista di Psicoanalisi, 2016, LXII, 3).

[2] Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, DSM -5, American Psychiatric Association, Raffaello Cortina Editore, 2014, p 61: “Disturbo dello spettro autistico … le caratteristiche diagnostiche centrali sono evidenti nel periodo dello sviluppo, ma misure d’intervento, modalità di compensazione e supporto possono mascherare le difficoltà almeno in alcuni contesti.”

[3] Questa definizione mira a focalizzare l’essenza propria di quella condizione psichica che, pur nella enorme varietà dei quadri neurobiologici, cognitivi, linguistici e comportamentali, riconduciamo alla categoria di Disturbo dello spettro autistico.

[4] A cura di Maria Gabriella Pediconi e di Carla Urbinati, (2019), Non ci sono. Autismo: orientamenti di guarigione con la psicoanalisi, Franco Angeli, Milano.

 

[5] Giacomo B. Contri, medico, psicoanalista, Presidente della Società Amici del Pensiero “Sigmund Freud” di Milano. Già analizzando di J. Lacan, membro della sua Ecole Freudienne de Paris, nonché suo traduttore presso Einaudi (1974). Dal 1970 ha iniziato a sviluppare il Pensiero di natura con una tesi di dottorato a Parigi dal titolo Loi symbolique/ Loi positive. I suoi lavori, in particolare la serie Think! sono consultabili su www.giacomocontri.it e www.societaamicidelpensiero.it

[6] Maria Gabriella Pediconi, docente e ricercatore di psicologia dinamica dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Psicoanalista della Società Amici del Pensiero “Sigmund Freud” di Milano. Coniuga la ricerca clinica e psicoanalitica con le scienze sociali ed economiche.

 

[7] Per approfondimenti sulla concezione metapsicologica della vita psichica nell’autismo, che ha supportato e sostenuto il lavoro di cura condotto con Riccardo, si rinvia alla sezione Pietre miliari del libro Non ci sono. Autismo: orientamenti di guarigione con la psicoanalisi, (2019), Franco Angeli, Milano.

 

 

[8] Scrive M. Egge nel libro curato da Chiara Mangiarotti Il mondo visto attraverso una fessura (2012), Quodlibet Studio, p.13: «L’operatore deve essere capace di cogliere al volo le sollecitazioni del bambino, agganciandosi inizialmente a quello che chiamiamo il suo biglietto da visita. Ogni bambino si presenta infatti con qualcosa di particolare: due borse, una serie di mollette, una bambola, delle musicassette, una carta geografica o anche semplicemente il suo corpo. Si tratta dell’oggetto complemento, attraverso cui il bambino si sostiene. L’oggetto del bambino va accolto, sviluppato in un atelier a volte creato appositamente per lui, fino a che il suo interesse si allarga ad altri oggetti e si sposta su altre attività.»

 

[9] Cfr. J. Lacan, Conferenza sul sintomo (Conferenza di Ginevra 1975), in La Psicoanalisi n. 2, ottobre 1987, Astrolabio.

[10] A. Di Ciaccia, Prefazione, in C. Mangiarotti (2012), op. cit. p.7.

[11] Ibidem, pp.7-8.

[12] J. Lacan, Conferenza sul sintomo (Conferenza di Ginevra 1975), in La Psicoanalisi n. 2, ottobre 1987, Astrolabio.

[13] Nell‘autismo l’Altro non esiste in quanto Altro, il prossimo è eliso. Non essendo trattato come partner, l’Altro rappresenta nella migliore delle ipotesi una protesi di cui il soggetto autistico si serve per raggiungere i suoi fini, ma non di rado è percepito anche come fonte di disturbo o di pericolo. Quando qualcuno si rivolge all’autistico questi precipita nell’agitazione, non capisce cosa si voglia da lui, si sente assediato e di frequente attiva, a fini difensivi, stereotipie ed ecolalie. Potremmo quindi individuare come segno di cedimento dell’autismo, per quanto potenzialmente parziale o episodico, l’istituzione dell’Altro come soggetto, istituzione che ha il suo tratto distintivo nella domanda che a questo Altro può essere rivolta, affinché si faccia partner, socio.

 

[14] La fortezza vuota è il titolo di uno dei più noti e discussi testi di Bettelheim dedicato all’autismo.

[15] Ibidem, p. 13

[16] Ibidem, pp. 7-8

[17] Le parole dell’autobiografia di Donna Williams vengono citate dal nel testo di Mangiarotti (2012), op. cit., p. 24.

[18] Con Giacomo Contri, direi che con questa domanda Riccardo aveva finalmente istituito il Regime dell’Appuntamento. Per approfondimenti si rinvia a G.B. Contri, Il regime dell’appuntamento. Quid ius?, Introduzione al Corso 2010-2011, della SAP Milano, sito: www.societàamicidelpensiero.it.

[19] “Posso portarlo a casa?”. A questa domanda andrebbe dedicato un ampio approfondimento, sia per la rarità con cui Riccardo si concedeva di formulare delle domande, sia perché, tolto il punto interrogativo, la medesima frase diviene una dichiarazione decisiva sulla via della strutturazione del soggetto. Riccardo, domandandolo, mi stava dichiarando che lui poteva portare a casa ciò che viveva nel tempo-luogo del nostro incontro. Non è forse questo uno dei fini di ogni terapia? Poter estendere oltre lo studio dell’analista le conquiste che vi si sperimentano.

[20] Questo interrogativo mi ricordava quel suo “E poi?” di anni prima, quando difronte alla disposizione in fila delle verdure non sapeva più come orientare il suo moto, ora però Riccardo non era più lo stesso e a me era offerta la possibilità, per lui raccoglibile senza fughe, di allegarmi alla sua domanda, con l’invito a continuare la costruzione. La canzoncina che avevo inventato dopo il suo “E poi?” era stata una rassicurazione, una consolazione allora necessaria a dirgli: “io ci sono, resta qui con me”, ma da allora eravamo andati avanti.

Qualunque sia il modello etiologico di riferimento – psicoanalitico, cognitivo o biologico –, “oggi c’è consenso nel dire che l’autismo è una patologia del legame con l’altro”[1], ad insorgenza precoce[2]. L’autismo è dunque una patologia precoce del legame Soggetto-Altro[3], in cui compromesso è il principio di pensiero e condotta, che con Freud definiamo principio di piacere. Nel libro Non ci sono. Autismo: orientamenti di guarigione con la psicoanalisi[4], grazie al supporto dell’elaborazione psicoanalitica di Giacomo B. Contri[5], con la collega Prof.ssa Maria Gabriella Pediconi[6] abbiamo tentato di mettere a fuoco l‘incipit della vita psichica e gli intoppi che in tale avvio incontra il soggetto autistico. Ci siamo interrogate su come si possa vivere in uno stato di incompiutezza della legge di moto, in assenza della rappresentazione dell’Altro come partner e quali possano essere le traiettorie terapeutiche percorribili con la psicoanalisi a favore di soggetti autistici, raccogliendo accanto a contributi dedicati alla metapsicologia, casi riusciti di trattamento. Alle pagine che seguono è dedicata la descrizione di alcuni bivi decisivi nella tardiva, ma comunque possibile, opera di composizione della legge pulsione[7], attraverso la presentazione di tratti salienti del lungo lavoro terapeutico svolto con Riccardo, un bambino autistico. A lui, che per anni ha continuato a vivere come dicendo: “Non ci sono!”, è dedicato il libro che ha saputo ispirare.

 

       L’incontro con i genitori: quale domanda?

 

Ricordo in modo vivido il primo incontro con i genitori di Riccardo, l’incipit di un rapporto che sarebbe durato anni. Entrambi erano molto angosciati ed impauriti, benché il contenuto della problematica esplicitata – un’enuresi secondaria a seguito dell’ennesima influenza – non presentasse elementi di gravità. Solo in seguito mi avrebbero raccontato che il pediatra li aveva sollecitati a richiedere una valutazione psicologica e neuropsichiatrica del bambino.

Poco prima di salutarci, come ad integrare con un dettaglio irrilevante quanto già comunicato, aggiunsero: “a scuola Riccardo piange spesso, si isola e non parla con nessuno. Le maestre dicono che dovrebbe stare di più con i bambini”.

Durante il colloquio non avevano parlato liberamente, ma misurato accuratamente frasi e parole, aspettando che fossi io a porre domande e rispondendo attenendosi solo a quanto richiesto, senza sviluppare collegamenti o nessi. Chiedevano aiuto sì, ma senza dichiarare apertamente per cosa lo stessero domandando.

Il primo colloquio si concluse con un non detto, di cui era percepibile il gravoso peso. Sul momento trovai significativa questa formulazione trattenuta della domanda, e pensai che tale elemento non andasse trascurato.

 

L’anamnesi di Riccardo: il bambino raccontato

 

Riccardo al momento dell’invio ha quattro anni. Sin dal primo anno dorme molto e mangia poco, non viene allattato al seno, cammina verso i diciotto mesi e inizia a dire alcune parole a due anni. Il controllo sfinterico viene raggiunto intorno ai due anni e mezzo. Dorme già da tempo nella sua cameretta e la separazione notturna dai genitori non ha comportato alcuna difficoltà.

Nei suoi primi quattro anni si ammala spessissimo. A scuola “non tocca cibo”. A casa mangia poco, sempre le stesse cose, “ma almeno non digiuna”.

A volte resta seduto per ore, in silenzio, nello stesso posto, con alcuni oggetti-giochi attorno a sé, ma non li tocca. Se lo chiamano, non risponde e resta lì, immobile. Per farlo alzare occorre quindi toccarlo, aiutandolo fisicamente. Una visita audiologica ha escluso i problemi di udito che i familiari avevano ipotizzato verso i tre anni, considerate le reiterate mancate risposte del figlio alle loro richieste.

In casa non si sposta mai da solo da una stanza all’altra. Se chiamato “non risponde e resta dove si trova”. Sono i genitori o i nonni che devono raggiungerlo e, se serve, portarlo in un’altra stanza. Anche quando è malato fa lo stesso, non chiama nessuno; i genitori sottolineano che “non ha mai chiesto aiuto”. Più di una volta, di notte, lo hanno trovato nel suo letto febbricitante, sudato ed evidentemente sveglio già da tempo, senza che avesse però fatto niente per richiamare la loro attenzione.

Riccardo non chiede nulla. Non fa domande, né ricerca attivamente l’intervento dei genitori; a volte piagnucola in modo soffocato, senza gridare né mostrare rabbia; al più lascia intuire un fastidio. In questi casi i genitori interpretano, di volta in volta, la specifica necessità del figlio e cercano di trovare soluzioni adeguate; alcune volte riescono subito, altre volte procedendo per tentativi ed errori ci impiegano più tempo, mentre il bambino continua a produrre lamenti monotoni. Parla poco e comunque solo con i genitori o i nonni; le sue frasi sono minime, per lo più usa parole-frase che formula ripetutamente. Non appare interessato né alla televisione, né ad alcun cartone specifico. In genere non guarda lo schermo.

La vita sociale della famiglia è inesistente. “Riccardo è spesso malato e questo ha ostacolato le uscite”. Il passeggino è ancora nuovo, mai utilizzato.

Il bambino evita parenti o vicini; manifesta malessere, disagio quando viene accompagnato a casa di qualcuno. All’inizio non vuole entrare, poi si nasconde dietro i genitori e piange; “queste reazioni hanno determinato la riduzione delle visite al minimo”.

Non gioca mai con altri bambini e non li cerca, ma alla scuola materna li preferisce alle maestre. Quando qualcuno lo avvicina al momento dell’ingresso, lui resta immobile, indifferente e muto, ma non piange. Si dispera invece durante l’ora di musica, quando i compagni cantano e suonano i tamburelli o altri strumenti. Al riguardo i genitori commentano: “In casa nostra c’è sempre molta tranquillità e quindi forse i rumori forti lo spaventano, non è abituato.”. Raccontano che le insegnanti hanno insistito perché accompagnassero Riccardo alle feste di compleanno, ma in due anni non sono mai riusciti a farlo “perché lui è sempre malato”.

Quando l’appuntamento sta per concludersi mi dicono, con un po’ di imbarazzo, che Riccardo sa leggere le lettere e conosce bene i numeri, già da quando aveva circa tre anni. L’informazione è riferita come se dovessero giustificarsi e scusarsi per queste conoscenze del figlio.

Comprenderò più tardi che, preoccupati per le caratteristiche del bambino, avevano dedicato tempo a presentargli numeri o lettere e poi, riscontrato un certo interesse di Riccardo, cosa alquanto rara; avevano così fatto di lettere e numeri il loro “gioco” preferito con il figlio. In seguito tuttavia si erano reciprocamente colpevolizzati per aver favorito questi passatempi, ipotizzando che potessero averlo distolto dalle attività tipiche di un bambino della sua età.

 

Riccardo ed il suo biglietto da visita: “tre”[8]   

 

Riccardo al momento del nostro primo incontro è un bambino di quattro anni, ha capelli scuri ed una carnagione bianchissima; molto magro, si muove lentamente e di traverso, avanzando con la parte destra del corpo e trascinandosi dietro la sinistra. Comprenderò solo più tardi, che questo modo di procedere faceva parte di un più articolato modo di Riccardo di “essere nel mondo”: ridurre l’impatto sulla realtà, vivendo in punta di piedi o trascinandosi.  Non mi guarda e non guarda neppure i genitori; nonostante gli occhi siano aperti sembra non vedere nulla. Quando il suo sguardo incrocia il mio, mi attraversa come fossi trasparente. Il suo muoversi nella stanza appare senza meta. Arrivato in un angolo, si sposta subito da un’altra parte e così per almeno mezz’ora; si dirige di preferenza verso gli spazi in cui non ci siamo né io né i suoi genitori. Non tocca nulla, ma ad un certo punto dice: “tre”! Dopo qualche perplessità mi accorgo che tre è il numero indicato su un profumo per ambienti che si trova nella stanza. Quando lo prendo in mano, o mi avvicino a Riccardo per dire qualcosa, lui si allontana voltandomi le spalle.

L’incontro si conclude senza che Riccardo mi abbia guardata e senza che mi abbia rivolto alcuna parola. I genitori appaiono più sereni rispetto ai nostri primi incontri; solo in seguito mi diranno che erano stati sorpresi dal fatto che Riccardo non avesse pianto, come faceva sempre dal pediatra, “forse – aggiungono – sarà stato per la stanza, che assomiglia più ad una casa che non ad un ospedale”.

Mi congedo da Riccardo e dai suoi genitori con il guadagno di una parola, l’unica parola pronunciata da Riccardo: “tre”.

Dopo il primo incontro, comunico ai genitori che vorrei rivedere il bambino per una valutazione, al termine della quale li riceverò per una restituzione. I genitori si mostrano d’accordo, iniziamo così gli incontri individuali.

Riccardo viene accompagnato da entrambi i genitori, quando li accolgo alla porta noto che il bambino entra con la mano della madre stretta sull’avambraccio, un po’ sopra il polso. Il tratto di strada che percorrono a piedi per entrare in studio è lungo circa venti metri, e si sviluppa in un’area privata, all’inizio della quale madre e figlio vengono lasciati dal padre, che parcheggia l’auto un po’ più avanti. É primavera, c’è bel tempo, arrivano sempre con almeno dieci, quindici minuti di anticipo, so che, una volta scesi dall’auto non possono incontrare pericoli lungo i venti metri che li separano dallo studio. Eppure il rituale dell’arrivo, che si ripete con regolarità, fa pensare all’accompagnamento di un bambino malato – a cui si cerca di evitare ogni sforzo non necessario – o in pericolo, un pericolo non realmente esistente, se non nella mente dei genitori.

Fin dal secondo appuntamento Riccardo entra da solo nella stanza e ripete i movimenti che avevo già notato, gira nello studio senza meta, nulla nell’arredamento lo interessa, neppure i giochi, i libri, i pennarelli colorati lasciati a disposizione sul tavolo o gli oggetti in un cesto.

Dopo alcuni minuti dall’ingresso in stanza, si avvicina di nuovo al deodorante per ambienti che aveva notato la prima volta, lo guarda e ridice: “tre”, fissando il numero su cui è registrata la gradazione. Approfitto del fatto che sia tornato su quest‘oggetto, l’unico a cui aveva dedicato attenzione durante il primo incontro, per avvicinarmi lentamente a lui, o meglio, per avvicinarmi al deodorante e dire ad alta voce, “ci sono anche due e quattro”, ruotando con il dito il cilindro di plastica, per mostrare, mentre li nomino, gli altri due numeri.

Lui tace, ma non si allontana, come aveva fatto altre volte quando mi avvicinavo nella zona dove si trovava per prendere una penna o chiudere la porta.

Avevo capito che potevo essergli vicino, solo se non ero in relazione con lui. Lui aveva detto “tre”, ed io avevo detto “due” e poi “quattro”. Avevo sì parlato, ma non avevo chiesto nulla, né detto alcunché di diretto univocamente a lui. C’era stata una comunicazione, ma senza domanda e senza risposta. Ritenni fosse già molto.

Negli incontri di valutazione le uniche altre parole di Riccardo erano state numeri: “ventiquattro”, “sedici”, “trenta”, ecc., cifre che poteva aver letto sul telecomando del climatizzatore, riferite alla temperatura della stanza o all’orario. Talvolta, quando si avvicinava al telecomando senza toccarlo, io lo prendevo in mano e, facendo in modo che mi vedesse, aumentavo o diminuivo la temperatura: Riccardo talvolta leggeva il numero sul display.

Durante le sedute di valutazione avevo letto ad alta voce una favola. Riccardo non aveva mostrato alcun interesse: era rimasto fermo per un po’ e poi aveva cominciato a vagare. Sembrava lontano anni luce. Non aveva mai toccato nulla. Le sue mani, sottilissime, apparivano prive di muscoli, incapaci di afferrare, molli come gli orologi dipinti da Salvador Dalì.

 

Il colloquio di restituzione: “restituire l’autismo?”

 

Gli incontri con Riccardo mi avevano permesso di raccogliere informazioni sufficienti ad una diagnosi di un Disturbo dello Spettro Autistico; risultavano ampiamente confermati tutti i criteri previsti dal DSM V.

Riccardo manifestava gravi deficit della comunicazione verbale e non verbale in vari contesti, assenza di espressività facciale e gestuale, linguaggio estremamente povero, ripetitivo e caratterizzato da ecolalie, interessi limitati, movimenti stereotipati, riluttanza ai cambiamenti – cui rispondeva con estremo stress – ed iper-reattività agli stimoli sensoriali.

Nessuna domanda veniva rivolta da Riccardo all’Altro, solo i genitori e i nonni sembravano destinatari di qualche parola. L’intero mondo degli altri risultava completamente eliso, nessuno diventava suo prossimo. Come viene osservato da Lacan,[9] il bambino autistico è nel campo del linguaggio, ma questo non si fa discorso, non diventa domanda all’Altro, la sua parola congela, si pietrifica senza farsi ponte.

Tutto confermava la diagnosi di autismo, parola che per i genitori era risultata impronunciabile e che dovevo decidere ora se e come usare. Era impossibile che il pediatra non l’avesse già compreso da tempo o che i genitori e non l’avessero almeno ipotizzata. Mi interrogavo su come trattare la restituzione. I genitori non avevano neppure sfiorato la parola autismo, benché fosse di certo il non detto che aveva angosciosamente dominato il primo colloquio, in cui avevano sostenuto di essere venuti a consultarmi per l’enuresi secondaria del bambino.

Mi domandavo quali effetti avrebbe potuto produrre su di loro quella parola impronunciabile e quali significanti avesse già prodotto; che cosa avrebbe potuto evocare il mio dichiararla e quali sarebbero state le conseguenze sui rapporti famigliari nonché sul possibile percorso di cura di Riccardo. Decisi di non affrettare l’uso dell’etichetta. Dissi che l’enuresi secondaria era solo un aspetto marginale del problema di Riccardo, mentre la sua difficoltà più rilevante riguardava il costruire legami, tessere rapporti, rivolgersi all’Altro e “stare nel mondo”.

Aggiunsi che si trattava di una difficoltà importante, di cui dovevamo occuparci senza rinvii: ci attendeva un lavoro in cui il loro contributo sarebbe stato decisivo.

Era evidente dal loro modo di parlare, quanto dalle giustificazioni per certe condotte – come l’insistenza nella presentazione al figlio di numeri e lettere -, che vivevano con un’angoscia opprimente, non raccontabile a nessuno, forse neppure a loro stessi, il terrore per la condizione del figlio.

Occorreva lavorare su tre fronti: con il genitore come soggetto, con il genitore come Altro del bambino e poi con il bambino stesso.

 

La cura: una questione di desiderio

 

Questione decisiva in ogni lavoro di cura, ed in modo tutto particolare con bambini autistici, è il desiderio. Per dirla con Lacan, “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”.[10]

Trovo utile iniziare la descrizione del lavoro svolto con Riccardo, parlando di quello che ritengo esserne stato un elemento decisivo: il desiderio. «Solo se si desidera, solo se fortemente si desidera di stabilire un qualche filo che intercorra con il soggetto autistico, astenendosi tuttavia dal domandare – sembra un paradosso, ma è così – allora c’è una chance che il bambino autistico colga il filo che gli è teso e si senta in grado di poter rispondere.»[11] Questa affermazione di Chiara  Mangiarotti descrive bene quello che ha connotato il mio lavoro con Riccardo, in particolare nei primi dodici, diciotto mesi.

La terapia iniziò con una frequenza di due incontri a settimana. Riccardo continuò per mesi a non guardarmi, a non parlarmi, a non toccarmi. Entrato nella stanza vagava per un po’, mentre io stavo seduta o sfogliavo un libro, mostrandomi disponibile nei suoi riguardi, senza però avanzare alcuna pretesa. Non appena accennavo qualcosa come “Dai vieni? Avvicinati”, lui si agitava, cominciava a muoversi come in preda a tremori ed era necessario diverso tempo, a volte decine di minuti ed un mio distanziamento fisico, perché potesse riprendere un qualche controllo di sé. Tuttavia non lasciò mai la nostra stanza.

Questi episodi sono stati per me altamente formativi: una occasione per constatare chiaramente che il desiderio di costruire un nesso con il soggetto autistico deve essere alleggerito da ogni pretesa, astenendosi da domande ed interventi diretti.

La psicoanalisi ci insegna che per tentare di costruire un ponte con il bambino autistico occorre saperlo riconoscere come soggetto, senza spaventarlo; occorre fargli un posto senza pretendere che lo occupi; occorre saperlo ascoltare anche quando sembra che non parli; occorre sapergli parlare senza che la nostra parola lo angosci.

I bambini autistici, e così Riccardo, non vogliono saperne dell’Altro. Tuttavia, anche loro, non possono esistere senza l’Altro, “anche loro sono nel campo del linguaggio”.[12] Ma allora come avvicinarli? Come applicare con loro i principi della psicoanalisi di Freud e di Lacan?

 

Quando l’angoscia si fa un po’ da parte

 

Riccardo all’apparenza risultava essere un bambino molto tranquillo, entrava nello studio senza alcuna riluttanza e durante il tempo trascorso in sala d’attesa era sempre composto e quasi immobile, accanto alla mamma. Anche in seduta era silenzioso, non produceva suoni o rumori, non toccava né urtava alcun oggetto. La sua era una presenza silenziosissima, non lasciava trasparire preferenze di alcun tipo. Decisi quindi che, in sua presenza, avrei cominciato a fare qualcosa che fosse di qualche gradimento per me, ritenendo che questo modo di procedere avrebbe potuto creare un contesto piacevole per me, in cui ci sarebbe stato spazio anche per Riccardo, se e quando avesse voluto partecipare.

Cominciai ad utilizzare il gioco della cucina. Quando arrivava, aprivo l’armadio, estraevo la scatola e iniziavo a distribuire sulla scrivania stoviglie e cibi: ortaggi, carne, uova, ecc.

Preparavo poi la tavola e organizzavo dei pranzi, apparecchiando sempre per almeno due persone. A volte giocavo al ristorante dove attendevo l’arrivo di qualcuno. Ripetei il gioco della cucina per molte settimane; sebbene con qualche variante, la cucina fu presente in tutte le sedute, per mesi. Avevo pensato che i nostri appuntamenti dovessero prevedere una certa costanza nelle proposte, utile alla presentazione di un modo “regolato”. Il gioco della cucina era l’atelier, che proponevo a Riccardo.

Accompagnavo i giochi con commenti e riflessioni ad alta voce: “Oggi ho proprio voglia di mangiare il minestrone, … ecco qua una bella zucchina, una melanzana, … ora le cucino”, oppure “ma che buon pranzetto!”, “oh, ho bruciato tutto!”. Riccardo guardava: non me direttamente, ma la zucchina, la melanzana ecc…, seguiva i miei spostamenti nella stanza, mantenendo sempre la distanza di un paio di passi e non incrociando mai i suoi occhi con i miei.

Un giorno, affaticata dal mio soliloquio, pensai di costruirmi un interlocutore … parlante. Presi allora una penna e disegnai occhi e bocca sulla zucchina, quella che tante volte avevo utilizzato per i pranzi, e cominciai a farla parlare con me. La scena incuriosì Riccardo che si avvicinò alla zucchina e la guardò con un’aria interrogativa, mai mostrata prima.

La zucchina, di lì in avanti, fu nostra compagna: io, Riccardo e la zucchina, finché un giorno, entrato nella stanza, Riccardo si diresse subito verso l’armadio, dove stavano i giochi. Si trattava di un atteggiamento che assomigliava ad un interrrogativo, sebbene formulato in modo non verbale. Decisi di trattare quest’iniziativa come una domanda e così dissi: “Giochiamo con la zucchina?”. Il mio intervento lo infastidì, era stato di troppo. Rivolto a lui, proprio a lui, lo aveva fatto sentire sovrainvestito, un fastidio che nel corso degli anni ho avuto modo di annotare più volte.

Di tanto in tanto infatti è accaduto che io avanzassi la pretesa, sottilmente buonista, che lui parlasse normalmente: domanda-risposta. Il fastidio di Riccardo offriva subito, in queste occasioni, una netta sanzione ai miei eccessi e mi offriva l’occasione per una correzione. Nel tempo questi errori sono risultati molto fecondi per le considerazioni che mi hanno permesso di sviluppare sul tema del desiderio dell’analista, in particolare a proposito dell’astinenza dell’analista come guadagno per il paziente, nonché sulle condizioni che possono promuovere o piuttosto bloccare il desiderio ed il moto del soggetto.

In quell’occasione decisi quindi di aprire l’armadio e cominciare a giocare come al solito. Lui rimase a guardare, impegnato visibilmente in un lavoro di pacificazione del fastidio che la mia domanda aveva suscitato. Nelle sedute successive fui molto attenta a non ripetere richieste dirette, finché Riccardo tornò, di nuovo, a posizionarsi davanti all’armadio.

Quel giorno estrassi la zucchina e cominciai a giocare. Quando l’ebbi appoggiata sul tavolo Riccardo lentamente allungò la mano e la prese, guardò per alcuni istanti gli occhi e la bocca che io vi avevo disegnato un po’ di tempo prima e poi la riappoggiò sul tavolo. Era la prima volta che toccava un oggetto nello studio, ed aveva toccato proprio qualcosa che aveva visto nascere lì, in diretta. Quando c’eravamo conosciuti la zucchina era infatti solo una zucchina, ma poi da quell’oggetto muto era stato generato un essere parlante. Riccardo aveva saputo rilevare la trasformazione di un oggetto in oggetto-parlante come un “soggetto”, e questa metamorfosi lo aveva incuriosito, al punto da muoverlo fino a toccarlo. Una genesi che aveva mobilitato in lui qualcosa dell’ordine del desiderio. Ed io? Io compresi che lui aveva investito con interesse il passaggio dall’inanimato all’animato, l’atto dell’ anim(a)azione non era passato inosservato[13].

Ritenni un successo quello che era accaduto: avevo avuto conferma che Riccardo poteva avere un qualche interesse a che il mondo si animasse, aveva inoltre usato le mani per toccare la zucchina vivificata. Con un aforisma, … “la fortezza non era vuota!”[14]

Nelle settimane successive, durante una seduta in cui davo voce alla zucchina con occhi e bocca, facendola parlare delle caratteristiche di altre verdure, pensai che potevo arricchire il nostro atelier, dando la possibilità alla zucchina di parlare non solo delle altre verdure, ma anche con le altre verdure. Dissi allora: “vorrei che la zucchina avesse un amico…”, lui rimase indifferente. Presi una penna e disegnai anche sulla melanzana gli occhi e la bocca. Zucchina e melanzana, una volta animate, cominciarono a parlare e a giocare. Per me era molto più semplice giocare così. Potevo trattare le due verdure come se fossero dei pupetti, soggetti che giocavano, correvano, saltavano, andavano a fare passeggiate, bisticciavano, ecc. Era un gioco normale, molto più ricco dei precedenti, un gioco di ruolo in cui realtà e fantasia potevano intrecciarsi.

Questo incremento dei personaggi lasciò Riccardo perplesso, come in sospeso. Toccava più volte sia la zucchina che la melanzana poi si allontanava, rimaneva in un angolo per un po’ o girovagava per lo studio, per poi riavvicinarsi di nuovo. Di tanto in tanto passava, come si dice “passo a farti una visita“: le sue visite erano mute, ma connotate da una certa curiosità, veniva a controllare che cosa accadeva; toccava, afferrava, a volte teneva in mano per qualche istante la zucchina o la melanzana.

Osservai che non teneva mai in mano contemporaneamente melanzana e zucchina e le afferrava sempre dalla parte opposta rispetto a quella in cui avevo disegnato occhi e bocca, che in tal modo rimanevano ben visibili. Dunque era il volto ciò che più lo interessava, proprio il volto che nei rapporti con le persone, me compresa, evitava accuratamente di guardare.

 

Un giorno, mentre lui aveva in mano la zucchina ed io la melanzana, dissi: “Ciao! “, guardando la melanzana. Riccardo rimase lì con la zucchina in mano, fermo!

Non si era allontanato, non aveva lasciato immediatamente la zucchina, ma era rimasto immobile. Si trattava di un altro step importante. Di certo importante per me: il suo esserci stato, essere rimasto nel luogo in cui io-melanzana avevo tentato un contatto con Riccardo-zucchina, sosteneva il mio desiderio di rapporto con lui, mi faceva sperare nella possibilità che potesse afferrare il filo che gli tendevo.

In seguito si moltiplicarono le situazioni in cui ognuno di noi teneva in mano zucchina o melanzana, il mio ortaggio parlava al suo e lui restava ad ascoltare. Poi il suo ortaggio cominciò a rispondere agli inviti del mio: se la mia melanzana diceva: “zucchina andiamo a fare una passeggiata?” e muovevo la melanzana come se stessi passeggiando, lui faceva muovere nello stesso modo la zucchina che teneva in mano.

Questi momenti erano di breve durata, preceduti o seguiti dalle solite modalità di spostamento nella stanza o di stazionamento in punti in cui non faceva nulla. Di tanto in tanto tornava a dire qualche numero, come era accaduto nel nostro primo incontro. I numeri erano quasi le uniche parole che pronunciava, lo rassicuravano. Le rarissime occasioni in cui aveva risposto ad una qualche mia domanda, tipo: “Giochiamo? “, o “Ti piace questo disegno? “, lo aveva fatto pronunciando un numero. Un giorno ad esempio gli avevo chiesto: “Giochiamo? “, e lui aveva risposto “sei”.

Approfittai allora dei numeri per provare ad arricchire il gioco con gli ortaggi. Proposi di farli contare, alternandoci io e lui, un numero per ciascuno, come avevo già fatto da sola impersonando sia la zucchina che la melanzana. Ma la proposta lo infastidì,  e ne compresi subito la ragione. Quando io dicevo “uno”, lui avrebbe dovuto dire “due”, il “due” sarebbe divenuto allora risposta al mio “uno”, ed avrebbe suscitato il mio “tre”: sarebbe stata dunque la coproduzione di una disposizione ordinata. Questa dinamica non sarebbe più risultata una sequenza casuale di numeri, come quelli che lui leggeva sul telecomando del climatizzatore o sul deodorante per ambienti, ci sarebbe stata una forma ordinata di relazione. Ci sarebbe stato inoltre il momento in cui, dopo aver detto il mio numero, io lo avrei guardato, attendendomi qualcosa da lui; il solo pensiero di quell’attesa, di certo lo agitava ed angosciava terribilmente. Non era ancora giunto il momento in cui poter costruire nessi dotati di un significato condiviso.

Il passo successivo nel nostro lavoro, fu segnato dalla ripetizione da parte di Riccardo di miei gesti, frasi e comportamenti. Un giorno prese infatti una banana e ci disegnò sopra gli occhi e la bocca, come mi aveva visto fare con la zucchina e la melanzana. Questa volta era stato lui a far passare qualcosa da oggetto a soggetto, aveva generato qualcuno; questa genesi era stata mediata dal gioco, dalla finzione, ma gli aveva permesso di immaginare di essere lui l’autore di questa trasformazione: questo faceva di lui un soggetto generatore, vivificante, legiferante.

 

Seguirono le ripetizioni di alcune sequenze di gioco che io avevo compiuto pochi minuti prima. Se facevo saltare zucchina e melanzana e poi le lasciavo sul tavolo per fare altro, capitava che lui le prendesse e rifacesse la stessa cosa. Così con le frasi, se io facevo dire alla zucchina: “buongiorno a tutti!“, lui dopo un po’, o nella seduta successiva, afferrando la zucchina diceva: “buongiorno“. Le mie azioni e le mie frasi erano quindi attentamente scrutate e mi sembrava che divenissero per Riccardo orme sicure entro cui poggiare i piedi, lungo un percorso incerto, in un mondo pericoloso.

Riccardo stava sperimentando le sedute come uno spazio di pacificazione, il suo modo di muoversi era diventato meno controllato, più sciolto e sicuro, la rilassatezza dei suoi muscoli era diversa dalla mollezza che aveva caratterizzato l’inizio dei nostri appuntamenti, le espressioni del volto, con accenni di curiosità o di stizza al momento della conclusione della seduta, confermavano l’ipotesi di una elaborazione in atto e la connotazione della seduta come luogo gradito e protetto.

Decisi allora di dargli più spazio, avrei costruito meno giochi, lasciandogli più libertà nella strutturazione del tempo a nostra disposizione. Notai che, lasciato da solo con i giochi, li disponeva l’uno accanto all’altro. La zucchina, la melanzana, la banana, e poi ancora l’uva, il pomodoro; gli oggetti venivano aggiunti sia a destra che a sinistra, senza una ragione apparente, e così la serie si allungava. Capitava che io inserissi a mia volta qualcosa senza che quest’intervento provocasse fastidio. Quando aggiungevo un oggetto, a volte lo nominavo oppure commentavo ad alta voce: “il pomodoro si è messo vicino all’uva”; altre volte, terminata la disposizione, nominavo gli oggetti secondo l’ordine progressivo in cui erano disposti. Capitava che anche Riccardo nominasse qualcuno degli oggetti, ma, terminata la loro disposizione, non mostrava alcuna soddisfazione, come accade invece quando si conclude con profitto un’attività.

Restava lì, davanti alla fila di vegetali e li guardava. Un giorno mostrò segni d’insofferenza. Aveva portato avanti il gioco della disposizione degli oggetti, li aveva nominati, ma poi si era agitato. Piagnucolando e muovendosi, come a volersi scrollare qualcosa di dosso, disse: “E poi?”. Questa domanda giungeva inattesa, in seguito sarebbe accaduto molte altre volte che mi stupisse, con domande o affermazioni che non avrei mai saputo prevedere.

I bambini autistici, spesso più di quanto non facciano i bambini in generale, ci sorprendono in modi e tempi del tutto inattesi. Per questo è importante seguire il bambino “un passo avanti”, in modo da farci afferrare dalle sue produzioni e, nello stesso tempo, essere preparati ad accoglierne al volo le sollecitazioni e, se necessario, a parare eventuali difficoltà.

Riccardo mi stava interrogando con una domanda che comunicava tutto il suo disagio per l’impossibilità di trattare come materia prima quegli oggetti che pure aveva saputo toccare, nominare, disporre. Gli oggetti erano lì davanti, ma intrattabili; la loro presenza produceva in lui un terremoto. Finché gli stessi oggetti erano sparsi erano come nulla e come nulla agivano su di lui, ma una volta che li aveva scelti, affiancati, nominati, diventavano qualcosa e quel qualcosa lo interrogava, gli domandava un poi; se ci fosse stato un poi, avrebbe rappresentato la produzione di un nesso, di un legame.

Mi si rese evidente, in quella circostanza, che Riccardo era alle prese con la parte più complessa del nostro lavoro, la costruzione di una legge di moto che gli consentisse di essere nel mondo. Si era infatti concesso di cominciare a nominare le cose, toccarle, disporle ed anche utilizzarle, imitando i miei gesti; ora gli si presentava davanti la questione del prendere un’iniziativa personale, essere lui nel mondo con la sua soggettività.

Questo passaggio alla dialettica, se mai fosse arrivato, avrebbe richiesto altro tempo e al momento si trattava di evitare che l’interrogativo prodotto da Riccardo stesso lo sprofondasse nell’angoscia.

Ripresi allora la sua domanda e dissi: “E poi, e poi, e poi, e poi … “. Ripetei “e poi” molte volte; il suo quesito diventava così il mio, ed ogni volta lo ripetevo con un tono un po’ diverso, trasformandolo in una sorta di canzoncina che rassicurò Riccardo. Difficile spiegare razionalmente come mi venne in mente di rispondere in quel modo, tutto accadde molto velocemente, tanto che solo, tempo dopo, durante una supervisione riuscii a riflettere su questa mia iniziativa.

All’istante mi era stato chiaro che Riccardo, con quella domanda – “E poi?” – aveva aperto una breccia nel muro dietro cui si proteggeva dall’intrusione del mondo esterno. Ora però aveva paura di quella fessura: andava aiutato ad evitare che l’intrusione dei pensieri, attraverso la breccia, divenisse soverchiante.

Avevo notato molte volte il gusto che aveva per la ripetizione di parole e suoni e così avevo pensato di trasformare in un ritmo l’interrogativo di Riccardo, che risuonava alle sue orecchie come un tuono. Mentre il tuono arriva improvviso e ci terrorizza, il ritmo può essere gradevole ripetizione: quando è noto lo si può ripetere all’infinito, si può interrompere e riprendere, è manipolabile con serenità.

Questa e numerose altre occasioni, connotate da una dinamica simile a quella appena descritta e che non riporto per esigenze di sintesi, furono utili a farmi comprendere che per un bambino autistico la costruzione di una legge che ordini, regoli il suo rapporto con il mondo, è l’operazione decisiva ed estremamente complessa. L’analista non solo non dovrebbe affrettarla – se mai ne avesse la possibilità -; dovrebbe piuttosto tentare – se gli riesce – di rallentarla, qualora si accorga che il bambino sta avanzando senza essere ancora pronto. Si tratta cioè di affiancare il bambino autistico nella posizione di Altro regolato;[15] un altro che non invade, non pretende, pur essendo disponibile ad ascoltare, accogliere, e, se necessario, proteggere; un altro che garantisce il bambino dalle minacce di un mondo vissuto come persecutorio, costituendo, nel contempo, un porto cui ancorarsi.

 

A scuola: “e luce fu!”

 

Le scoperte che stavo facendo con Riccardo furono decisive in occasione dell’incontro con le sue insegnanti. Riccardo stava allora frequentando l’ultimo anno della scuola materna, aveva compiuto cinque anni ed eravamo ormai giunti al mese di ottobre. Le insegnanti avevano chiesto ai genitori di potermi incontrare e così avvenne.

Sin dalle prime battute con l’educatrice fu chiaro il suo giudizio. Unica docente di classe, con la sola compresenza di una collega durante i pasti, non poteva in alcun modo occuparsi di un bambino – così lo descrisse – che non aveva mai parlato in classe, non svolgeva alcuna attività autonomamente, e “non rispondeva ad alcuna richiesta“. Alle elementari Riccardo non sarebbe potuto andare senza prevedere per lui un insegnante di sostegno.

Quando ebbe terminato il suo racconto, le dissi che comprendevo le difficoltà sperimentate con Riccardo e soprattutto la frustrazione che poteva aver vissuto di fronte al fallimento dei suoi numerosi tentativi di avvicinamento al bambino. Fu allora che disse di aver tentato di affiancarlo in tanti modi, notando che con lui la dolcezza e la prossimità fisica, tanto efficaci persino con i bambini più difficili, erano controproducenti. Compresi che si era sentita respinta e che questi rifiuti avevano contribuito a produrre una situazione di empasse e di blocco nel rapporto con Riccardo ed i suoi genitori.

Le parole della maestra rendevano evidente la necessità per la scuola di un totale ribaltamento del rapporto con Riccardo. Fino ad allora era stato trattato come un allievo a cui dover insegnare qualcosa, esattamente come accadeva con gli altri piccoli studenti, dunque non era mai stato pensato invece come un bambino innanzitutto da comprendere e dalla cui comprensione ricavare indicazioni sulle modalità da mettere in campo per tentare un contatto.

È quel che afferma di Ciaccia, nella prefazione al libro di Chiara Mangiarotti Il mondo visto attraverso una fessura, invitando a rovesciare il modo comune d’intendere l‘apprendimento: «il bambino autistico, oggi, è più che mai insegnante.»[16] Ma che cosa può insegnarci un bambino che risponde con un muro alle amorevoli cure di genitori ed insegnanti, provocando in chi gli si fa incontro un senso di profonda desolazione ed impotenza? Il bambino autistico – continua Di Ciaccia – insegna alla società, agli esperti, alle autorità e soprattutto ai burocrati, che l’a-(p) prendimento dall’Altro non è una questione di imposizione, ma di desiderio, non di costrizione ma di coinvolgimento. I bambini autistici sono in una posizione di diffidenza verso il mondo esterno. Quando un’insegnante cerca di spingerli ad apprendere, riscontra due reazioni possibili: si chiudono sempre di più o diventano aggressivi, perché non capiscono cosa si voglia da loro. Si tratta in entrambi i casi di reazioni difensive, eppure non di rado capita che vengano vissute dai docenti come offensive, oppositive nei propri confronti o altamente frustranti.

Alla docente offrii la possibilità di sentirci con regolarità, ritenendo che parlare con qualcuno del suo rapporto con Riccardo lo avrebbe alleggerito da agiti inopportuni e avrebbe fatto sentire lei meno sola; avrebbe anche compilato un questionario osservativo sugli aspetti comportamentali, motori, cognitivi, metacognitivi rilevabili a scuola; io stessa sarei entrata in classe per una seduta di osservazione.

Dai risultati del questionario emerse un quadro estremamente compromesso. La maestra non aveva dati per rispondere alla maggior parte delle domande, ad esempio non aveva riscontri per rispondere a quella in cui si chiedeva se il bambino comprendesse il significato delle parole dell’insegnante.

La docente suggeriva di trattenere ancora un anno Riccardo alla scuola dell’infanzia, proposi di non affrettare la decisione visto che con la famiglia avevamo concordato di rinviare la scelta all’estate successiva.

L’osservazione a scuola avvenne a novembre, qualche mese dall’avvio della terapia, in un momento in cui Riccardo, in studio, aveva ormai cominciato a dire qualche parola, toccare oggetti e ripetere le mie azioni o frasi. Prima dell’osservazione a scuola avevo chiesto ai genitori che mi portassero in visione il libro dei lavori che utilizzava in classe e che tanto lo preoccupava. A casa, piangendo, aveva infatti detto più volte: “io non faccio i lavori!”.

In studio lo avevamo sfogliato, utilizzandolo come libro di storie. In ogni pagina c’erano pupetti o animali, forme geometriche; con questi elementi, di volta in volta, in compagnia delle nostre amiche verdure, inventavo delle storie che lui ascoltava volentieri. Capitava che la zucchina dicesse: “qui c’è il cane che morde l’osso, mentre il gatto rincorre il topolino“ o che la melanzana raccontasse: “questo bambino regala il pallone alla bambina con le trecce“, oppure che la banana toccasse tutti gli oggetti di un certo colore o di una certa forma, rappresentati su una pagina. Nulla di predefinito, nessuna domanda a Riccardo, solo gioco: io giocavo e lui stava lì con me. Cominciarono pian piano i suoi interventi sul libro. Una volta, seguendo l’istruzione per un esercizio, mentre cercavo tutti gli oggetti tondi in una pagina, esitai qualche istante prima di nominare e toccare l’ultimo e Riccardo mi precedette, toccandolo. Il libro dei lavori era ormai diventato un gioco, solitamente gradito.

Stabilito questo nesso tra i nostri appuntamenti e la scuola, ne feci tesoro in occasione dell’osservazione in classe.

All’inizio della seduta di osservazione in classe la maestra aveva chiesto ai bambini di eseguire una delle schede, la vicina di banco di Riccardo aveva preso dal suo astuccio il pennarello rosso e glielo aveva messo in mano, lui lo impugnava come i suoi compagni e colorava il foglio guardando in aria. Arrivò l’ora della pausa: tutti i bambini si disposero in fila per andare in bagno e Riccardo venne afferrato per un braccio dalla solita compagna, inserito nella fila e un po’ spinto e un po’ tirato arrivò in bagno. La bambina gli arrotolò le maniche del grembiule fino al gomito, Riccardo restò immobile, con le braccia tese in avanti, finché la bidella non lo avvicinò al lavandino ed aprì il rubinetto. Mentre l’acqua scorreva sulle sue mani, Riccardo muoveva leggermente le dita, senza mai toccare una mano con l’altra, come normalmente si fa per lavarsi.

L’immagine che se ne ricavava era quella di un dispositivo meccanico attivato dall’esterno.

Dopo la merenda, che Riccardo non consumava mai a scuola, fu la volta dell’ora di musica, ma  lui era esonerato poiché tutte le volte in cui aveva partecipato aveva pianto in modo inconsolabile per l’intera lezione.

Rimanemmo così in classe io, Riccardo e la coordinatrice della scuola. Prendemmo il libro e, utilizzando la modalità di gioco inventata in studio, cominciammo a sfogliarne le pagine. La coordinatrice poté così osservare Riccardo mentre associava colori e forme o seguiva dei percorsi con il dito; disse che fino ad allora non lo aveva mai visto lavorare in quel modo. Non era l’unica sorpresa che avremmo avuto quel giorno.

Mentre sfogliavamo il libro, improvvisamente la luce si spense; io dissi: “è andata via la luce!”; riprendemmo il lavoro, approfittando della luminosità che entrava dalle finestre. Di lì a poco la luce si accese di nuovo e Riccardo esclamò: “è tornata!”.

Era la prima volta, in tre anni, che Riccardo pronunciava una parola a scuola. Cos’era accaduto di nuovo?

Nei nostri appuntamenti, Riccardo aveva sperimentato la possibilità di un Altro regolato, non intrusivo, fiducioso nelle sue capacità, questo gli aveva permesso di liberarsi un po’ dall’angoscia e cominciare a prendere parola in studio. A scuola, quel giorno, era diventato possibile ripetere una dinamica già sperimentata come sicura nel nostro atelier.

Riprendendo le parole con cui Donna Williams ha raccontato la sua storia, potremmo dire: «l’autistico cerca una guida che lo segua»,[17] qualcuno cioè che gli faccia strada senza tirarlo, che gli stia dietro con la certezza che lui può andare avanti.

Se le insegnanti furono tutte sorprese dal fenomeno delle parole pronunciate finalmente in classe, parole che ponevano fine al mutismo scolastico, molto pesante anche per loro, io fui sorpresa per l’edificazione, da parte di Riccardo, di un nesso tra due accadimenti: con la sua frase “è tornata”, si era connesso alla mia frase “è andata via la luce!”, aveva afferrato e rilanciato la mia offerta. Aveva superato il codice incomprensibile, fatto di parole isolate e numeri, accedendo al linguaggio in termini di produzione di legami tra parole e frasi, con l’obiettivo di comunicare con gli altri.

 

            Il primo appello: l’istituzione della domanda e l’istituzione dell’Altro

 

L’osservazione di Riccardo a scuola mi permise di constatare che in quel luogo a Riccardo veniva chiesto di fare nulla: si era costituito un articolato apparato sostitutivo di ogni sua possibile iniziativa, apparato a cui collaboravano i compagni, le bidelle, gli insegnanti.

Una dinamica simile mi era stata descritta dai genitori, sin dai primi incontri, rispetto al tempo trascorso in casa. Avevo dato il suggerimento di non anticipare più le richieste di Riccardo, lasciando a lui il compito di esprimere bisogni ed esigenze. Ai genitori che mi evidenziavano: “il bambino mugugna o piange per comunicare il fastidio o le richieste”, suggerii di lasciargli il tempo di mugugnare o piangere e di avvicinarsi a lui, senza la fretta di risolvere, concedendogli piuttosto la possibilità di esprimersi come riusciva. Avevo anche proposto di chiamare Riccardo da una stanza all’altra della casa, per chiedergli di andare a pranzo, ad esempio, smettendo di accompagnarlo negli spostamenti anche minimi, come avevano raccontato di aver fatto per anni.

A distanza di un anno dall’inizio dei nostri appuntamenti, durante uno dei colloqui periodici che avevo con i genitori, mi raccontarono che qualche giorno prima, in piena notte, Riccardo, febbricitante, li aveva chiamati dalla sua cameretta. Aveva detto, con un tono abbastanza alto da svegliarli: “Mamma, mamma … vieni”.

Era la prima volta che rivolgeva loro un appello intenzionale, formulando una frase che era una domanda. La madre ed il padre erano accorsi e si erano occupati di lui[18]. I suoi genitori, erano stati invitati all’incontro con lui, erano stati convocati, affinché gli offrissero aiuto e, con l’aiuto, la soddisfazione che desiderava. Era stata istituita la domanda e, con la domanda, l’esistenza di un altro collaboratore, un partner, socio a cui rivolgersi per ottenere soddisfazione.

Questo momento rappresentò per Riccardo un punto di svolta sulla via di uscita dalla landa desolata che aveva abitato per anni, non si trattava più soltanto di una breccia, nel muro dell’autismo, il suo atto di richiesta, di domanda, inaugurava infatti, dopo l’ingresso nel mondo, non più sentito radicalmente pericoloso, la sua stessa costruzione.

 

       Costruire il mondo

 

L’ingresso nel mondo era un inizio, ora questo stesso mondo andava edificato, proprio come fanno tutti i neonati. Dopo un anno e mezzo di trattamento cominciò ad essere annotabile l’avvio di questa costruzione. Riccardo aveva cominciato a parlare con discreta fluidità a casa e in studio, mentre a scuola accadeva ancora di rado e solo con due bambini, un maschio ed una femmina. Aveva chiamato più volte i genitori in suo aiuto ed anche con me il parlare era diventato meno angosciante.

Nei mesi successivi i giochi si erano arricchiti con animali e favole – alle quali contribuiva solo con l’aggiunta di qualche parola, ma che seguiva sempre con interesse -; aveva iniziato a disegnare, a scrivere lettere e parole, arrivando a leggere le frasi che appuntavo. Il suo intervenire era pacato e silenzioso, con un filo di voce: continuava a vivere in punta di piedi.

Un giorno, al momento del congedo aveva mantenuto in mano un panino di gomma, rivestito di un tessuto morbido, e vedendo il padre entrare nello studio aveva iniziato a piagnucolare. Guardai il padre per capire e lui disse: “Credo che Riccardo vorrebbe portarlo a casa”. Dissi che ero contenta che Riccardo avesse pensato di tenere con sé il panino, e che ero disponibile a darglielo purché lo avesse restituito all’appuntamento successivo. Riccardo smise di piangere; la seduta successiva entrò mostrandomi la mano in cui teneva stretto il panino. Fu l’inizio di una serie di traffici. Durante le sedute mi domandava, ogni volta, rispetto ad un oggetto diverso: “posso portarlo a casa?”[19], io acconsentivo a patto che poi lo riportasse. I genitori mi riferivano che a casa utilizzava gli oggetti che prendeva in studio e aveva chiesto di avere altri giochi simili a quelli che trovava da me.

Un pezzo alla volta Riccardo stava traslocando il nostro atelier, arredando la sua casa con ciò che preferiva per ripetere a casa, di sua iniziativa, ciò che facevamo in studio. La porta che chiudevo quando lo salutavo era divenuta una “membrana permeabile”, da cui era possibile portare fuori ciò che desiderava, utilizzarlo e riportarlo indietro arricchito, mentre con ciò che ne era uscito Riccardo trasformava intanto il fuori, appoggiandosi alla memoria di un uso sperimentato e di un suo modo di servirsi degli oggetti, per comporre esperienze ovunque desiderasse.

Stava assaporando il mondo: così pensai il giorno in cui, mentre giocavamo al “pranzo”, mise in bocca un hamburger di plastica, poi le patatine, un uovo, ecc. Quando raccontai l’episodio ai genitori mi riferirono che anche a casa lo trovavano spesso con oggetti di tutti i tipi in bocca, sottolineando che questa cosa non era mai accaduta in passato. Infatti durante i primi anni di vita Riccardo non aveva mai portato alla bocca oggetti o parti del proprio corpo, come fanno di norma tutti i bambini. Stava dunque vivendo ora, a sei anni, una riconquista della fase orale.

Questa considerazione mi sollecitò a considerare il vigore dell’oralità e più in generale la possibilità di entrare in contatto con il mondo con energia e con la voglia di sperimentarla con forza. Sin dal primo incontro mi avevano colpito inermità e mollezza di Riccardo. Il suo corpo sembrava pronto ad evaporare da un momento all’altro e nel contempo era malleabile come plastilina. Ecco, invece che finalmente sperimentava come il mondo potesse essere preso, assunto, fatto a bocconi. Con questi pensieri, in cui costruzione e distruzione si intersecavano, cominciai a proporre il gioco dei lego.

Collegare insieme i pezzi sembrava confonderlo. Prendeva un pezzo e lo appoggiava sopra ad un altro, senza esercitare alcuna pressione o senza fare attenzione ai punti d’incastro: non riusciva a costruire. Un giorno, entrando nello studio, vide una torre costruita da un altro bambino e cominciò a guardarla: era molto alta e troppo sottile per reggere i suoi ripetuti avvicinamenti, ed infatti poco dopo cadde, mentre i pezzi saltarono via fino ai quattro angoli della stanza. La torre, cadendo aveva fatto un rumore piuttosto forte e Riccardo aveva emesso un gridolino, ma non aveva avuto paura. Ridendo dissi: “Abbiamo fatto un disastro!”. A quel punto iniziò a muoversi saltellando, divertito ed eccitato dall’evento. Cominciai a montare una nuova torre e proposi a lui di buttarla giù. Si rifiutò e fui allora io a farla cadere, senza eccessivo fragore, non potevo rischiare di farlo spaventare, avevo imparato da lui che era più efficace non affrettare nulla. Riccardo riprese a ridere e a saltellare.

Smontare, lanciare pezzi, rovesciare il sacco dei giochi, producendo rumori fragorosi diventarono occasioni frequenti di divertimento e Riccardo mostrava di divertirsi davvero, come non era ancora mai successo. Un giorno fu lui a commentare la caduta di una torre, dicendo: “Che disastro!!“. Cominciò allora a muoversi rapidamente nello studio ripetendo come un ritornello: “Un disastro! Un disastro!”. In seguito la frase avrebbe assunto altre varianti: “Abbiamo fatto un disastro!“, o “Io ho fatto un disastro”, “Crashhh!”.  Di lì a qualche tempo, durante una seduta Riccardo disse: “Io qui vengo a fare un disastro. Queste cose a casa non si fanno!”. A distanza di due anni dall’episodio del crollo casuale della torre trovata costruita in studio, queste frasi confermano che quel crollo aveva edificato il pensiero di una sua competenza nella trasformabilità e manipolazione del mondo. Della costruzione come della scomposizione di un oggetto possiamo dire: “sono stato io!”. Il commento di Riccardo evidenziava che il lavoro di cura offre luoghi e rapporti in cui sperimentarsi, permettersi e anticipare atti non ancora vivibili altrove. Il setting della cura diventa una palestra, un banco di prova, un’anteprima rispetto al “teatro” del mondo.

Il gioco con le costruzioni tradizionali facilitava l’introduzione di puzzle che si componevano tra loro formando una base su cui poter inserire pareti, porte finestre e poi tetti, fino a dar vita a costruzioni, popolabili con pupetti di tutte le età e con tante caratteristiche somatiche. Quest’ultimo gioco era piuttosto articolato e richiedeva a Riccardo tempo e concentrazione.

Un giorno era arrivato in studio piuttosto nervoso, prima ancora di completare il montaggio fece intenzionalmente cadere tutto a terra, poi, piangendo, cominciò a dire: “E adesso, e adesso… e adesso?”[20].

Mi venne in mente di prendere uno dei puzzle e di dire: “Adesso possiamo fare che questo era un pezzo di terra che cominciava a navigare; navigando, navigando incontrava un altro pezzo di terra e si collegavano insieme, così diventavano un pezzo più grande”. Continuammo il gioco ricomponendo tutti i pezzi e Riccardo mi aiutò ad unirli; aggiunsi allora: “questo bambino – un pupetto – pensò allora che poteva salire sulla terra e ricominciare a costruire”. Riccardo a quel punto prese vari pezzi per ricostruire le case, animandole poi con gli altri pupetti. Avevamo ricostruito il mondo! Lo dissi a Riccardo, usando quest’espressione: “Ecco, il mondo rifatto!”. In seguito Riccardo fece sua l’espressione, utilizzandola per indicare i momenti in cui si trattava di ricostruire qualcosa.

La costruzione del mondo ha a che fare con la costruzione di una legge che permetta al soggetto di essere nel mondo, la legge che consente di costruire ponti e partnership: uno statuto che preveda un posto costituibile e occupabile dal soggetto e un secondo posto che il soggetto prepara perché venga occupato da un altro soggetto. Istituita la legge – con Giacomo B. Contri la definisco Regime  dell’Appuntamento – e costituito il posto di Altro, esso potrà essere occupato, di volta in volta, da qualcuno con cui il soggetto intesse traffici e commerci, anch’essi, caso per caso, giudicabili come soddisfacenti o meno.

 

Finalmente: “… giocare è difficile!”

 

Riccardo ha da poco concluso la seconda elementare. Prima che iniziasse a frequentare la primaria avevo incontrato le insegnanti per presentare il lavoro svolto e il percorso compiuto insieme; avevo detto che la presentazione del bambino inviata dalla scuola materna corrispondeva al Riccardo che lui aveva fatto conoscere alle sue insegnanti in quel tempo: un bambino di cui la maestra non sapeva neppure dire se comprendesse o meno le richieste. Di fatto Riccardo, sapeva leggere, scrivere, fare addizioni e sottrazioni con dieci numeri già prima dell’ingresso alle elementari, questo mi permetteva di suggerire che il primo anno fosse dedicato alla costruzione di un rapporto personale con lui, favorendo l’incontro con i compagni.

Organizzammo alcune visite a scuola, durante l’estate, affinché Riccardo potesse conoscere i luoghi e le persone adulte che lì avrebbe incontrato. Appena entrato in quella che sarebbe stata la sua classe, guardando i cartelloni alle pareti, esclamò: “Ci sono le lettere!” e quando la futura insegnante, vedendolo dirigersi verso la lavagna, gli disse che se voleva poteva usarla, lui scrisse: “Ciao, sono Riccardo”. Con l’insegnante di italiano si mostrò particolarmente tranquillo e, uscendo dalla scuola, la salutò pur non guardandola negli occhi.

L’inserimento fu connotato da un certo timore: il mattino arrivava nel cortile e cominciava a piagnucolare, ma una volta entrato in classe, accompagnato dai suoi compagni preferiti della materna, si tranquillizzava. Non parlava e stava sempre al suo posto anche durante l’intervallo. Ingresso, uscita e ricreazione erano i momenti più faticosi, perché meno strutturati e più lasciati alla libera iniziativa dei bambini.

Un giorno, arrivato in classe trovò che la maestra aveva cambiato i posti, tornò al banco che era stato suo fino al giorno precedente, e, trovandolo occupato, cominciò a piangere. Una bambina che era sempre stata molto attenta a Riccardo fin dalla scuola materna, lo accompagnò dalla maestra, la quale riuscì a trovare il modo di convincerlo a sedersi nel nuovo posto che gli era stato assegnato.

La disponibilità e la creatività delle docenti unitamente all’impegno e al desiderio di Riccardo di essere realmente presente in classe, gli hanno consentito di seguire il programma curricolare, risultando tra i più bravi in italiano ed il migliore in inglese. Dopo i primi mesi di scuola aveva iniziato a parlare sottovoce con una bambina con cui aveva condiviso il banco anche alla materna. Lei era molto abile nell’interpretare i suoi momenti di nervosismo e spesso si faceva mediatrice delle esigenze e delle intenzioni di Riccardo con compagni e insegnanti. Verso la fine del primo anno di scuola aveva iniziato a interloquire anche con altri bambini e a salutarli.

Oggi capita spessissimo che Riccardo in seduta non solo eserciti il linguaggio, ma se ne serva per giocare con le parole. Un giorno inventò che un personaggio di fantasia, creato insieme, parlava spagnolo e per molte sedute si divertì ad aggiungere la “s” alle parole: andiamos, giochiamos, casas. Accadeva che correggesse qualcosa che scrivevo velocemente senza rendere le lettere chiaramente distinguibili, oppure amplificava il suono di alcune sillabe. In un’occasione gli avevo risposto “Yessss” e lui iniziò subito a scrivere la parola “yes” su un foglio aggiungendovi decine di “s”.

Nell’ultimo anno, approfittando di un giorno in cui era arrivato con i capelli visibilmente più corti, ho provato a proporgli il gioco del parrucchiere, dapprima con delle bambole e poi tra noi. Io mi sedevo e lui doveva lavarmi i capelli. Lui si limitava a sfiorarmi, su mio invito, mentre lasciava che io “lavassi” i suoi. Lo toccavo facendo piccoli movimenti sulla testa con i polpastrelli e lui aveva sentito solletico. In seguito capitava che si sedesse sulla stessa sedia con la testa appoggiata sulla spalliera, attendendo che ripetessi “lo shampoo”. Stava sperimentando il piacere di essere toccato delicatamente.

 

Con questa frase di Riccardo: “Giocare è difficile!”, pronunciata con agitazione ed angoscia, durante una recente seduta in cui aveva disposto pupetti ed animali, senza però riuscire ad avviare alcuna attività, sintetizzerei il punto dell’elaborazione, raggiunto dopo quattro anni di lavoro.

I genitori mi avevano riferito che nell’ultimo periodo di scuola era spesso tornato a casa dicendo: “non riesco a giocare”, o “non so parlare con i bambini”. Riccardo oggi guarda i bambini con interesse e tenta avvicinamenti spesso goffi e poco sintonizzati con i movimenti dei compagni. Li imita correndo, riproducendo le loro azioni o ripetendo alcune frasi; raramente prende l’iniziativa e non sempre mostra reciprocità con tempistiche sincroniche agli atti altrui; se un bambino lo abbraccia lo lascia fare, senza corrispondere con il suo corpo in maniera sintonica, rimanendo rigido, ma poi a casa capita che racconti l’accaduto mostrandosene compiaciuto. Si avvicina e si lascia avvicinare, si intristisce però quando non trova corrispondenza, mentre apprezza la compagnia dei bambini che con continuità mostrano esplicitamente interesse e disponibilità a giocare con lui. La difficoltà principale di Riccardo risiede oggi nel prendere un’iniziativa diretta verso l’altro, che abbia la forma di un invito.

Durante un incontro in cui i genitori mi raccontavano la preoccupazione di Riccardo per le difficoltà incontrate nel giocare, utilizzai con loro per la prima volta la parola autismo, per indicare che cosa Riccardo era riuscito a lasciarsi alle spalle, un superamento testimoniato anche dal dispiacere e dalla delusione che lui provava per relazioni non ancora del tutto soddisfacenti. Erano consapevoli che quella era la condizione psichica di Riccardo all’inizio dei nostri incontri, ma ora, di fronte al figlio che aveva ricominciato a vivere, potevano nominarla senza che nuocesse, aggiungendo terrore e confusione ai loro pensieri.

Oggi i rapporti sono diventati fonti di piacere e di dispiacere per Riccardo, come accade ad ogni essere umano. Costruire relazioni è un’aspirazione e nel contempo può comportare problemi; gli stessi genitori riescono ad accogliere questi passaggi senza esserne troppo angosciati.

Nell’autismo la vita sociale è un problema che non si pone, in quanto l’autistico non la cerca, non avendone alcun desiderio. È solo nella salute – ossia laddove sia stata composta una legge di moto a due posti e dove la soddisfazione abbia assunto la veste di meta raggiungibile, grazie all’apporto di altri – che le persone ed i rapporti vengono riconosciuti e perseguiti come irrinunciabili. La difficoltà di Riccardo nel fare amicizia ed il conseguente dispiacere si correlano oggi alla consapevolezza della fatica e dei fallimenti possibili nei rapporti, segnalando nel contempo il raggiungimento di un traguardo importante, il suo voler esserci con gli altri, base solida per il permanente lavoro di conquista del mondo.

 

Note:

[1]Laznik M.C, La teoria lacaniana della pulsione permetterebbe di far progredire la ricerca sull’autismo, in La Célibataire, Automne-Hiver 2000, pp 67-78, (trad. it: in Rivista di Psicoanalisi, 2016, LXII, 3).

[2] Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, DSM -5, American Psychiatric Association, Raffaello Cortina Editore, 2014, p 61: “Disturbo dello spettro autistico … le caratteristiche diagnostiche centrali sono evidenti nel periodo dello sviluppo, ma misure d’intervento, modalità di compensazione e supporto possono mascherare le difficoltà almeno in alcuni contesti.”

[3] Questa definizione mira a focalizzare l’essenza propria di quella condizione psichica che, pur nella enorme varietà dei quadri neurobiologici, cognitivi, linguistici e comportamentali, riconduciamo alla categoria di Disturbo dello spettro autistico.

[4] A cura di Maria Gabriella Pediconi e di Carla Urbinati, (2019), Non ci sono. Autismo: orientamenti di guarigione con la psicoanalisi, Franco Angeli, Milano.

 

[5] Giacomo B. Contri, medico, psicoanalista, Presidente della Società Amici del Pensiero “Sigmund Freud” di Milano. Già analizzando di J. Lacan, membro della sua Ecole Freudienne de Paris, nonché suo traduttore presso Einaudi (1974). Dal 1970 ha iniziato a sviluppare il Pensiero di natura con una tesi di dottorato a Parigi dal titolo Loi symbolique/ Loi positive. I suoi lavori, in particolare la serie Think! sono consultabili su www.giacomocontri.it e www.societaamicidelpensiero.it

[6] Maria Gabriella Pediconi, docente e ricercatore di psicologia dinamica dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Psicoanalista della Società Amici del Pensiero “Sigmund Freud” di Milano. Coniuga la ricerca clinica e psicoanalitica con le scienze sociali ed economiche.

 

[7] Per approfondimenti sulla concezione metapsicologica della vita psichica nell’autismo, che ha supportato e sostenuto il lavoro di cura condotto con Riccardo, si rinvia alla sezione Pietre miliari del libro Non ci sono. Autismo: orientamenti di guarigione con la psicoanalisi, (2019), Franco Angeli, Milano.

 

 

[8] Scrive M. Egge nel libro curato da Chiara Mangiarotti Il mondo visto attraverso una fessura (2012), Quodlibet Studio, p.13: «L’operatore deve essere capace di cogliere al volo le sollecitazioni del bambino, agganciandosi inizialmente a quello che chiamiamo il suo biglietto da visita. Ogni bambino si presenta infatti con qualcosa di particolare: due borse, una serie di mollette, una bambola, delle musicassette, una carta geografica o anche semplicemente il suo corpo. Si tratta dell’oggetto complemento, attraverso cui il bambino si sostiene. L’oggetto del bambino va accolto, sviluppato in un atelier a volte creato appositamente per lui, fino a che il suo interesse si allarga ad altri oggetti e si sposta su altre attività.»

 

[9] Cfr. J. Lacan, Conferenza sul sintomo (Conferenza di Ginevra 1975), in La Psicoanalisi n. 2, ottobre 1987, Astrolabio.

[10] A. Di Ciaccia, Prefazione, in C. Mangiarotti (2012), op. cit. p.7.

[11] Ibidem, pp.7-8.

[12] J. Lacan, Conferenza sul sintomo (Conferenza di Ginevra 1975), in La Psicoanalisi n. 2, ottobre 1987, Astrolabio.

[13] Nell‘autismo l’Altro non esiste in quanto Altro, il prossimo è eliso. Non essendo trattato come partner, l’Altro rappresenta nella migliore delle ipotesi una protesi di cui il soggetto autistico si serve per raggiungere i suoi fini, ma non di rado è percepito anche come fonte di disturbo o di pericolo. Quando qualcuno si rivolge all’autistico questi precipita nell’agitazione, non capisce cosa si voglia da lui, si sente assediato e di frequente attiva, a fini difensivi, stereotipie ed ecolalie. Potremmo quindi individuare come segno di cedimento dell’autismo, per quanto potenzialmente parziale o episodico, l’istituzione dell’Altro come soggetto, istituzione che ha il suo tratto distintivo nella domanda che a questo Altro può essere rivolta, affinché si faccia partner, socio.

 

[14] La fortezza vuota è il titolo di uno dei più noti e discussi testi di Bettelheim dedicato all’autismo.

[15] Ibidem, p. 13

[16] Ibidem, pp. 7-8

[17] Le parole dell’autobiografia di Donna Williams vengono citate dal nel testo di Mangiarotti (2012), op. cit., p. 24.

[18] Con Giacomo Contri, direi che con questa domanda Riccardo aveva finalmente istituito il Regime dell’Appuntamento. Per approfondimenti si rinvia a G.B. Contri, Il regime dell’appuntamento. Quid ius?, Introduzione al Corso 2010-2011, della SAP Milano, sito: www.societàamicidelpensiero.it.

[19] “Posso portarlo a casa?”. A questa domanda andrebbe dedicato un ampio approfondimento, sia per la rarità con cui Riccardo si concedeva di formulare delle domande, sia perché, tolto il punto interrogativo, la medesima frase diviene una dichiarazione decisiva sulla via della strutturazione del soggetto. Riccardo, domandandolo, mi stava dichiarando che lui poteva portare a casa ciò che viveva nel tempo-luogo del nostro incontro. Non è forse questo uno dei fini di ogni terapia? Poter estendere oltre lo studio dell’analista le conquiste che vi si sperimentano.

[20] Questo interrogativo mi ricordava quel suo “E poi?” di anni prima, quando difronte alla disposizione in fila delle verdure non sapeva più come orientare il suo moto, ora però Riccardo non era più lo stesso e a me era offerta la possibilità, per lui raccoglibile senza fughe, di allegarmi alla sua domanda, con l’invito a continuare la costruzione. La canzoncina che avevo inventato dopo il suo “E poi?” era stata una rassicurazione, una consolazione allora necessaria a dirgli: “io ci sono, resta qui con me”, ma da allora eravamo andati avanti.

Data:

02/11/2022

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European Journal of Psychoanalysis