Ho sentito il discorso della Lagarde.  Mi ha colpito il profluvio di cifre, dati, percentuali.  Numeri.  Abbiamo tutti imparato a fidarci dei numeri, spesso a demandare ad essi quella verità che non riusciamo a cogliere nel particolare, quello sguardo allargato che, calati nelle cose, ci sfugge.  Da lassù, dall’alto del mondo dei numeri siamo tutti Micromega che osservano a debita distanza quel che avviene quaggiù.  Il fatto è che qui, al tempo del Covid-19, succedono tante cose, troppe per poterle osservare tutte insieme e per dare parole e senso a tutte.  Ci proviamo, fiduciosi nella nostra capacità di ragionare, di discernere, di separare il vero e il falso, ma pare impossibile tenere insieme i dati dell’epidemiologia del virus, dell’incidenza e della prevalenza, quelli della storia dell’epidemiologia delle catastrofi pandemiche del passato, quelli della politica e quelli dell’economia, quelli della prevenzione, delle politiche sanitarie, della biopolitica, che ci attraversa, nella versione tendenzialmente persecutoria a cui Agamben, nella sua sofisticata e pur sempre interessante analisi non pare sottrarsi (punta di diamante di un sottobosco umorale e ben meno colto che alimenta il millenarismo con altri argomenti, rozzi ed essenziali, e, con esso, l’idea di un potere anonimo e castale che dispone e, se non causa, sicuramente approfitta della condizione attuale o meschinamente cerca almeno di garantire i propri privilegi – magari con un tampone in più pur non dovuto… -: anime semplici ma moti dell’animo complessi, senza dubbio); oppure in quella più esistenziale che cerca di intercettare umori, pensieri o più spesso timori, angosce, incursioni nel terrore indotto dalla morte e, a scendere, dal contagio, dalla diffidenza per il prossimo, dall’esposizione casuale ma inesorabile a un microrganismo ineffabile ma letale, viaggiatore instancabile e avido che si muove indisturbato tra frontiere politiche e barriere individuali a cui il sistema immunitario non pare opporre dogane invalicabili…

Il fatto è che ci sono numeri e numeri, quelli che rassicurano (percentuali di ammalati, di contagiati, di guariti, età media dei deceduti, diminuzione dei morti su strada, dei furti etc.) e quelli che paralizzano (crescita esponenziale della diffusione, numero giornaliero di morti).  E’ proprio questo, il numero di persone che muoiono ogni giorno, il dato che più mi inquieta, che mi costringe a scendere sulla terra dal lontano pianeta di Sirio e a confrontarmi con la realtà di queste perdite.  E’ qui che la statistica e la quantificazione rivelano il loro volto difensivo, la loro ambizione a occupare il luogo del dolore, a sfrattare la paura che incombe con la  ragione dei numeri.  E’ sempre qui che la biopolitica incontra i corpi, affannati, intubati, morti soffocati, da seppellire.  E quelli terrorizzati, in solitudine, afflitti da somatosi di varia entità, specchio di un indicibile, di una minaccia non pensabile contro cui la ragione ha armi spuntate.  Difficile smentire il fatto che si tratti pur sempre di numeri esigui rispetto ad epidemie influenzali recenti o addirittura infinitesimali, se confrontati con le grandi pandemie dello scorso secolo che Sergio Benvenuto correttamente enumera.  Eppure… La falcidia di persone che soprattutto in Lombardia sta seminando terrore e a cui l’eroismo di sempre pochi professionisti cerca di porre argine è in ogni caso stupefacente, fuori scala, al di fuori della metabolizzazione psichica, come si dice avvenga per i traumi.  Come se, nel quartiere trasteverino dove viviamo, cadessero uno per volta, il vicino, il negoziante, il conoscente, l’amico…  Morti prossime, e noi da qui non riusciamo a raffigurarcelo, ma è così che sta succedendo.  Tanti Ivan Illic che non possono consolarsi della morte del prossimo perché comunque lontano.  Qui, ripeto, i dati, i flussi, le statistiche vengono meno, non perché perdono di valore assoluto, ma perché non servono ad affrontare il fenomeno, non servono a governare le emozioni.  Non prevengono, ad esempio dall’acquisto compulsivo di farmaci supposti salvavita o, si parva licet, di carta igienica…  Non esentano dall’ossessione per il minimo segno somatico, per il vago segnale del corpo proprio o del prossimo caro, potenziale foriero di malattia, mai come in questo caso associato alla morte, peraltro.  Un dolore imminente ci rallenta, a volte paralizza, diventa immanente anche grazie alla forzata permanenza nelle case che, da spazio dell’intimità, si trasformano in luoghi di confino.  Che cosa vivono coloro che vedono tanti morti intorno a sé, tutti i giorni, tutti per lo stesso motivo?  La conta dei morti e le sepolture continue che effetto hanno su chi ha paura e al contempo, soffre il dolore di una perdita?

E che dire dell’ipocrita e tardiva esaltazione del Sistema Sanitario Nazionale da parte di tutti coloro che ne hanno pazientemente curato lo smantellamento a favore di un privato d’accatto perché finanziato dal pubblico?  Dei cantori del mantra “pubblico/e/privato devono convivere (coi soldi pubblici…)”?  Dei convinti assertori del modello assicurativo privatistico e del “i soldi sono miei e me li spendo dove voglio io”?  Della ‘bontà’ di un sistema statale feudalizzato attraverso la concessione di potere e soldi alle satrapie regionali, che rivela tutta la sua dispersività, il suo asservimento alle logiche politiche del governatore di turno?  Per contrappasso, stiamo riscoprendo uno stato che si occupa a tal punto della salute dei cittadini che lo compongono da limitarne i movimenti da intrudere, protettivamente, nelle loro (nostre) vite anche a rischio di altre emergenze, economiche stavolta.  Con buona pace del modello liberista del less is more e dello stato leggero, o assente, perché ha abdicato a favore del governo globalizzato di organismi produttivi sovrastatali.  Anche questo è biopolitica.

Prima di chiudere questa nota, e rinunciando a soffermarmi sui tentativi ipomani e teneri di reagire all’isolamento con flash mob, concerti sul balcone, manifestazioni di solidarietà alla finestra, vorrei provare a tornare su Sirio per ricordare, spero in modo non retorico, il fatto che questo nostro sacrificio, queste nostre turbe, questi terrori quotidiani, riguardano, per ora, una parte della popolazione mondiale.  Per quel che si riferisce all’Italia, stare in 6 in 50 mq. non è la stessa cosa che stare in 2 in 150.  Argomento lapalissiano quanto si vuole, ma indice di una legittima preoccupazione rispetto alla tenuta alla lunga delle misure di politica sanitaria e sociale adottate: quanto a lungo si potrà resistere, quanto a lungo la nostra società sarà capace di sopportare e reggere?  Non solo l’economia, fondamento della ricchezza e della povertà, ma le teste, i corpi e, con essi, il corpo sociale.  Lo stress test del conflitto sociale sopito e anestetizzato da decenni di imbambolamento mediatico e im-politico si rivelerà esiziale per un assetto precario, per sovranismi e populismi di varia fatta, o ne esalterà le irragionevoli ragioni?

Sempre da Sirio, vi assicuro che si vedono anche altre cose da quassù.  Contando bene, a spanna perché dalla distanza non si riesce ad essere troppo precisi, si vedono masse di decine di migliaia di umani che vivono in condizioni terrificanti, paiono formiche, cercando di entrare in questo mondo privilegiato in cui noi ci stiamo blindando per paura non solo e non più dell’invasione ma della contaminazione di un esserino molto più libero di muoversi rispetto a loro.  Samos, Lesbos, le sponde del fiume Evros, ci ricordano (dovrebbero ricordarci), che siamo in una parte di mondo minoritaria.  Antico argomento coloniale e postcoloniale che non si fa incantare dalla globalizzazione…  Per non parlare di cavallette in Kenia e in Corno d’Africa.  Sappiamo tutto di quello che si decide a Madrid, a Berlino, a Londra per contrastare il Covid-19 e le conseguenze sulla salute dei cittadini e nelle tasche degli stati; degli opportunismi politici, delle convenienze, delle opportunità, delle marpionate mediatiche trumpiane, ma chi ci dice quello che sta succedendo laggiù?  Chi ci racconta con uguale partecipazione le vicende di quegli esseri umani che, come noi in queste settimane, si confrontano con la precarietà e con la morte non nell’eremitaggio domestico forzato ma in campi disumani dove la violenza è endemica, almeno quanto le infezioni che vi attecchiscono.

La pretesa unione, la solidarietà, le misure economiche per contrastare le conseguenze fisiche, economiche, geo e biopolitiche del Coronavirus, continuano inesorabili a riguardare solo quella parte in cui viviamo noi.  Niente di neppur lontanamente simile si profila per contrastare altre morti, altri numeri, altri dolori, altri uomini che, con ritmo che nulla ha da invidiare al Corona, lasciano questa terra.  Tutti i giorni, bambini, donne, giovani, adulti, anziani.  Tutti.  Il virus ci cambierà, si dice, non saremo più come prima.  Ma sapremo ricordarci anche di quelle vicende?  La Lagarde o chi per lei troverà numeri adeguati nei suoi report per modificare qualcosa in un mondo di diseguaglianze, disparità insopportabili e ingiustizia?  Riuscirà a occupare non solo lo scranno di una banchiera ma anche un luogo dell’immaginario che non sia identificato con l’esattore delle colpe o con il padre inflessibile che della legge conosce solo il lato punitivo (“Non siamo qui per risolvere coi nostri soldi i problemi che gli stati improvvidi hanno al loro interno, nessuno si illuda, capito Italia…!!”)?  Sono un’anima bella e ingenua?  Possibile.

Mi rendo conto che viaggiare tra Sirio e la Terra non è cosa facile e costringe a cambiare scala, visione, pensieri.  Eppure, penso, quell’umanesimo richiamato da Sergio Benvenuto, impone questo esercizio se non vogliamo arroccarci nelle case in attesa che suoni la sirena del finito allarme e, soprattutto, se riteniamo che questa inattesa, severa lezione, possa servirci.  A tutti noi, per tutti noi.

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European Journal of Psychoanalysis