Commento all’articolo “Autismo: traiettorie di cura con la psicoanalisi” di Urbinati

Mi limito ad alcune riflessioni in reazione al report clinico di Carla Urbinati (“Autismo: traiettorie di cura con la psicoanalisi. Il caso di Riccardo, European Journal of Psychoanalysis, https://www.journal-psychoanalysis.eu/articles/autismo-traiettorie-di-cura-con-la-psicoanalisi/).

Ho trovato questa storia molto interessante, anche perché oso pensare che obliquamente confermi le mie ipotesi sull’autismo. In breve, considero l’autismo essenzialmente un’agnosia della soggettività, propria e dell’altro[1].

In verità, quel che Carla Urbinati ha fatto con Riccardo non ha nulla a che vedere con quel che un analista farebbe con un bambino psicotico. Per usare il linguaggio lacaniano, lo psicotico è minacciato, accerchiato, subissato dall’Altro, mentre qui, come dice Urbinati, Riccardo non vuol saperne dell’Altro, insomma l’Altro non c’è. Ma l’Altro è il presupposto essenziale di ogni riconoscimento anche della propria soggettività. Secondo me la sua terapia – se vogliamo chiamarla così – è consistita in un trapianto di soggettività in Riccardo. Più che analisi è stata un’operazione chirurgica… per via di mettere, non di levare. La questione rimane aperta se occorre considerare quel che Urbinati e altri fanno con gli autistici un trapianto o una semplice applicazione di protesi. La protesi resta qualcosa di estraneo a un organismo, ma non c’è rischio di rigetto. Se invece il trapianto supera il rigetto, significa che il nuovo organo è ormai parte integrante dell’organismo, in questo caso psichico. L’organo trapiantato sarebbe – nel caso di cura dell’autismo – la soggettività.

Se non ho capito male, Riccardo quando giunge all’analista parla solo con numeri. Bello lo scambio: ““Giochiamo?” Risposta: “Sei”” Non vedo questa risposta di Riccardo come un rifiuto di rispondere a Carla, anzi, come il solo modo in cui lui possa risponderle. E’ come se parlasse con l’altro solo un linguaggio cifrato, senza fornire all’altro la chiave di decifrazione. Non cadrei nella trappola di cercare di interpretare quel “sei”, ad esempio, come seconda persona dell’indicativo del verbo essere. In questo caso i numeri sarebbero metafore, ma l’autistico non usa metafore, come ben sappiamo. Stessa cosa per il “tre” iniziale.  Maria Gabriella Pediconi – nel suo commento a questo caso – lo interpreta come un’allusione al fatto che nella stanza ci siano tre persone (la terapeuta e i due genitori) ma non lui. Però “io non ci sono” è esso stesso il senso di una metafora. Significare “io non ci sono” implica già un accesso pieno alla soggettività (la quale può essere definita anzi, in generale, proprio come “non esserci”), ma ci rendiamo ben conto che invece Carla ha dovuto innestarla, questa soggettività. E in effetti Carla si guarda bene dall’interpretare, prima e poi, questa risposta: sa che con gli autistici non ha senso interpretare il senso.

Ho l’impressione che gli autistici ricorrano all’ecolalia cercando così di articolare una conversazione per loro impossibile. Ripetono quello che l’altro dice come se questa fosse la loro unica risposta possibile. Direi che dire “tre” perché trova quel numero da Carla è un’eco-grafia, dato che ripete il numero 3 letto su una bottiglia di profumo presente nella stanza.

Allora perché “tre”? Rischio un’ipotesi. Vedendo quel numero sulla bottiglia o altro che sia, ha ritrovato qualcosa per lui familiare: i numeri. Ha trovato in un luogo altrui un elemento che gli è comune, per cui dicendo “tre” ha tentato, a mio avviso, un primo approccio con la terapeuta. Gli albori di una comunanza e quindi di una comunicazione.

Mi chiedo se i numeri che dice siano del tutto casuali o abbiano una loro logica. Se non sia a caso che abbia risposto “sei” a “giochiamo?”, piuttosto che un altro numero.

Sembrerebbe che Riccardo parla solo con numeri, ma d’altro lato sa leggere, scrivere e far di conto. In altre parole, ha un accesso pieno alla scrittura, non alla parola. Anzi, è molto precoce nella sua padronanza della scrittura (il caso sarebbe piaciuto a Derrida), direi che è quasi un enfant prodige. In ogni caso ha una competenza precoce con la scrittura. Certo sarebbe interessante sapere che cosa scriveva e che cosa leggeva, ma ci scommetterei che non scriveva nulla di espressivo, per dir così. In questo senso sarei cauto (se mi si permette una deriva teorica) nel dire che Riccardo non ha accesso alla legge. Dipende da quel che intendiamo per legge. Forse Giacomo Contri (il cui pensiero Urbinati qui evoca) dava a “legge” un senso molto particolare. Se per legge intendiamo un sistema di regole formali, allora direi che Riccardo non solo ha accesso al simbolico, ma ne è persino imprigionato, dato che non riesce a “dire la sua”. Diciamo che non ha accesso alla legge dal volto umano

La serie dei numeri naturali è retta da una legge ferrea, e siccome Riccardo sa far di conto, la conosce bene. Urbinati parla a un certo punto di “catena significante”. Ora, la catena significante più pura è quella dei numeri. I numeri non hanno senso, o meglio, il loro senso è tutto nella posizione strutturale che occupano. Insomma, Riccardo parla come un computer, un calcolatore. Non che egli sia un computer, ma il linguaggio è per lui software. Carla gli insegnerà poi a parlare, ovvero, a legare la legge alla soggettività. Carla si è posta come Altro non in quanto legge, ma in quanto soggettività. Questa differenza mi pare essenziale, anche se sembra una differenza puramente teorica.

L’”e poi?” di Riccardo – dopo che la serie degli oggetti disposti e nominati è conclusa – mi sembra un altro momento importante. Egli sa che potrebbe aggiungere sempre un altro oggetto, lui di numeri se ne intende e sa che si può aggiungere sempre un’unità a qualsiasi numero per quanto alto… L’”e poi?” marca la soggettività grazie al posto vuoto che manca: si rende conto che la soggettività non è “un posto in più”, ma qualcosa che manca alla serie, se vogliamo. Per la prima volta nota che ci deve essere qualcosa di mancante in lui, ma che egli ancora manca di questa mancanza. Capisce che quel che gli manca non è qualcosa in più, ma l’interrogazione (“e poi?”).

Mi ha incuriosito il fatto che Riccardo all’inizio cammini in modo bizzarro dando la precedenza alla gamba destra, e trascini la sinistra. Non so se Riccardo ha dominanza della destra. Se fosse così, faccio questa ipotesi. Tutti noi abbiamo un emisfero cerebrale dominante, solo che Riccardo sembra radicalizzare la differenza dominante/non-dominante. Cammina come la caricatura di qualcuno con la dominanza cerebrale sinistra. In effetti la funzione soggettiva ha la funzione di attutire la dominanza di uno dei due emisferi. In Riccardo invece la dominanza sembra non ammortizzata, essa viene come esaltata. Credo che sia un po’ la stessa cosa quando si lava le mani senza mai unirle: sembra avere difficoltà ad armonizzare destra e sinistra. In effetti, non importa quale emisfero sia dominante, alla fin fine ogni soggetto trova una gerarchia funzionale tra sinistra e destra.

 

La strategia terapeutica di Carla mi sembra imperniata nel proporre sé stessa continuamente come Altro desiderante (“Oggi ho proprio voglia di mangiare il minestrone…”), come soggetto che vuole e agisce coerentemente con la propria volontà. Ma senza costringere Riccardo a desiderare. Carla si pone come campionessa della soggettività, non forza la soggettività che non è ancora del bambino, per esempio non lo aggredisce con domande.

L’idea della terapeuta di disegnare un volto sulla zucchina e su altri ortaggi è indubbiamente brillante. Di fatto, ha costruito un teatro di burattini (strumento che potrebbe funzionare anche con altri autistici, credo). Una pupo-terapia. Non credo che il fatto che fossero commestibili cambi molto: se lei avesse disegnato un volto su altri oggetti, il risultato sarebbe stato forse lo stesso. (Mi chiedo se Carla abbia pensato ad animare una zucchina partendo dall’idea che per Riccardo gli altri sono come zucchine, e certo lui non è zuccone…) Non avrei detto però, come scrive Carla, che il volto sulla zucchina è “passaggio da oggetto a soggetto”. Un volto disegnato non è un soggetto, ma una simulazione di soggetto, ed è proprio questa simulazione la cosa importante: un soggetto è chi è capace di simulare. Nella misura in cui Riccardo accetta la simulazione e ci gioca, si apre alla dimensione soggettiva. (Mi chiedo anche se il successo della favola di Pinocchio non sia connesso al fatto che per i bambini il burattino che si anima sia un modo di iniziazione alla dimensione inter-soggettiva.)

 

 

 

 

 

“Ci sono anche 2 e 4”

Zucchina dal volto umano. Sensazione che gli altri per R. sono zucchine.

L’autistico entra in crisi quando qualcuno gli si rivolge direttamente perché questo implica la mobilitazione di qualcosa che non riconosce, la propria soggettività. Da qui l’ecolalia: è quanto trova di meglio per simulare una soggettività

“Vorrei che la zucchina avesse un amico”, la melanzana.

“Afferrare il filo che gli tendevo”. Più che un filo hai costruito un teatro, attraverso il quale poter distinguere finalmente personaggi e interpreti.

Prende una banana e ci disegna un volto. No, perché una faccia disegnata su una banana non è un soggetto. E’ la simulazione di una soggettività, ma è nella simulazione che si esprime la soggettività. Gli oggetti non simulano.

Rifiuta la serie ordinata. Perché numeri casuali? Perché il numero a caso sta per lui al posto della soggettività.

Dalla mollezza alla rilassatezza.

Disposizione degli oggetti: “E poi?” Dopo un numero c’è sempre un altro numero, non emerge mai il soggetto, che è una sorta di buco.  R. attende l’Avvento del soggetto, di qualcosa che non conosce ma di cui intuisce l’esistenza.

“La costruzione di una legge che ordini, regoli il suo rapporto con il mondo” Questa legge è la soggettività stessa, che dà un centro, anche vuoto, al mondo.

“Minacce di un mondo vissuto come persecutorio”. Il mondo è persecutorio come sarebbe un ambiente con una musica assordante…

Lavarsi le mani muovendo le dita, senza stringere le due mani. Idea di un impulso meccanico.

Mai portato oggetti o parti del proprio corpo in bocca, come fanno bambini piccoli. Difficoltà a introiettare: non c’è NULLA dove introiettare.

Dire “non ci sono” implica già un accesso pieno alla soggettività… L’autistico NON DICE NULLA.

Note:

[1] Ho articolato la mia ipotesi in: S. Benvenuto, “L’autismo, una battaglia persa della psicoanalisi”, Psychiatry On Line, 15 luglio 2018, http://www.psychiatryonline.it/node/7494. Dibattito sull’autismo, da DIVISION/REVIEW, S. Benvenuto, J. Lhulier, M. Krass, European Journal of Psychoanalysis, http://www.journal-psychoanalysis.eu/un-dibattito-sullautismo-traduzione-da-divisionreview/

Data:

17/11/2022

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European Journal of Psychoanalysis