INCERTEZZE DEL GENDER. Contraddizioni, veli e problemi di genere

 

10 novembre 2023.

Nota di discussione sul testo di Ilene Philipson per il seminario “Incertezze di genere”.

 

Traduzione di Gianmaria Senia

 

Partiamo dal principio che non è mai troppo tardi per affermare la verità nei confronti di un potere censorio o di un regime egemonico. È qualcosa che sappiamo grazie al nostro lavoro di psicoanalisti. Svuotare un altro del potere che gli abbiamo conferito mediante l’urgenza e la rivendicazione delle nostre parole è uno dei fini, o degli obiettivi, del nostro lavoro. Questo vale sia in ambito clinico che sociale. Le osservazioni che la dottoressa Philipson ci ha proposto oggi rappresentano una coraggiosissima incarnazione proprio di questa sensibilità analitica generativa.

Al fine di contestualizzare le osservazioni che presenterò oggi, vorrei menzionare brevemente che ho una vasta esperienza nel lavoro con persone trans e queer, sia in ambito clinico che non. 15 anni fa ho contribuito a istituire un programma post-laurea di formazione per terapeuti concepito specificamente per attrarre persone queer e trans. Da docente e direttore di questo programma, ho avuto modo di lavorare con grandi risultati con decine di studenti e consulenti che si dichiaravano non-binari o trans. Inoltre, ho avuto vari analizzanti con identità di genere non conformi nel corso della mia pratica psicoanalitica. Questo per dire che conosco bene il terreno che stiamo cercando di percorrere oggi e che mi occupo intensamente di questi temi da oltre dieci anni e mezzo. L’esperienza trans e queer è stata importante per me dal punto di vista sia personale che professionale.

Per il mio intervento di oggi, vorrei concentrarmi in parte sulla contraddizione insita nei discorsi trans che la dottoressa Philipson rileva nel suo testo. Citando direttamente Judith Butler, l’autrice nota che ogni parvenza di “vera identità di genere” è intesa come “finzione regolativa” mantenuta attraverso la performatività (p. 7). Eppure, come fa notare, in questa prospettiva risiede una presenza inquietante; ovvero che ci sono corpi “corretti” che una persona può arrivare a incarnare (tramite la chirurgia, l’assunzione di ormoni, ecc.). Ben inteso, come rileva giustamente la dottoressa Philipson, questa seconda prospettiva presuppone l’esistenza di un corpo-genere “autentico” che ogni soggetto sarebbe in grado conoscere prima di qualsiasi performatività. Inoltre, i mezzi con cui si giunge a questa cognizione di un corpo-genere corretto restano imprecisati. Non resta che ipotizzare l’intervento di un processo essenzialista e quasi gnostico. Il soggetto va creduto perché questo è quel che percepisce, e qualsiasi interrogativo riguardante i motivi di tale percezione, di tale cognizione, deve essere considerato quantomeno sospetto, se non apertamente transfobico.

Sarebbe bene chiedersi che cosa occorre fare per assicurarsi che la contraddizione resti invisibile e, soprattutto, che cosa nasconde. Si tratta di un’iterazione di che cosa? E, a onor del vero, questa critica alla contraddizione che sta alla base di molti discorsi trans non vale necessariamente per altri discorsi gender-fluid o queer, che non assumono una posizione essenzialista e rigida su questo preciso punto. Anche se va detto che molti altri filoni concretizzanti ed essenzializzanti possono imperversare nei discorsi gender-fluid o queer, rendendo spesso le categorie di genere “tradizionali” molto più assolutistiche e monolitiche di quanto in realtà non siano; come se qualsiasi soggetto di genere “tradizionale” fosse più che soddisfatto del ruolo che ha assunto o che gli è stato “assegnato”. Il lavoro clinico ci insegna il contrario. Tutti hanno “problemi di genere”, semplicemente in virtù del fatto di essere umani.

Ogni teoria ha la sua mancanza, che nel migliore dei casi può fungere da perno o punto di trasformazione nel sistema di pensiero più ampio entro cui è racchiusa. Ma perché questa mancanza funzioni in questo modo, occorre che venga affrontata, che se ne parli, che ci si confronti con essa, che la si superi in qualche modo, ma solo per lasciarla irrisolta. Questo è quello che la rende generativa. Solo le religioni o le ideologie totalizzanti nascondono la loro mancanza, il punto o i punti di contraddizione, allo scopo di dare conforto, un indirizzo e una motivazione a chi vi aderisce. Questo è il motivo per cui le religioni funzionano e per cui ci piacciono tanto, nonostante il nostro buon senso.

Qualsiasi discorso trans, come qualsiasi discorso tout court, che cerca di nascondere le sue contraddizioni, la sua mancanza, mira a stabilire un nuovo pontificato, una rigida gerarchia di credenze e di pensiero. Il che non fa una piega. Abbiamo eliminato tutto il resto. I discorsi transessuali essenzializzanti seducono proprio per il contesto in cui si collocano: non è rimasto pressoché nient’altro in cui credere, quindi credete in questo, altrimenti sono guai…

Ma vorrei proporre 3 ulteriori osservazioni che, pur prendendo in parte spunto dal testo della dott.ssa Philipson, vanno oltre il discorso che ci ha proposto oggi.

Il primo: In California, e, stando a quello che mi dicono alcuni colleghi, anche in moltissime altre parti del mondo, è ormai una consuetudine fornire il proprio “pronome di genere prescelto” quando si saluta qualcuno per la prima volta, o in un incontro su Zoom. Mentre per alcuni questa sembrerebbe una pratica nuova o inedita, io ritengo che faccia parte di una trasformazione più ampia nel campo soggettivo/sociale che definirei il rifiuto di essere designati o nominati dall’Altro. Invece di cercare di scoprire il posto che potremmo eventualmente occupare nel discorso e nel desiderio dell’Altro, cerchiamo di occuparlo noi stessi: “rivolgiti a me in questo modo e unicamente in questo modo”. Che non posso che interpretare come un vano tentativo di indurre l’altro a guardarci come ci vediamo noi o come crediamo di vederci.

Ciò che si perde in questa manovra paranoica è il fatto che la discordanza tra come ci percepiamo e come veniamo chiamati e considerati dall’Altro è una problematica umana fondamentale e irrisolvibile. Nessuno ottiene la concordanza che vorrebbe. Non si tratta necessariamente di un fenomeno legato all’oppressione, ma di un effetto dell’appartenenza al sistema sociale. Stare con gli altri significa confrontarsi immediatamente con questa problematica. Cambiare genere o chiedere di essere chiamati in un certo modo non fornisce una via di fuga da questo aspetto fondamentale. Possiamo chiedere e persino “esigere” di essere chiamati o indicati in un determinato modo, ma questo non colma il divario tra l’esperienza che abbiamo di noi stessi (e dei nostri sé) e il modo in cui l’Altro ci percepisce.

Il secondo. sebbene sia in gran parte d’accordo con l’analisi della dottoressa Philipson sulle ragioni parziali dell’attuale precipitoso incremento del fenomeno della transizione di genere, aggiungerei anche un altro movente possibile: la sottolineatura di una differenza generazionale. Su questo punto, esprimo un’opinione che si sta facendo sempre più strada nel contesto clinico. Ogni generazione deve rimarcare una differenza con quelle precedenti, in particolare con quella dei propri genitori. Ma è qualcosa che abbiamo reso estremamente difficile per le nuove generazioni. Non deve stupire, quindi, che molti giovani scelgano di mettere in atto questa ricerca di una differenza generazionale nel dominio del corpo. Dopo tutto, qualsiasi intervento chirurgico, compreso quello di “riassegnazione del genere” o, se preferite, di “conferma del genere”, è una serie di tagli, seguiti da una sutura o da un tessitura. Si crea un nuovo corpo, del tutto diverso da quello “concesso” dai genitori, e soprattutto un corpo reso irriconoscibile agli occhi e alle bocche che inizialmente hanno contribuito a far nascere psichicamente il soggetto. In questo modo si impone di fatto un velo che permette al soggetto di respirare al di fuori del soffocante campo sociale panottico in cui è stato introdotto dalla generazione dei suoi genitori.

A questo livello molto concreto, i giovani non possono essere biasimati. Questa sottolineatura generazionale va compiuta perché possano trovare un punto d’appoggio nel mondo. Ma sorge subito la domanda: perché non farlo attraverso le loro parole? E con questo arriviamo al terzo e ultimo punto. Questa attenzione al corpo nei discorsi trans è in linea con i cambiamenti più ampi nel campo soggettivo/sociale, ovvero il crescente impoverimento della parola, sempre più sostituita dal corpo. Oggi l’imperativo è “che sia il corpo a parlare!”, come se il corpo potesse raccontare la verità in modo diretto e senza veli fantasmagorici, mentre sappiamo bene che non è così. Il corpo del discorso trans diventa un arbitro essenzializzante della verità; il che mette a nudo la contraddizione di cui abbiamo parlato prima. In quanto psicoanalisti, il nostro compito è quello di dare nuova vita alla parola, non di reificare il “corpo”—che in questo caso è solo un rifiuto cristallizzato del parlare realmente. Occorre cercare di toccare il corpo di un altro con le nostre parole, senza garanzie e senza corrispondenza tra come si è considerati e come ci si percepisce. Insomma, questo concentrarsi sul corpo, questo lasciarlo “parlare” senza parole, senza significanti, equivale a rinunciare al rischio di parlare realmente, utilizzando qualcosa che appartiene a tutti e a nessuno: il linguaggio.

Grazie.

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European Journal of Psychoanalysis