Disposizione alla sociabilità e pseudospeciazione nelle identità di gruppo

Intervento al webinar “Soggetto e masse” del 12 marzo 2021

www.massenpsychologie.com

Prenderò il tema delle masse e del rapporto con gli individui e la psiche “da lontano”.  Me ne scuso, ma l’argomento fin dall’inizio è carico di implicazioni gigantesche che riguardano la natura stessa della sociabilità umana e le sue forme, tanto più se si assume che il termine massa possa contenere anche le masse organizzate istituzionalmente come quelle che prende in esame Freud, le Chiese e l’esercito.  Qualsiasi considerazione sul tema prende inevitabilmente posizione sulla sociabilità dell’umano come struttura entro la quale è possibile collocare le variazioni delle posizioni psichiche familiari e individuali, oppure si può sostenere, come Freud e gran parte della psicoanalisi e delle psicologie del profondo[i] con lui (salvo qualche eccezione, come Adler, Reich e Fromm, per esempio) che “la pulsione sociale non può essere originaria e non ulteriormente analizzabile … i primi inizi della sua formazione possono essere ritrovati in un ambito più ristretto, come per esempio quello della famiglia”.[ii].  Se ci si trova, come me, a non condividere questa premessa psicoanalitica che isola le forme della famiglia dall’intero sociale – assunzione assai discutibile dal punto di vista antropologico e storico – allora si deve ricominciare da capo prima di arrivare alle folle, alle masse e alle masse organizzate.  Tanto più che l’interesse della teoria rispetto ai fenomeni del presente sta forse proprio nel passo indietro.  Certo per meglio, forse, saltare in avanti.

La sociabilità umana può essere considerata come un carattere distintivo elementare, cioè non ulteriormente riducibile, della nostra specie.  La catena di tradizione culturali che attesta questa linea di pensiero è così vasta e varia da traversare culture diverse ed epoche diverse.  Questo naturalmente non assicura nulla circa la sua verità. Tuttavia noi sappiamo che un gruppo umano – anche oggi, per le poche realtà rimaste ai margini della civilizzazione moderna – che scenda sotto un certo numero di membri è destinato a sparire, e che l’espulsione di un individuo dal gruppo di appartenenza, per esempio da una tribù di cacciatori di nativi americani, era considerata una punizione che portava con sé il pericolo di morte: queste non sono che conseguenze del fatto che gli umani hanno sviluppato una cultura che li differenzia da ogni altra cultura (propria di altre specie animali) per diffusione in diverse nicchie ecologiche sul pianeta, per reti di scambio e di divisione del lavoro che coinvolgono gruppi molto distanti da quelli segnati da vincoli parentali, per numero di apprendimenti socialmente necessari – comprese ovviamente le convenzioni linguistiche – per far parte di un gruppo.  È necessario un lungo addestramento per partecipare pienamente alla vita del gruppo, e questo processo è reso possibile dagli spiccati caratteri neotenici del neonato e dell’infanzia.  In sostanza, questa fase si protrae a lungo rispetto alla “età biologica” della specie, perché i cuccioli umani possano cominciare a non dipendere dal gruppo di cura.  Il che significa che il venire al mondo biologicamente viene conservato e rimodellato dall’educazione culturale.  Di qui l’importanza fondativa, per la stessa conservazione della vita biologica, del riconoscimento.[iii]

Inoltre ci distingue, dalle altre specie a noi più simili, l’evoluzione culturale cumulativa che rende più complessi strumenti, oggetti e pratiche, e ne sceglie le innovazioni più adattivamente funzionali per tramandarle.  Processi che sarebbero impossibili senza l’invenzione delle istituzioni sociali che stabilizzano le reti di azioni reciproche in norme e regole collettivamente riconosciute, fonti di varie forme di sanzioni (fino all’espulsione o alla eliminazione dal gruppo). Non è credibile pensare queste caratteristiche se non attribuendole a insiemi di capacità e motivazioni specie-specifiche alla cooperazione[iv]: gli umani sono caratterizzati dal fatto che creano mondi di intenzioni e di impegni comuni per la loro abilità nel cooperare. Cooperazione che va, come ho detto, dalla cultura cumulativa degli artefatti e delle pratiche fino alla divisione extraparentale del lavoro, dagli apprendimenti sociali e dal linguaggio fino alle istituzioni. Molti filosofi dell’azione contemporanei (per esempio John Searle e M. Bratman) parlano di “intenzionalità condivisa”, ma potremmo trovare la genealogia di questo pensiero, per quanto riguarda la cultura europea, da Platone ad Aristotele, da Vico a Hegel, fino a Marx, Durkheim, Weber, Mead, Gehlen, Eibl-Eibesfeldt, per citare solo autori che mi sono più noti.

Attenzione e mutua comprensione sono i modi che rendono fattivi la condivisione e l’aiuto agli altri.[v]L’apprendimento, dunque l’educazione che ci fa poi diventare effettualmente “umani”, non è solo imitativo, anche se l’imitazione ne costituisce il processo primario, ma dipende dall’insegnamento reciproco, ben al di là dei confini della famiglia.

L’imitazione serve anche a diventare simili agli altri che formano il gruppo, come se questo fosse uno scopo a sé: rimarcare l’identità del gruppo, imporre regole di conformità, evitare o punire chi devia e minaccia la coesione del collettivo. Penso che questa modalità di comportamento sia necessaria alla sopravvivenza in condizioni di vita nelle quali le abilità incorporate – alla lettera presenti nella corporeità vivente dei singoli – siano decisive e al tempo stesso implichino un grande dispendio di forze per crearle e mantenerle. Un cacciatore o una tessitrice non si sostituiscono facilmente, e solo le loro braccia e le loro mani sanno padroneggiare gli strumenti.

Il legame sociale tra le persone, e la loro dipendenza reciproca – che è, nella storia delle società precapitalistiche, oppressione di persone su persone – domina sugli strumenti e sulle cose. Sarà solo con il capitalismo, e in specifico con il capitalismo industriale, che il movimento delle cose-strumenti e il loro rappresentante universale, il denaro che genera più denaro, dominerà sulle persone. Solo in questa fase storica le persone diventano sempre sostituibili, fondamentalmente intercambiabili: quando il legame sociale è assicurato dall’esoscheletro del macchinario tecnologico, allora si potrà dire e fare senza conformarsi per forza. Infatti le persone sono diventate variabili secondarie del movimento impersonale della Cosa-Strumentazione valorizzante. Il meccanismo della identità di gruppo a questo punto continuerà a funzionare, ma sarà da un lato una funzione della necessità della innovazione permanente che ha preso il comando sulla trasmissione e la conservazione della tradizione, dall’altro una tessera mutevole della biografia personale.

Questo non toglie che la marcatura della identità di gruppo rimanga una dinamica primaria della dimensione sociale e della formazione individuale. Certo la sua forza sta innanzitutto nella necessità di conservare in vita il gruppo stesso come prima condizione della sopravvivenza dei suoi membri. In condizione ecologiche date, con certe capacità tecniche a disposizione, una popolazione deve rendere vincolanti, per tutti i suoi membri, certi comportamenti, certe credenze e certi valori. La competizione per le risorse con altri gruppi umani e altri animali rende ancora più forte la inevitabilità della differenziazione esternalizzata: cooperazione interna e competizione esterna richiedono la più solida compattezza possibile.

Il meccanismo della pseudospeciazione stabilizza e potenzia la coesione del gruppo e la conduzione della aggressività distruttiva contro il nemico esterno e la eventuale dissidenza interna. La dinamica della creazione dei capri espiatori servirà come sintesi di entrambe le direzioni.

Cosa è la pseudospeciazione? La tendenza a rafforzare e rendere costume comune, e norma, un differenziamento prodotto dalla necessità di mantenere la coesione di gruppo per adattarsi a spazi vitali diversi, creando così evoluzioni culturali divergenti. Il mantenimento dell’unità di gruppo (che contiene varie famiglie) implica lo sviluppo e la difesa di sentimenti di appartenenza reciproca.[vi]

Questa forma dell’identità di gruppo tende a preservare il legame interno e a difendere dalla paura degli estranei, limitando a modalità stabilite lo scambio con loro e, nel caso di scontro violento, trasformandoli in appartenenti a un’altra specie, verso la quale le naturali inibizioni della distruttività nei confronti dei conspecifici (presenti nei mammiferi e nei primati, e anche negli umani) possono venire superate. Tecniche di ogni tipo sostengono questo passaggio: dalla mostrificazione alla alterazione, attraverso riti e sostanze, della percezione del nemico (tecniche presenti in ogni cultura e società, anche nelle nostre, dalle guerre nella ex Jugoslavia fino ai top gun statunitensi durante le guerre in Medio Oriente, per non fare che due esempi euroamericani). Non è un caso che Konrad Lorenz pensasse che le armi da fuoco, data la lontananza dalla quale si può uccidere, abbiano incrementato vertiginosamente la disponibilità alla guerra.

Chi minaccia la coesione sociale, dal basso o dall’alto, per un preteso bene più grande o per il male[vii], viene trattato allo stesso modo: la pseudospeciazione funziona, nei momenti di crisi effettiva o potenziale, attraverso il meccanismo del “capro espiatorio”, collettivo e individuale. Si tratta appunto di superare, come dicevo, inibizioni innate che presumibilmente possono essere ricondotte, adottando il punto di vista di molti neuroscienziati, al circuito della risonanza empatica: “benché noi si sia soltanto all’inizio della esplorazione della neurobiologia dell’empatia, qualche indicazione comincia ad emergere. Dato che la corteccia si è evoluta all’inizio per guidare il comportamento motorio, allora ha senso affermare che l’attivazione somatica e motoria che ha ancora un carattere primitivo possa servire come infrastruttura delle emozioni, dei processi cognitivi e del pensiero astratto. Se prendiamo il circuito dei neuroni specchio come centro di un sistema più ampio che includa altri aspetti addizionali del cervello sociale, possiamo cominciare a cercare come si possa costituire un network dei fenomeni della risonanza e dell’empatia”[viii].

Il passaggio quindi dalla risonanza e dall’empatia, connaturati e rafforzati dalla necessità di apprendere e di cooperare, alla pseudospeciazione avviene tramite dinamiche socio-culturali che rimodellano le risposte psichiche e consentono di trasformare il conspecifico in un nemico, nei confronti del quale le inibizioni alla distruttività vengono allentate e superate.

Il misconoscimento che esclude viene portato fino all’annientamento della esistenza dell’altro. Anche chi attenta alla identità di gruppo costituita diventa un nemico demonizzato, un capro espiatorio sul quale sfogare ogni pulsione distruttiva.

Sono partito da molto lontano ed è giusto chiedersi: qual è il rapporto di queste considerazioni generali con il tema-problema del comportamento di massa in relazione alle dinamiche psichiche individuali?

Il gruppo sociale, la folla, le masse, le masse organizzate e le istituzioni rappresentano gradi diversi di formazione e di dinamica dell’identità di gruppo e di differenziazione culturale rispetto agli insiemi degli estranei.

Per semplificare parlerei di una dinamica identitaria di cooperazione altruistica basata sul riconoscimento reciproco della comune appartenenza, opposta alla estromissione basata sul misconoscimento del nemico esterno e interno. Forze opposte e complementari: l’una serve a mantenere e a consolidare l’altra.

Varie sono le forme del misconoscimento deumanizzante: dalla negazione-demonizzazione che cerca di annientare l’estraneità nemica eliminandola o violandola fisicamente, all’allontanamento ostracizzante, alla esclusione dalla partecipazione ai diritti, alla emarginazione e all’oppressione sociale, alla denigrazione dei suoi comportamenti, dei suoi valori e delle sue credenze.[ix]

La mia tesi è dunque che il riconoscimento come origine culturale dell’appartenenza a un gruppo umano – origine necessaria alla stessa sopravvivenza biologica e condizione della trasmissione educativa – sia la condizione per sviluppare le capacità innate di sociabilità e dunque di cooperazione. Ma le identità di gruppo sono costituite, da sempre e fino ad oggi, dalla dialettica tra i poli del riconoscimento e del misconoscimento, costruito innanzitutto dai meccanismi della pseudospeciazione.

Ènel campo di forze di questo conflitto tra riconoscimento e misconoscimento che si situa la formazione delle identità di gruppo nelle sue diverse forme sociali[x]: la stabilizzazione delle azioni reciproche negli usi e nei costumi comuni, innanzitutto nella cooperazione, specie nella divisione del lavoro sociale, nelle istituzioni, nelle diverse forme della famiglia.

Solo in questo contesto possiamo collocare processi di identificazione di gruppo nel carisma dei capi. Ma anche questo processo non ha bisogno di ipotesi che cerchino un fondamento psico-energetico, pulsionale, a una dimensione sociale.  G. H. Mead in Mente, Sé e Società[xi]ha mostrato come la costituzione del sé possa essere compresa attraverso le relazioni sociali e le forme del gioco e del linguaggio, Arnold Gehlen ha sviluppato, anche sulla base del pensiero di Mead, una teoria dell’azione che dalla percezione-immaginazione motoria e sensoriale cerca le radici del linguaggio e porta quindi alla partecipazione alle forme più complesse della cooperazione.

Peraltro la teoria del carisma come una delle forme del potere compare nel 1919 nella conferenza di Max Weber, La politica come professione[xii]. Possiamo dunque fare a meno di una supposta origine pulsionale del legame sociale.

Quanto alle folle come convenire momentaneo dei molti in una unità provvisoria si può forse pensarle come insorgenze occasionali, suscettibili di dispersione non appena venga raggiunto lo scopo della radunanza o venga sperimentata una reazione contraria e più forte da parte delle istituzioni. Certo, in ogni caso, anche nel fenomeno delle folle si può ravvisare un fenomeno di soglia, una sorta di segnale d’allarme che, per una ragione o per l’altra, qualche aspetto delle consuetudini sociali date per scontate è scosso da un momento di crisi di credibilità. Potremmo quindi pensare il fenomeno del formarsi spontaneo di una folla come un sintomo che i processi di riconoscimento e di misconoscimento identitario stanno trovando un qualche ostacolo, quale che sia il suo potenziale aggregativo e contestativo.

Del tutto diverso è il fenomeno delle masse convocate da una qualche istituzione a proprio sostegno, o in mobilitazione contro qualche nemico interno o esterno. Possiamo forse azzardare che il carisma rispetto alle folle sia uno stadio di passaggio o a una qualche iniziale creazione di un “movimento”, come stato nascente di un’organizzazione istituzionalizzata, oppure sia un’effimera manifestazione di un momento di turbolenza sociale che cerca, senza riuscirci, di trovare una forma. Il carisma invece rispetto alle masse convocate è, in questo caso, preordinato alle masse e, anzi, è quasi creato, o in ogni caso potenziato, dall’istituzione stessa per creare, o ricreare, un rapporto più immediato tra l’istituzione e le masse, fornendo loro un simbolo visibile, vivente, dell’unità desiderata tra le masse e l’istituzione.

Il rituale dell’istituzione che convoca le masse a ogni passaggio significativo, tende evidentemente a questo: la ripetizione dell’investitura del capo davanti alle masse tende a ristabilire il legame, a farlo diventare una tradizione, a ricordare e giustificare l’esistenza della istituzione stessa come capacità di “convocare” le masse che pretende di rappresentare.

La ripetizione del rituale conferma però che non è il capo a costituire il legame con le masse, ma, viceversa, è l’istituzione a ricreare, in riti, simboli e miti di rifondazione ricorrenti, la funzione del carisma del capo. Come a dire che sono le condizioni sociali (ivi compresi ovviamente emozioni e sentimenti collettivi) che creano il capo e non viceversa. O, per distinguere i due tipi di carisma, un carisma di secondo livello tende a riprodurre, in memoria efficace, il carisma “fondatore”, emerso in circostanze specifiche dalla necessità di un riassestamento delle forze in gioco.

Potrei azzardare che il carisma fondatore è l’espressione “simbolica”[xiii], cioè dell’unità vivente, di un nesso complesso. In realtà nessun carisma è fondatore se non compie un salto di qualità che non promana dal semplice carisma: paradossalmente il carisma del capo diventa capace di fondazione solo quando riesce a scomparire e a consegnare in eredità procedure capaci di fare ogni volta a meno della guida precedente.

Ben diversamente dalle poche e infelici righe dedicate da Freud alla Chiesa cattolica[xiv]( da austriaco era questa la forma di Chiesa di riferimento, peraltro sarebbe stata assai più ardua la applicazione della sua teoria al variegato e conflittuale panorama delle chiese protestanti), proprio la vicenda del cristianesimo storico potrebbe essere presa come esempio tipico della sparizione del fondatore ( non solo nella morte in croce, ma nella ascensione al cielo perché potesse venire lo Spirito a creare il “resto di Israele” a cui affidare la missione universale), a vantaggio della creazione di un’istituzione guidata da un collettivo, chiamato a tramandare costumi e regole di una nuova forma di vita. In ogni caso credo che questa sia una legge generale della dinamica sociale: il potere carismatico della fase del movimento o rifonda una tradizione, o diventa potere razionale-legale, o si dissolve (come già diceva Weber).

Per tornare alle folle e da queste passare alle masse convocate e poi organizzate dalle istituzioni potremmo dire che l’ebbrezza del riconoscimento reciproco, occasionale e momentaneo, può stabilizzarsi in modalità ripetibili di riconoscimento solo quando genera istituzioni, o viene ricompreso dalle istituzioni e dai loro rituali di mantenimento e rigenerazione. Secondo questo modo di vedere dunque è il legame istituzionale, e la sua radice nella struttura delle azioni reciproche, a essere primario e decisivo nelle evoluzioni del legame sociale: le folle e le masse ne costituiscono un momento interno, capace certo anche di rovesciare le istituzioni, ma solo se in grado di formarne di nuove (e le nuove non potranno mai essere in totale discontinuità con le istituzioni passate, quale che sia la loro vocazione rivoluzionaria).

Per queste ragioni il caso delle masse organizzate semplicemente riguarda le vicissitudini delle istituzioni. I casi portati da Freud sono per eccellenza istituzionali: la Chiesa cattolica e gli eserciti. Al contrario di quanto si può evincere dalla sua impostazione, sembrano esempi tra i più evidenti della subordinazione del carisma alla continuità burocratica (razionale e legale nella terminologia weberiana). Come potremmo spiegare la bimillenaria continuità della Chiesa cattolica (per non parlare della continuità secolare dell’arcipelago protestante e dell’autocefalia delle chiese ortodosse, spesso dipendente dalle vicende politiche degli stati nei quali sono presenti) se non con la supremazia – al di là di interi decenni di “povertà”, per essere teneri, carismatica – dell’organizzazione gerarchico-burocratica? E come potremmo parlare degli eserciti ipotizzando che il loro legame consista nella identificazione ideale con i capi, parlando poi in specifico di quello prussiano-tedesco, reduce, nel 1921, quando Freud scriveva, da una catastrofica sconfitta, un esercito privo di ogni carisma e però sufficientemente forte da reprimere sanguinosamente ogni tentativo rivoluzionario, come per esempio, in combutta con formazioni paramilitari, il movimento della Lega di Spartaco e del neonato Partito Comunista tedesco di Rosa Luxemburg e di Karl Liebnecht? Per tacere poi del fatto che sia Le Bon che Freud sembrano particolarmente preoccupati delle masse rivoluzionarie, Le Bon di quelle rivoluzionarie francesi[xv]e Freud di quelle socialiste.

Ma al di là delle polemiche, mi pare che, se non in modo del tutto secondario e marginale, nel saggio di Freud non si colga il meccanismo fondamentale delle identità di gruppo che si produce attraverso la pseudospeciazione e, quindi, attraverso la costruzione del nemico e del capro espiatorio, insomma attraverso la demonizzazione di ciò che assomma in sé ogni ostacolo alla soddisfazione dei desideri dei popoli e dei gruppi.

Potremmo anche ipotizzare che, nelle forme istituzionalizzate, il riconoscimento nell’identità di gruppo è garantito da regole, gerarchie e linee di comando stabilizzate; invece, nei gruppi che si formano occasionalmente o nella fase di movimento che ancora non si è istituzionalizzata, il riconoscimento è soprattutto negativo, è costituito dall’”essere contro” molto più che dall’essere “noi” quelli che si differenziano contro altri. Il misconoscimento dell’altro è un meccanismo fondamentale identitario, ma nei gruppi ancora in gran parte informali non si è ancora sufficientemente strutturato il rovescio positivo dell’identificazione nel gruppo, nei suoi valori, nei suoi stili di comportamento, un rovescio positivo che ha una sua relativa indipendenza anche rispetto alla coazione a presentificare continuamente il nemico-avversario, ma che tuttavia anch’esso si nutre, si rafforza e si difende attraverso il misconoscimento.

Potremmo dire così: la sociabilità innata e elevata a potenza dalla necessità della lunga cura della prole e dunque dalle pratiche di riconoscimento, sta alla base delle forme di cooperazione culturale che, consentendo la vita del gruppo, sono preordinate all’esistenza e alla sussistenza del singolo, dando forma anche alla sua vita pulsionale. L’identità di gruppo, nella inevitabile competizione con altri gruppi per le risorse del territorio, si rafforza attraverso meccanismi culturali di pseudospeciazione che allentano i freni inibitori alla aggressività distruttiva nei confronti dei conspecifici e la rendono disponibile ogni volta che è utile o necessario agirla. Entro questo sistema di coordinate la funzione di direzione – che è comunque richiesta culturalmente dallo stabilire una gerarchia di preferenze, impegni di forze, valori, per una specie che vive della mediazione della seconda natura sulla prima, ma anche in ragione delle differenze tra le generazioni e della divisione del lavoro che rimane, fino ad oggi, inconsapevole e incontrollata – riassume in sé le modalità psichiche della identificazione con chi guida il gruppo. Ma questo è un meccanismo sussidiario, secondario e funzionale alla compattezza del gruppo nel perseguire il suo orientamento. Lo dimostra ogni tradizione istituzionalizzata che prevede come regola le forme della successione al leader e, quando è costretta da condizioni di eccezione a ripartire dal caos gerarchico, tende a ricostruire un ordine delle catene di comando il prima possibile.

Il populismo reazionario di oggi (limitandoci a quello europeo e statunitense), si nutre di entrambe le forme: per un verso è altamente istituzionalizzato in partiti che hanno responsabilità di governo o che rappresentano le forze organizzate della opposizione, per l’altro mobilita le masse sfruttando una tensione più o meno spontanea. Credo che si debba collocare questo populismo proprio nella categoria della “reazione”. Reazione a che cosa? Reazione alla Grande Regressione. Reazione a una fase storica che non ha generato il nuovo capace di indirizzare verso un progetto credibile le forze della trasformazione e che, d’altra parte, non può neppure tornare indietro.[xvi]

Nei decenni seguiti alla seconda guerra mondiale almeno un dato è difficilmente contestabile: la forbice della ricchezza tra aree e stati nazionali si assottiglia, almeno fino agli anni settanta, mentre il vecchio colonialismo scompare. Movimenti di liberazione nazionale e forza contrattuale del proletariato, movimenti di massa contestatori del vecchio ordine, controcultura e critica femminista al patriarcato creano un orizzonte di speranza (che sia stato più o meno illusorio è altra faccenda). Ma l’onda progressista e contestatrice non ha le forze per diventare egemone e il vecchio ordine non può più restaurarsi perché è in crisi verticale, nel processo di espansione e intensificazione del capitalismo globale – fenomeno assai più profondo della estensione geografica – la forma dello stato nazione. I rapporti di forza favorevoli al lavoro salariato su base statuale-nazionale durante la crisi degli inizi degli anni settanta si rovesciano drammaticamente. La situazione complessiva assume le forme del caos[xvii]perché parti consistenti del lavoro e del non lavoro subordinato cercano protezione in politiche che additino emigrati, emarginati, critici del vecchio ordine e dei vecchi valori, ma anche la borghesia cosmopolita, come i nuovi nemici. Ma la loro è una protesta che guarda indietro, a un passato che non può tornare. Comunque, nel breve giro di qualche decennio, assistiamo a un impressionante rovesciamento del consenso popolare: più si è distanti dalle grandi metropoli, viste come portatrici del nuovo, più di è inclini alla conservazione e alla reazione. Questo è un movimento evidente negli USA, nell’UK e in Europa. Il quadro globale risente poi inevitabilmente della perdita di credibilità del modello industrialista indifferente ai costi ecologici e, ancor di più, di uno spostamento inaudito dell’asse del potere mondiale, da almeno quattro secoli incentrato in Europa e poi negli USA: si fa sempre più evidente che nella competizione per l’egemonia mondiale la nuova sfida è quella cinese (e, in realtà, più estesamente, dell’area asiatica sud orientale). Il che porta con sé inevitabili e giganteschi problemi di cultura, di stili di vita e di psicologia collettiva (come si è ben visto anche nella gestione della pandemia, se ci fosse bisogno di aggiungere evidenze a ciò che è quasi ovvio).

Non credo che si possa fare a meno di inquadrare i comportamenti di massa contemporanei fuori da questa prospettiva. E, come sempre e più di sempre, i meccanismi di identificazione con una figura leader svolgono una funzione sussidiaria, di supporto secondario. Se si guarda l’insieme, o il sistema, e a partire da questo si cerca di comprendere lo specifico rapporto tra i capi, le organizzazioni e le masse, diventa chiaro che i capi, per quanto prestigiosi, sono una variabile dipendente dei rapporti di forza nel sistema. Uno sguardo alla storia recente dell’Europa, degli Usa e della Cina mi sembra confermi questo modo di avvicinare il fenomeno. Tra l’altro, la penuria di grandi leader, nel bene e nel male, mi sembra evidente ( e l’unico grande leader “quasi mondiale”, riconosciuto ben al di là della sua appartenenza, è per paradosso, un papa cattolico, Francesco, eletto non da qualche processo identificatorio di massa ma dai sottili meccanismi di un conclave, cioè da una forma istituzionale razionalizzata nel suo funzionamento da secoli di pratiche e di misure correttive).

Tuttavia, se osiamo alzare la testa e camminare senza piegare le spalle alla falsa necessità che, come di consueto, eterna la contingenza storica, per epocale che questa contingenza sia, allora proprio il nostro tempo, la configurazione storica del capitalismo globale, ha liquidato irreversibilmente le condizioni che hanno reso funzionale alla necessità della sopravvivenza dei gruppi, dei popoli e degli stati, i meccanismi della pseudospeciazione: il capitalismo storico ha realizzato il passaggio dalla “interdipendenza locale” alla “interdipendenza globale”. L’umanità come universale è passata dalla astrazione del progetto e della idea alla concretezza di un universale che si è fatto mondo.

Fino alla rivoluzione del capitalismo industriale, nel complesso, l’innovazione è stata subordinata alla tradizione[xviii], corrispondentemente le tecniche, e quindi la divisione del lavoro sociale, non hanno oltrepassato un livello che possiamo chiamare “interdipendenza locale”. Con l’avvento del capitalismo globale[xix]  l’interdipendenza di tutti da tutti e da tutto è diventata di fatto – anche se ben lontana dall’essere penetrata nella coscienza collettiva – la condizione base di ogni branca delle tecniche e del lavoro sociale universale, così come, ovviamente, dei mercati delle merci e dei servizi. La politica stessa, che lo riconosca o meno, dipende dall’andamento globale di queste variabili tecnico-economiche e dai loro risvolti sociali. Che questo immane rivolgimento, che ha fatto per la prima volta il suo ingresso nella storia degli umani, produca continui salti in avanti e capriole all’indietro, è solo l’ovvia conseguenza del movimento di fondo. Dai fondamentalismi ai sovranismi il movimento regressivo è in pieno sviluppo, ma ogni sua vittoria sarà parziale, locale, effimera, evenemenziale.  La rotta non è reversibile: il capitalismo globale è l’inevitabile sbocco della storia del capitalismo e della sua vittoria.

Lo spirito d’utopia però vede attraverso le involuzioni, le resistenze, i conflitti, e ne intuisce la possibilità di risoluzione nel riconoscimento collettivo[xx], basato questa volta sul possibile patto globale di equilibrio e di pace e sull’autorealizzazione solidale degli individui. L’individualità è formalmente posta insieme alle sue basi materiali – benché non ancora messe al suo servizio dalle strutture della formazione economico-sociale presente.

Il misconoscimento delle identità sociali reciprocamente esclusive diventerà sempre più disfunzionale nella nuova realtà dell’interintradipendenza universale. Un neologismo questo che sottolinea come l’interdipendenza non riguardi solo l’interazione materiale, produttiva, istituzionale, ma formi una nuova realtà psichica che dipende nel suo atteggiarsi dal formarsi in questa nuova intercultura planetaria.

Anche il rapporto alienato tra i capi e le masse diventerà un lungo tratto di storia del passato.

 

Date:

19/03/2021

Riferimenti:

[i]In C. G. Jung, per esempio, si trovano intuizioni geniali sul capro espiatorio, specie ne Il Libro Rosso, scritto prima, durante e dopo la prima guerra mondiale (a questo proposito cfr. il mio C. G. Jung. L’Opera al Rosso, Feltrinelli, Milano, 2016) idee sviluppate con una attenzione alla storia sociale più articolata da E. Neumann, Psicologia del profondo e nuova etica(1949), Moretti & Vitali, Bergamo, 2005. Tuttavia l’idea di Jung della storia e della dinamica sociale è interamente dipendente dalla struttura psichica. La psiche collettiva, secondo lui, ha una storia che incide nel mondo, rispondendo anche alle circostanze, attraverso la psiche individuale che tuttavia, in definitiva, rimane la realtà creatrice profonda di ciò che accade alla “superficie” della storia. Su questi punti vedi, in particolare i due tomi del Vol. X delle Opere, Bollati Boringhieri, 1985 e 1986, nel primo il saggio “Il significato della psicologia per i tempi moderni” (1933-34), nel secondo il saggio “Presente e futuro” (1957).  Sulla tematica del capro espiatorio cfr. il mio saggio “Dalla pseudospeciazione al capro espiatorio” in AA. VV. Tabula rasa. Neuroscienze e culture, Fondazione Intercultura Onlus, Colle Val d’Elsa, 2019.

 

[ii]S. Freud, Massenpsychologie und Ich Analyse, Gesammelte Werke, vol. XIII, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main, 1972, p. 74. In OSF, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino, 1967, p. 262.

[iii]Ancora in un diritto molto evoluto come quello romano se il padre non “alzava” il figlio, riconoscendolo, questi poteva essere ucciso, abbandonato, dato ad altri, tenuto in casa ma non come figlio etc. etc.

La figura e la funzione del padre sono, nella prospettiva, adottata in questo saggio, un risultato della storia del patriarcato e non viceversa, come se la storia del patriarcato dovesse rimandare a una sorta di vicenda originaria, o inscritta nella psiche degli individui, sempre pronta a ripetersi con variazioni individuali ma sulla base del medesimo conflitto. D’altra parte, formalmente, l’idea di Freud in Totem e tabùpresenta l’andamento tipico dello schema mitologico.

 

[iv]“Il solo contatto sociale fa sorgere nella maggior parte dei lavori produttivi un’emulazione e uno specifico eccitamento degli spiriti animali… che accrescono la possibilità di rendimento individuale dei singoli […[Ciò deriva dal fatto che l’uomo è per natura un animale se non politico, come ritiene Aristotele, almeno sociale”. Così K. Marx nel cap. XI del primo libro de Il  Capitale(1867), Editori Riuniti, Roma, 1964, pp.413-4.

 

 

[v]Su questi passaggi cfr. M. Tomasello, Why we cooperate(2009), tradotto in italiano come Altruisti nati. Perché cooperiamo fin da piccoli, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.

[vi]Per la questione della psudospeciazione cfr. il capitolo 4 di Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana(1984-89), Bollati Boringhieri, Torino, 1993, ma già E. H. Erikson aveva parlato di “psuedospeciazione culturale” fin dal 1966. Eibl-Eibesfeldt tuttavia ritiene che esistano “adattamenti filogenetici per il mantenimento della norma di gruppo” e porta come una delle prove il fatto che sia “necessario educare le persone alla tolleranza”. Ma tra il tempo lungo di una costante culturale e un adattamento filogenetico corre una netta differenza, e la propensione a differenziare l’estraneo dalla cerchia di chi si prende cura dei bambini non ha niente a che fare, mi sembra, con il meccanismo della pseudospeciazione: infatti la paura dell’estraneo da parte dei bambini riguarda soprattutto gli appartenenti allo stesso gruppo (non credo che i bambini siano portati a contatto di frequente con i “nemici”…). Anche i suoi esempi che riguardano la vita sociale degli scimpanzé mi paiono inaccurati: altro è notare la diffidenza e l’aggressività tra “sani” e “malati”, o episodi di strupro, altro sorvolare sulla “divergenza culturale” che porta gli umani non solo a praticare lo stupro di gruppo (non a caso tipica “arma di guerra” fino alla nostra epoca), ma a uccidere i conspecifici con una impressionante frequenza e niente affatto in situazioni determinate o per eccezione casuale.

[vii][vii]Cfr. su questo punto E. Neumann, Psicologia del profondo e nuova eticacit.

[viii]L. Cozolino, The Neuroscience of Human Relationships,New York-London: W. W. Norton&Company, 2006, p. 204.   (traduzione mia). Ma cfr. Come sintesi di un lungo percorso di ricerca sui neuroni specchio G. Rizzolatti, C. Senigaglia, Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno, Raffaello Cortina, Milano, 2019.

[ix]Crf. A. Honneth, Disrespect. The Normative Foundations of Critical Theory,Cambridge U. K. 2007, Polity Press.Sulla moral Injurycfr. Moral Injury and Beyond: Understanding Human Anguish and Healing Traumatic Wounds (ed. by R. Papadopoulos), London 2020, Routledge.

 

[x]Un avvicinamento al ricondurre l’identità di gruppo anche alla aggressività ostile verso l’alterità, ma circoscritto sempre alla dimensione pulsionale, è compiuto da Freud ne Il disagio della civiltà(1929-30) specie là dove parla del narcisismo delle piccole differenze (Cfr. nell’edizione curata da S. Mistura per Einaudi, Torino, 2010, pp. 58-9).Tuttavia, come si può intuire già dall’uso del termine di “narcisismo”, Si tratta di un movimento autoriflessivo che “tiene a sé stesso” e per questa ragione tende a misconoscere l’altro, a escluderlo, combatterlo o schernirlo. Il processo della pseudospeciazione è invece dialettico quanto all’identità di gruppo, è azione reciproca che avviene in un campo e costruisce le sue identità polari entro questa tensione della interrelazione costitutiva. In questo caso l’identità di gruppo emerge attraverso – anche se non solo – la contrapposizione con l’altro e la sua svalutazione.

[xi]Pubblicato nel 1934 dopo la morte dell’autore, traduzione pubblicata da Giunti, Firenze, 2010.

[xii]In Scritti Politici, Donzelli, Roma, 1994.

[xiii]Per simbolo intendo l’espressione oggettivale, ad alta intensità di correlazioni, delle mappe possibili del senso, dell’orientamento, in circostanze determinate.

[xiv]Nel suo saggio (op. cit.p. 284) Freud cita l’evangelo di Matteo (25,40) e deduce che siccome nel testo di Matteo si dice “… in quanto l’avete fatto a uno di questi minimi miei fratelli, voi l’avete fatto a me” se ne deve dedurre che “nei riguardi dei singoli membri della massa dei credenti il Cristo sta nel rapporto di un fratello maggiore amorevole, è per essi un sostituto paterno”. Con questa interpretazione che copre il testo evangelico con la ripetizione della metafora familiare – certo familiare anche ai Vangeli – si oscura il movimento opposto, anticarismatico, di superamento di ogni proiezione protettiva, superomistica o di potenza divina: il contesto è quello del grande discordo escatologico e Gesù sta dicendo che, non sapendo riconoscere il figlio dell’uomo nei più piccoli, il giudizio “finale”, cioè il giudizio di fondo, il senso definitivo di queste vite, sarà di condanna. Che è come dire, tradotto nel nostro argomento: il carisma del “Signore” deve essere riconosciuto non dove lo si cerca, ma al contrario, in chi non ha potenza, non riceve onori, non può darci niente se non la sua essenziale “povertà”. Difficile trovare un discorso antidemagogico come quello di Matteo al capitolo 25, ed è il discorso che meglio di altri simbolizza l’essenza del messaggio cristiano.

[xv]Il testo di Le Bon è del 1895. Scrivono M. Horkheimer e T. W. Adorno in Lezioni di sociologia(1956), Einaudi, Torino, 1966: “Nel Le Bon come in molti dei suoi seguaci, poi, l’apparenza della descrizione scientificamente spassionata delle masse si mescola con una sostanziale metafisica della storia che riecheggia politicamente la critica restauratrice della Rivoluzione francese”, p. 90.

Il testo di Freud è del 1921 e basta un semplice richiamo per capire di che anno si tratti: tra il 1918 e il 1919 in Germania, dalla Baviera a Berlino, continue sollevazioni socialiste, anarchiche e comuniste erano state sanguinosamente sconfitte dopo effimere conquiste. L’Austria dopo la caduta dell’impero aveva passato anni di conflitti politici, specie tra socialdemocratici e cristiano-sociali sostenuti da gruppi paramilitari in aperto conflitto. Con la aggiunta di possibili controversie circa “le concezioni scientifiche”, noto però che l’attenzione è rivolta specificatamente ai “socialisti”, un accento che induce a pensare che le masse di cui si parla e il cui funzionamento viene spiegato con la consueta equazione freudiana tra inconscio personale, primitivi, bambini e nevrotici, siano per lo più le paventate masse socialiste: “Se, come oggi sembra accadere nel campo socialista, al posto del legame religioso subentrerà un legame collettivo diverso, ne deriverà, nei confronti degli esterni, la medesima intolleranza verificatasi al tempo delle guerre di religione; e qualora i divari tra le concezioni scientifiche dovessero acquistare per le masse un’importanza analoga, il medesimo risultato si ripeterebbe anche per quest’ultima motivazione.” op. cit., p. 288. Anche se si potrebbe attribuire questa frase a una qualche capacità previsionale-profetica, preferisco rimandare alla realtà effettuale: chissà come mai non è affatto citato il nazionalismo imperialistico delle grandi potenze capitalistiche che fecero la guerra! E poi, c’è modo e modo di parlare alle “masse organizzate”: per esempio, massa, come in tantissimi scritti socialisti e comunisti, è un termine molto presente nell’oratoria di Rosa Luxemburg (e scelgo l’oratoria perché è evidente che in essa il contatto emotivo con le persone è al suo culmine), ma anche la polemica contro il nemico di classe è volta alla presa di coscienza e e alla responsabilità di ciascuno. Solo due esempi: nel 1913, comizio a Bockenheim che le costò una anno e mezzo di carcere: “se si pretende da noi che leviamo l’arma omicida contro i nostri fratelli francesi e altri fratelli stranieri, noi dichiariamo: no, non lo faremo!”. Oppure il “Discorso sul programma”, nei primi giorni del 1919, poco prima di essere massacrata: “Il socialismo deve essere fatto dalle masse, da ciascun proletario. Là dove essi sono legati alla catena del capitale , là deve essere spezzata la catena. Solo questo è il socialismo”. Subito dopo la parola massa viene la parola “ciascun proletario” e il compito del partito è quello di “rendere coscienti dei loro interessi storici” ciascun proletario e sollevare così “la vita morale delle masse”. Insomma c’è una differenza abissale tra la demagogia di chi si rivolge alla pancia delle masse e costruisce nemici fittizi sui quali sfogare alienazione e rabbia, e chi cerca di ragionare insieme alle masse e ciascun membro del movimento per individuare un cammino possibile di emancipazione dalla sudditanza economica e culturale dei sempre subordinati. Peraltro su questo si dovrebbe leggere un altro grande comunista, Antonio Gramsci, e le sue pagine sull’egemonia.

 

[xvi]Di particolare interesse sono le forme dello scontro di gruppi di diverso grado di spontaneità che sembrano rispondere alla esigenza della violenza reciproca come fine a sé stessa, un tema studiato da Ernesto De Martino in “Furore in Svezia” un saggio contenuto in Furore, Simbolo, Valore, Il Saggiatore, Milano, 1962.

A me sembra che questo genere di fenomeni riveli le crepe dell’egemonia culturale del mondo del capitalismo globale, la sua etica sostanzialmente licitazionista basata, sotto ogni travestimento, sul puro rapporto di forza, anche se condannato dai valori proclamati ( come la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e le dichiarazioni che l’hanno completata nei decenni successivi ampliandone e approfondendone la direzione di riconoscimento inclusivo). L’abissale distanza tra le dichiarazioni e i fatti mostra che la cattiva coscienza, il sentore di insostenibilità etica del nostro mondo, abita ormai appena sotto il cerone dei belletti ideologici.

I gruppi che si cercano per combattersi – sotto le più diverse “bandiere”, dal club di calcio alla provenienza etnica, all’”estetica del branco” – dicono qualcosa di straordinariamente preciso: se non c’è altro che la forza, allora mettiamo alla prova la nostra. I violenti insensati sono il sintomo dello squallore ipocrita delle verità di fatto della prevaricazione sistematica e illusionista che ci domina. Gridano, ferendosi per il nulla, che il Re è Nudo.

[xvii]Cfr. G. Cappelletty e R. Màdera, Il caos del mondo e il caos degli affetti, Caludiana, Torino, 2020.

[xviii]Su questa dialettica tradizione-innovazione cfr. il mio La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica, Raffaello Cortina, Milano, 2012.

[xix]Sul capitalismo globale cfr. il mio L’animale visionario, Il Saggiatore, Milano, 1999.

[xx]Come ho scritto, uno dei pochi capi carismatici nella dimensione internazionale è oggi Papa Francesco. Proprio questa ripresa del mito di Francesco d’Assisi ha espresso al meglio la prospettiva utopico-profetica della fine della pseudospeciazione nel suo ultimo viaggio in Irak, nella piana delle origini, in Abramo, delle religioni del libro ( nemiche acerrime per secoli ): “la rinuncia ad avere nemici, tranne uno: l’inimicizia”.

Breve presentazione dell'autore.:

Romano Màdera è stato professore ordinario di Filosofia Morale e di Pratiche Filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca dopo aver insegnato all’Università della Calabria e all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Fa parte delle associazioni di psicologia analitica AIPA ( italiana) e IAAP ( internazionale), del Laboratorio Analitico delle Immagini ( LAI, associazione per lo studio del gioco della sabbia nella pratica analitica ) e della redazione della Rivista di Psicologia Analitica.

E’ uno dei fondatori dei  Seminari Aperti di Pratiche Filosofiche e della Scuola Superiore di Pratiche Filosofiche “Philo”. Ha chiamato la sua proposta nel campo della ricerca e della cura del senso “analisi biografica a orientamento filosofico” formando la società degli analisti filosofi ( SABOF ).

Tra le sue pubblicazioni: Identità e feticismo (1977, nuova edizione ampliata con il titolo Sconfitta e utopia 2018); Dio il Mondo (1989); L’alchimia ribelle (1997); C: G. Jung. Biografia e teoria (1988); L’animale visionario (1999); La filosofia come stile di vita ( con L. V.Tarca, 2003); Il nudo piacere di vivere (2006); La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica (2012); Una filosofia per l’anima. All’incrocio di psicologia analitica e pratiche filosofiche, a cura di C. Mirabelli (2013); C. G. Jung. L’Opera al Rosso, Feltrinelli, Milano, 2016,.  Il caos del mondo e il caos degli affetti (con G. Cappelletty), Claudiana, Torino, 2020.

Share This Article

European Journal of Psychoanalysis