Presentazione di E. Fachinelli ‘Esercizi di psicoanalisi’.
Intervento sulla raccolta di saggi ‘Esercizi di Psicoanalisi’ di E. Fachinelli (Feltrinelli). Roma, 18 novembre 2022.
Capisco che alcuni, in questi tempi di Fachinelli Renaissance, siano disturbati da una certa sua santificazione da più parti che stride con quel che Elvio era stato sempre, un rompic… Ma radicalizzerei questa sua peculiarità: Fachinelli rompeva i c… soprattutto ai “suoi”, a chi la pensava come lui o credeva di pensare come lui. Ovvero, li rompeva ai suoi colleghi analisti, e a una certa sinistra extra-parlamentare dell’epoca che lo aveva eletto a proprio corifeo.
Sono 30 anni che cerco – con scarso successo, lo ammetto – di sottrarre Fachinelli al cliché di “psicoanalista del 68”. Spesso ho detto che non lo si può mettere nello stesso calderone del 68-pensiero, nemmeno assieme a illustri come Deleuze, Guattari, Lyotard, Basaglia, Baudrillard… Sul versante psicoanalitico, poi, non lo si può ridurre a un annunciatore della Buona Novella lacaniana, come Giovanni Battista lo fu di Gesù, a un precursore naif del lacanismo. La sua critica all’irrigidimento istituzionale e dogmatico non investiva solo la SPI (società psicoanalitica italiana), società di cui fece sempre parte, ma anche le varie scuole lacaniane che si svilupparono soprattutto dopo la morte di Lacan.
Fachinelli si poneva questioni di fondo sulla psicoanalisi e sulla Massenpsychologie che vanno ben oltre la militanza e gli slogan da corteo.
Per dirla tutta, non sarei stato suo amico per oltre 15 anni, fino alla sua morte, se Fachinelli fosse stato quello lo dipingono molti suoi commentatori. Certamente ci univa una sorta di basilare e viscerale vocazione libertina-libertaria. Da qui la nostra simpatia per i movimenti anti-autoritari. Negli anni 1970 forse era ancora marxista, ma nel senso di Walter Benjamin, un marxismo più letterario che talmudico. Allora ero su posizioni che si potrebbero chiamare social-democratiche (termine quasi ingiurioso all’epoca), lui aveva una decisa ammirazione per Pannella. Capiva che era il piccolo partito radicale ad andare nel senso giusto della storia – i diritti civili, la critica alle gerarchie rigide, la modernizzazione – non certo il PCI (partito comunista) e gli altri gruppi marx-leninisti che credevano di esserne l’alternativa mentre ne erano solo la caricatura più settaria. Ci accomunava una viscerale antipatia per il PCI e Berlinguer, oggi santificato dalla sinistra nostalgica. A partire dagli anni 1980 Fachinelli non aspettò certo la caduta del muro di Berlino per capire che il comunismo era finito e che occorreva guardare altrove.
E in effetti, se si leggono attentamente i suoi scritti, si noterà che oggetto elettivo della sua satira polemica sono da una parte i gauchistes anti-autoritari dell’epoca, dall’altra gli psicoanalisti, ovvero le due cose che lui essenzialmente era.
Negli anni 1960 seguì l’esperimento di asilo anti-autoritario a Porta Ticinese a Milano. Ma se si legge la sua testimonianza su quel kindergarten, si vedrà che egli insinua molti dubbi su di esso. Notava che i bambini, lasciati a loro stessi senza alcun intervento regolativo da parte degli adulti, non sviluppavano affatto una comunità fraterna e solidale, ma anzi, tendevano a costituire una società fascista con pochi bimbi-bulli che assoggettavano altri bimbi… Analogamente, quando riporta la sua esperienza con un gruppo di studenti di estrema sinistra dell’università di Trento nel 1968, nota subito il prodursi spontaneo di un clima sempre più settario al proprio interno, con i meccanismi di esclusione ed espulsione che ne conseguono. Il gruppo, che si voleva anti-stalinista, riproduceva in modo germinale la mentalità stalinista.
Insomma, Fachinelli era un sottile ironista dei movimenti critici e libertari (e femministi) dell’epoca, pur facendone in qualche modo parte. Egli ha praticato quella che chiamerei una auto-ironia, anche se per interposte persone. Ed era anche un ironista – e auto-ironista – della psicoanalisi in generale, non solo di quella della galassia IPA. Non ha mai celato una certa ambivalenza nei confronti della stessa pratica analitica, che pure esercitava a tempo pieno.
Egli criticava la psicoanalisi corrente – ripeto: di ogni scuola – per essersi sostituita alla psichiatria come strumento di disciplina sociale. Non gli piaceva un certo kitsch buonista degli analisti soprattutto mediatici, che parlavano quasi come una versione laica di arcipreti per consolare e rabbonire le masse. Quando venne intervistato in una trasmissione RAI di propaganda pro-psicoanalisi, citò Karl Kraus: “Hanno già le fabbriche, hanno già le banche… e ora hanno anche l’inconscio!”
Credo di aver ereditato da lui una certa ambivalenza nei confronti della psicoanalisi che più volte mi è stata rimproverata. Ma quella decostruzione che è l’analisi implica sempre un’auto-decostruzione, è quel che Fachinelli mi ha insegnato.
Per esempio, Fachinelli è stato uno dei pochi ad aver parlato del denaro in analisi, non dal punto di vista dell’analizzante ma da quello dell’analista. Egli sapeva che molte regole analitiche, che vengono spacciate come tecniche raffinate, sono in realtà stratagemmi degli analisti per far coincidere la loro professione libera con una sorta di posto fisso (ad esempio, la regola di pagare le sedute saltate). Rifiutava l’illusione che l’analisi si basi su un “contratto”… Da qui la sua scandalosa equiparazione dell’analista a una prostituta, a chi dà godimento a pagamento – cosa che non contraddice affatto la tendenza all’idealizzazione transferale dell’analista come Padre Eterno in terra, dato che tante prostitute sono sante.
Se si legge attentamente la conversazione sulla SPI da noi avuta e pubblicata (https://www.sergiobenvenuto.it/ilsoggetto/articolo.php?ID=198), si capisce che quel che lo disturbava di certa psicoanalisi all’epoca era il suo essere ormai colonizzata dalla mediocrità. Da mediocri intellettuali, ma anche da mediocri clinici. La sua simpatia per Lacan non era dovuta a una sua cieca adesione alla Rivelazione lacaniana, ma perché ne ammirava l’intelligenza e la verve. Una stima ricambiata, dato che Lacan gli propose di divenire presidente dell’associazione lacaniana che voleva fondare in Italia. Anche se Lacan sapeva che Fachinelli non condivideva quello che Derrida chiamava il logocentrismo lacaniano. Come è noto, Fachinelli rifiutò la proposta di Lacan. Lui stesso mi disse “Lacan sta commettendo lo stesso errore di Freud: congelare un pensiero vivo in istituzione”. Secondo lui il marcio era all’origine, in certe scelte strategiche già di Freud. Credere che “il marcio” è venuto dopo Freud, e che occorre tornare a Freud, è una favola consolatoria come quelli che credono che “il marcio” sia venuto con Stalin, e che non ci fosse già in Lenin.
Del lacanismo derideva gli stessi difetti che vedeva nella SPI: il culto reverenziale dei Grandi Maestri, l’accettazione acritica di un sistema di pensiero senza mai metterlo veramente alla prova. Fachinelli non credeva nei Maestri, anche se oggi qualcuno vuol farne un maestro.
Il pensiero di Fachinelli è tutto mosso, nutrito, da contraddizioni. Si pensi alla sua celebrazione della temporalità storica e del divenire in La freccia ferma, che si ribalta poi nell’estasi di una stasi mistica di La mente estatica. O la stessa claustrofilia (nel libro Claustrofilia), indicata prima come trappola in cui si chiude la coppia analitica in un tango avulso dal mondo, e poi come luogo di un’espressione profonda e fondamentale. Non sono semplicemente le tappe di un’evoluzione, ma di un contorcimento del proprio stesso pensiero, che si ribalta da sé.
Fatto sta però che lui e io, in amichevole divergenza negli anni 1970, negli anni 1980 ci siamo raggiunti: lui è diventato sempre più “social-democratico” come me, abbandonando un estremistico Sturm und Drang, e io sono diventato sempre più, come lui, non-lacaniano (ma non anti-lacaniano), e ho smesso di far parte di qualsiasi gruppo o società ereditarie di Lacan.
Quando negli anni 1970 Fachinelli contestò a Lacan in persona il suo logocentrismo, parlando di un linguaggio del corpo come Leib, allora davo ragione a Lacan. Poi mi sono convinto invece che lo slogan “l’inconscio strutturato come un linguaggio” è un residuo hegeliano, e che solo un lacaniano ingenuo oggi può prenderlo come perno essenziale del contributo lacaniano alla psicoanalisi. Elvio aveva ragione: quel che conta è ciò che il linguaggio lascia oltre di sé, dietro di sé, quel pozzo senza fondo che il linguaggio cerca sempre di addomesticare, ma che resta impensato come istanza perturbante.
Data:
14/12/2022
Informazioni sull'Autore:
Sergio Benvenuto è ricercatore in psicologia e filosofia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) di Roma e psicoanalista. È redattore dell’European Journal of Psychoanalysis e membro dell’Editorial Board di American Imago and Psychoanalytic Discourse (PSYAD). Insegna psicoanalisi presso l’Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e presso l’Esculapio Specializzazione in Psicoterapia di Napoli. È stato o è collaboratore di riviste culturali e scientifiche come Lettre Internationale, L’évolution psychiatrique, DIVISION/Review.