Il piacere degli stereotipi

La corrispondenza tra Darian Leader e la redazione di “Essaim” conferma uno stato delle cose che Leader ha il merito di mettere in questione. Chiamerei questo stato delle cose: Ricostruzione immaginaria della psicoanalisi. Come disse Bernard Shaw, “Diffida della falsa conoscenza, è molto peggiore dell’ignoranza”.

Ho avuto la mia formazione negli anni 1970 prima a Parigi e poi in Italia. Ho frequentato attivamente scuole lacaniane in Francia e in Italia, ma anche istituzioni e correnti diverse. Quel che univa le varie scuole, sia lacaniane che anti-lacaniane o a-lacaniane, era un comune disprezzo per “la psicoanalisi americana” e in particolare per l’Ego Psychology. (Mentre gli stessi lacaniani mostravano un certo rispetto per M. Klein e le sue derivazioni, pur essendone praticamente e teoricamente molto lontani.) Essa veniva condannata dalle varie correnti quasi con le stesse parole: che la psicoanalisi americana si era messa al servizio dell’American Way of Life, che era “adattativa” tradendo l’ispirazione originaria, considerata rivoluzionaria, di Freud. Da oltre 50 anni le società italiane dell’IPA sono rigidamente filo-britanniche (kleinismo, Winnicott, Bion, Tavistock Clinic).

Poi ho letto anche testi dei “traditori”, gli Ego psychologists, e ho trovato che alcuni non erano così malvagi come mi si era detto. Per esempio, trovai bello Childhood and Society di Erik Erikson, in particolare le infanzie di Hitler e Gorkij. Mi resi conto che, se analizzate in modo approfondito, certe tesi degli Ego-psychologists e di altri “americani” non erano poi così lontane da quel che sostenevano gli “europei”. Ho cercato di mostrare questo in un libro recente su un caso su cui Leader ed “Essaim” discutono, quello del “mangiatore di cervella fresche” di Kris (in La ballata del mangiatore di cervella, Orthotes, 2020). Qui esamino la ricostruzione non solo del caso di Kris da parte di Lacan, ma anche il modo in cui Lacan analizza vignette cliniche di Anna Freud e di Annie Reich nel suo Seminario I (Gli scritti tecnici di Freud), e ne traggo le conclusioni che le critiche di Lacan a queste analiste si basano, almeno in parte, su un’interpretazione molto angolata, che fa sospettare il malinteso. Questo non per concludere che Kris, Anna Freud e Annie Reich abbiano ragione e Lacan torto, ma per offrire un altro tipo di sguardo meno dicotomico, più storicamente sereno.

Mi resi poi presto conto che questa “psicoanalisi americana” era di fatto una psicoanalisi austro-tedesca trapiantata in USA non per un’affinità elettiva tra questi analisti e “l’ideologia americana”, ma semplicemente perché costoro fuggivano la guerra in Europa e cercavano rifugio. In effetti, il modello tipico dello psicoanalista in America, come si vede anche in tanti film americani, è un signore austero che parla con un accento tedesco… Si diceva tra analisti in Italia “siamo stati colonizzati dalla psicoanalisi americana!”, ma di fatto era vero il contrario: la cosiddetta psicoanalisi americana fu di fatto una colonizzazione ebraico-austro-tedesca dell’America, che a un certo punto (anni 1980) ha perso il suo carisma a tutto vantaggio di una psichiatria e psicoterapia veramente americane (Si pensi al DSM. Quello sì davvero americano!).

Gran parte dei maggiori psicoanalisti “americani” sono nati altrove e per lo più sono giunti in America abbastanza tardi nella loro vita. Kris, nato a Vienna, vi giunse a 40 anni. Heinz Hartmann, nato a Vienna, a 47. Rudolph Löwenstein, analista di Lacan, nato a Lodz in Polonia, a 44. David Rapaport, di origini ungheresi, a 27 anni. Heinz Kohut, nato a Vienna, a 27 anni. Margareth Mahler, ungherese, emigrò a 41 anni. Karen Horney, nata vicino Amburgo, a 47 anni. Erich Fromm, nato a Francoforte sul Meno, a 34 anni. Erik Erikson, nato a Francoforte sul Meno, a 31 anni. Franz Alexander, nato a Budapest, a 39 anni. Più di recente, Otto Kernberg, nato a Vienna e prima emigrato in Cile, si trasferì negli Stati Uniti a 33 anni. E potremmo continuare con gran parte dei famosi psicoanalisti “americani”.

D’altro canto il grande critico dell’ego psychology americana, Herbert Marcuse, viveva lui stesso in America: era emigrato negli Stati Uniti a 36 anni, nel 1934, anche lui per fuggire il nazismo (era nato a Berlino e si era formato alla scuola di Francoforte). Possiamo vedere quindi le grandi diatribe pro o contro la psicoanalisi americana, divenuta dominante dopo la seconda guerra mondiale, come un dibattito in gran parte interno all’intellighentzia austro-tedesca emigrata negli Stati Uniti. Questa sensazione mi fu confermata quando appresi che l’Ego Psychology ha sempre dominato in Germania anche dopo la guerra, quando la psicoanalisi è risorta colà. Anche i miei amici analisti della Svizzera tedesca si sono tutti formati sulla linea di Anna Freud e dell’Ego Psychology. Perché questa appariva loro come la logica prolunga dell’originaria psicoanalisi austro-tedesca. (We should think why German speaking culture is where Lacanianism did not impact at hall, instead of other important cultures.) Per cui dovremmo parlare, di fatto, di una corrente germano-americana che ha dominato la psicoanalisi IPA almeno fino agli anni 1970. Le sole psicoanalisi veramente dissidenti furono quella britannica (formata anch’essa da una transfuga, Melanie Klein) e poi quella francese, formata, essa sì, tutta da psicoanalisti francesi di nascita.

Questa frettolosa identificazione di una “psicoanalisi americana” spiega alcune sviste di Lacan quando, a più riprese, commenta il caso di Kris del mangiatore di cervella fresche (alcune di queste Leader le ha citate). Per esempio, la prima volta che Lacan ne parla, nel suo Seminario (10 febbraio 1954), descrive questo paziente come americano. Ma se avesse letto il testo con più attenzione, avrebbe capito subito che invece quel paziente era londinese (Kris esercitò come analista a Londra dal 1938 al 1940, prima di riparare negli Stati Uniti). Dato il suo desiderio di americanizzare Kris, Lacan finisce con l’americanizzare anche il suo paziente. (Del resto, Lacan aveva una vecchia ruggine con Kris che lui stesso ci rivela[1].)

Non voglio dire certo che Lacan fosse in malafede! Dico solamente che vedeva il mondo attraverso la griglia di certi assunti culturali dell’epoca e della sua cultura nazionale. E chi non ne ha, del resto, di questi assunti? La filosofia contemporanea ha problematizzato il concetto di pregiudizio (cfr. Gadamer): è pensabile un pensare che ne faccia a meno?

Per esempio, allo zenith della sua critica demolitiva di Kris, Lacan deride il fatto che l’analista austriaco parli di “pattern di comportamento” dei pazienti.  Sostanzialmente deride Kris per adottare un linguaggio behaviorista estraneo alla psicoanalisi. Ma appunto, che cosa voleva dire Kris usando un termine inglese a lui stesso non familiare (bisogna capire quale termine tedesco avesse in mente)? Ora, sulla base del contesto dell’articolo, si capisce che Kris si riferisce a qualcosa che ciascun analista sa, ovvero al fatto che un soggetto ripete sempre certi stessi atti. Potremmo anche dire, ripete sempre gli stessi errori. E’ un modo di manifestarsi della ripetizione, che Kris qui chiama pattern pensando forse a Gestalt.

Un altro esempio. Ogni “buon lacaniano” rigetta the “l’ideologia americana dell’autonomous ego”, il concetto stesso di “autonoimia” àè bandito dalla the concept itself of “autonomy” is banned from psychoanalysis. But when Lacan, in his Seminar Ethics of Psychoanalysis talks about the analytic ideals, he says that one of these is the ideal of non-dependence. And he seems to accept this ideal as essential in analytic ethics-practice. But “non-dependence” is just the other (negative) side of autonomy. Why “autonomous” is a bad concept when it is written in English and becomes good when it is written in French as “non-dépendance”?

Ma detto così, anche un lacaniano potrebbe accettarne l’idea. Usando la famosa distinzione di Frege tra Sinne e Bedeutung, senso e riferimento, potremmo dire che le differenze di Sinnen – evidenziate dalle differenze linguistiche tra francese e inglese – vengono prese come differenze di Bedeutungen. Ovvero, in una terminologia diversa, ci si accapiglia su certi “modi di dire” più che su ciò che vien detto. E’ questa la trappola di ogni inclusione in una maniera culturale: come si dice qualcosa (in quella cerchia, in quella lingua) diventa la cosa essenziale, e viene scambiata con la cosa stessa. In tutti I campi (filosofia, scienze sociali, arte, letteratura… psicoanalisi) i creatori hanno pensato profondamente la loro creazione, ma col tempo le loro dottrine, passando agli allievi, diventano sempre più dei manierismi.

 

Come molti intellettuali europei dell’epoca, Freud incluso, Lacan era anglofilo (anche per il ruolo che l’UK aveva svolto contro il nazismo) e anti-americano. Occorre dire però che col tempo Lacan vide l’America con occhi diversi, anche perché vi era stato accolto bene. Ricordo bene il seminario di Lacan del ….. a cui io stesso ho assistito. Mentre lui parlava del suo incontro (catastrofico) con Noam Chomsky, uno studente americano intervenne dal pubblico per difendere Chomsky. Fu allora che Lacan disse, chiaramente, che in America gli avevano fatto osservazioni molto acute per cui si sentiva capito, mentre il pubblico francese, ahimè, gli sembrava assonnato…

D’altro canto, il franco-centrismo di Lacan è un altro cliché – questa volta anti-lacaniano – che andrebbe del tutto rivisto. Non dimentichiamo che Lacan fa iniziare i suoi Ecrits con un commento a uno scrittore americano, Poe… E possiamo dire che, idealmente, Lacan chiude il suo Séminaire con uno scrittore di lingua inglese, Joyce. Potremmo dire che la letteratura in inglese occupa l’alfa e l’omega della sua opera. Inoltre Lacan invitò a parlare al suo Seminario (un grande onore!) su autori anglo-americani come Peirce (invitò il filosofo analitico François Recanati) e Bateson (invitò Gisela Pankow).

La verità è che gli intellettuali, di qualsiasi cultura, sono permeabili ai pregiudizi e stereotipi culturali non meno della gente comune. Talvolta sono letteralmente basito nel sentire, da parte di intellettuali che stimo e che mi sembrano acuti nel loro lavoro, sfoderare cliché del tutto falsi su paesi, autori, idee…  Parafrasando Descartes, direi che i pregiudizi sono tra le cose meglio distribuite al mondo. Ovviamente posso riconoscere un falso pregiudizio quando l’altro mi parla di cose che conosco abbastanza bene. Ma se mi parla un economista, un fisico teorico, un astronomo o un linguista – campi di cui non sono specialista – non sono in grado di giudicare se quel che mi dice sono verità oppure autentiche sciocchezze. Per cui suppongo che il dire falsità e stupidaggini, anche da parte di esperti, sia molto più frequente di quanto io non immagini. In effetti, se illustri filosofi dicono delle falsità su una parte della filosofia che conosco bene (e mi capita spesso di udirle, anche in TV), questo vuol dire che nessuno, nemmeno un premio Nobel, è immune dal pericolo di credere in falsità anche nel proprio campo dovute ai propri pregiudizi politici o filosofici o altro.

Devo ammettere che quando mi recai per la prima volta negli Stati Uniti, nel 1989, e ci ho vissuto tre anni, anche io ero pieno di pregiudizi sull’America, senza rendermene conto. Il pregiudizio è subdolo perché non si segnala mai come tale, ma si manifesta come verità acquisita, “cosa risaputa”, ovvietà… Per esempio, pensavo che la cultura americana fosse essenzialmente neopositivista e analitica, ma ben presto mi resi conto che a New York le star culturali erano… Derrida, Foucault, Lacan, poi Agamben. A New York mi sembrò, negli anni 1990, di tornare nella Parigi in cui avevo passato gran parte degli anni 1970.

Altra sciocchezza in cui credevo perché lo si ripeteva in Italia: che gli studi universitari americani sono altamente specialistici ed evitano visioni di insieme. Mi resi conto che era vero il contrario: mentre in Italia i piani di studio universitari sono abbastanza rigidi, nelle grandi Università americane (per quelle di serie B il discorso è diverso) lo studente ha una libertà sconfinata di studiare quello che vuole… Si seguono corsi sui temi più disparati. In effetti la cultura americana crede in questo principio: quel che importa non è quel che si sa, ma la propria capacità a imparare. E questa capacità si acquisisce in un percorso squisitamente individuale.

Tornato in Europa, quindi, mi sono accorto che la maggior parte degli intellettuali aveva un’immagine del tutto falsa della cultura americana e della sua complessità. Certamente, come ogni cultura, l’America ha aspetti orribili (la “political [e sexual] correctness” è uno di questi), ma anche aspetti creativi ed esaltanti. Come in fondo ogni cultura. Ogni grande cultura è complessa, sfaccettata, contraddittoria (come ci ricorda Leader a proposito della psicoanalisi). Anche la cultura francese ha aspetti ridicoli e detestabili (ad esempio, un certo narcisismo del “rayonnement français”, la ben nota arrogance francese – altro cliché) e aspetti squisiti a essa peculiari. E ci sono aspetti tremendi e aspetti deliziosi nella cultura italiana. I giudizi globali su una cultura sono quasi sempre forme di razzismo e di etnocentrismo. Sono gli individui a valere o non valere, non le nazioni né le culture.

Anni fa in una conferenza pubblica un filosofo italiano molto popolare inanellò i più vieti slogan anti-americani. Per lui l’America era il trionfo della tecnica disumanizzante, e finì col dire, strappando l’applauso di un pubblico di mezza-cultura, “ma secondo voi gli americani hanno un’anima?”. Domanda retorica per lui. Nemmeno gli ebrei, per i nazisti, avevano un’anima. Direi che era un discorso razzista, se non sapessi che gli americani sono originari di ogni parte del mondo, Italia compresa. Diciamo che era semplicemente stupido etnocentrismo.

Esistono certamente anche tanti pregiudizi americani nei confronti di altre nazioni. Mi ha colpito un sentimento anti-francese tra gli americani che supera, a mio avviso, il sentimento anti-americano di molti francesi. Non sono riuscito a capirne la ragione profonda. Dopo tutto, Francia e Stati Uniti storicamente sono stati paesi sempre amici e alleati. Per un secolo l’intellettualità americana aveva scelto Parigi – né Londra né Berlino né Vienna né Roma – come la propria casa europea. Tra gli intellettuali americani raffinati la francofilia è molto diffusa. Ma tra la gente comune i francesi sono detestati. Hypothesis non fingo.

Ai cliché nazionali si sommano poi i cliché “di scuola”. In tutti i campi le scuole avverse producono cliché contro le scuole rivali, prevenzioni che si rivelano per lo più fake news o malintesi. Ascolto ogni giorno cliché falsi contro i lacaniani, così come ascolto ogni giorno cliché falsi dei lacaniani contro altre scuole non-analitiche, di cui hanno letto poco o nulla.

Ad esempio, era opinione diffusa in Italia che la psicoanalisi lacaniana fosse qualcosa di letterario, basata essenzialmente su testi e non sulla clinica, ragion per cui essa poteva andare bene per scrittori e giornalisti… Idea strana, dato che Lacan invece ha sempre insistito sulla parole.

E così in filosofia, nelle scienze sociali…. Ovunque.

Da qui la domanda tremenda, abissale: Le nostre visioni del mondo, qualunque esse siano, non sono tutte falsificazioni della realtà? Si leggano le pagine di Heidegger contro le Weltanschauungen. Ovvero, il mondo in cui viviamo non è favola, come diceva Nietzsche? La realtà, anche quella culturale, è sempre molto complessa, perciò ciascuno di noi, anche il più scrupoloso e spassionato, ha bisogno di semplificazioni per orientarsi nella realtà. Le semplificazioni – tra cui pregiudizi, stereotipi, leggende metropolitane, falsi storici, ecc. – sono un modo forse inevitabile di dare una forma al mondo, per non essere subissati dal caos del reale. Questo vale anche per la pratica clinica. Soprattutto quando si è ancora inesperti, si ha bisogno di teorie rigide, nette, apodittiche, per far fronte alla caotica pluralità delle vicende umane con cui si è confrontati nella clinica.

Sarebbe un lavoro interessante raccogliere tutte le falsità che fanno parte dell’arredo storiografico di ogni analista. Avversari della psicoanalisi come Mikkel Borch-Jacobsen[2] hanno scritto molto per sconsacrare l’immagine storica sacrale che la maggior parte degli analisti si sono fatti della vita e dell’opera di Freud e degli altri pionieri. Anche se le intenzioni di Borch-Jacobsen sono pessime, mi pare che dica molte cose esatte. Come in ogni campo (anche scientifico) viene a costruirsi una sorta di Canone, di versione storica ufficiale per lo più mitica, a dispetto di tutte le smentite storiografiche.

Il fatto che le bugie si introducano persino nella storia della scienza deve farci pensare. Per esempio, si è creduto per secoli che Galileo avesse dimostrato in pubblico la sua teoria della caduta dei gravi gettando gravi di diverso peso dalla torre pendente di Pisa![3] (Eppure basterebbe una conoscenza minima della meccanica classica per rendersi conto che, se lo avesse fatto, Galileo si sarebbe coperto di ridicolo). Figuriamoci quindi con la psicoanalisi!

Finisco con un aneddoto grottesco. Una psicoanalista SPI italiana una volta scrisse per la nostra rivista (Journal of European Psychoanalysis) un saggio su Anna Freud, pieno di inesattezze e malintesi. Per esempio, a un certo punto scriveva che mentre Breuer aveva fallito con Anna O., fuggendo con la moglie a Venezia, Freud invece era stato capace di guarirla! Questa favola è molto diffusa sia tra gli analisti che tra i non addetti ai lavori. Ricordai all’autrice che Freud non aveva mai avuto in cura Anna O., anche se l’aveva conosciuta per altre ragioni, quindi non poteva averla guarita. L’analista convenne che era vero (aveva controllato la storiografia) ma si oppose a correggere quel punto del testo. Disse “Non importa che non sia vero! Questo è quel che si pensa nella comunità analitica. E’ ormai parte della storia della psicoanalisi…” Ecco un esempio plastico dell’oscurantismo a cui indulgono molti analisti, di tutte le scuole.

Note e riferimenti:

[1] Nel 1936, al congresso di Marienbad. Cfr. Ecrits II, Seuil, Paris, p. 77. Tr.it. Scritti, Einaudi, Torino, p. 595.

 

[2] Cfr. M. Borch-Jacobsen e S. Shamdasani, Dossier Freud. L’invenzione della leggenda psicoanalitica, Bollati Boringhieri, 2012.

 

[3] Cfr. “Galilée et l’expérience de Pise, à propos d’une légende, in Alexandre Koyré, Etudes d’histoire de la pensée scientifique, PUF, 1966 et NRF Gallimard, 1973, p. 213 et suiv. Questa leggenda è precoce, la si trova già in uno dei primi biografi secenteschi di Galileo, Vincenzo Viviani (V. Viviani, Racconto istorico della vita di Galilei, Opere, ed. Naz. vol. XIX, p. 606.

Data:

09/12/2021

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European Journal of Psychoanalysis