Impressioni di quarantena. Primi 8 giorni

Non se ne può parlare in terza persona, della quarantena. La sua universalità si esprime in singolarità irriducibili. È il rovescio dei morti per Covid-19 che, da persone, diventano numeri. Ed è l’opera del destino: produrre individualità cosmiche. Astronauti.

Io la sto trascorrendo all’Aquila: città in cui vivo da cinque anni e dove, per alcuni versi, è una fortuna trovarsi adesso. Quasi 11 anni fa un terremoto l’ha distrutta mettendola in ginocchio e viverci, già prima del Covid-19, era un’esperienza surreale, metafisica. “Il più grande cantiere del mondo” si diceva. Ma anche un luogo in cui la rinascita è quotidiana e in cui nulla è scontato: il tempo, qui, ha cardini suoi propri. Cardini forti, di quelli che forgiano la tempra umana.

All’Aquila la quarantena toglie poco per una straniera che, come me, la contempla in fondo dal di fuori. Lo preciso perché, invece, per i suoi abitanti, essere colpiti da una nuova emergenza è una sciagura. Le cose avevano appena cominciato a girar bene dopo anni di incertezza e precarietà. Mentre ora sono di nuovo incerte e precarie. I negozi, appena aperti, son già chiusi. I legami, appena ricostruiti, si virtualizzano e temono per la loro neonata realtà.

Ma questo, a chi, come me, è un cittadino-spettatore, fa un effetto diverso. Un effetto che mi porta a dire che l’Aquila è, per certi versi, immune al Covid-19 e ai suoi, perturbanti, effetti. L’isolamento, infatti, pare non toglierle nulla: la esalta. Le distanze, in modo analogo, non sembrano frammentarla: la valorizzano. Nei silenzi si individua e nel vuoto si esprime perché la quiete, verrebbe da dire, è il suo stato di natura: quella natura che, adesso, è par tout. Quella natura che, ora, è lo stato: silente e beato.

La mia vita, poi, non è molto cambiata con queste nuove misure. Ho capito, anzi, di aver vissuto una quarantena per molti anni senza saperlo. Lo studio matto e disperatissimo della filosofia, dove matto significa dionisiaco e disperato, ancora una volta, beato, mi ha portata a passare ore e ore, le famose 24 sulle 24, dentro casa uscendo solo per una corsetta pomeridiana. Ed entrambe le attività, almeno fino a oggi, 19 marzo 2020, sono compatibili con quelle sancite dai ripetuti decreti che scandiscono le nostre giornate al posto delle campane. Unica eccezione: gli amici fuori, il vino fuori. Insomma, la piazza (i musei e i cinema, all’Aquila-centro, ancora non sono tornati). Ed è proprio la piazza – leggevo ieri l’altro sul giornale – ad essersi assopita.

La piazza, però, è l’Italia-tutta, l’Italia che ora dorme ma che, in realtà, non è mai stata così desta. Desta e solerte. Desta e solidale. Desta e viva.

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Sin da subito, scioccata dai fatti, ho avvertito l’enorme potenza speculativa e liberatrice di questo evento. E ogni giorno, ancora adesso che è l’ottavo, non c’è un mio organo di senso che non la percepisca. Diciamo che si vive la grazia della crisi, la novità eiaculata dalla brusca rottura. I porci si sfamano con le perle e anzi, le generano. Ecco: la quarantena è il periodo in cui fiorisce la Ginestra di Leopardi. E, d’altronde, è proprio col culo sul Vesuvio che ci troviamo. Quando esploderà? Quanto durerà tutto questo?

Mai, prima d’ora, tutto è stato, d’un colpo, così incerto. E tutto simultaneamente. Mai, come ora, ci si è trovati tutti, e tutti simultaneamente, immobili, relegati. È possibile, mi chiedevo qualche giorno fa, arrestare il mondo? Fermare, usurpando i poteri al Dio, il corso delle cose? Così pare: la mano invisibile del decreto ha sancito lo stop o lockdown e, l’indomani, ogni cosa dormiva.

Tuttavia, siccome la Natura che del Dio è eponima non si ferma, essendo anzi la sua cifra il passaggio, il passaggio intrattenibile, bisogna dire, piuttosto, che qualcosa si ferma, e qualcos’altro no. Qualcosa dorme, entra in letargo, mentre qualcos’altro esce dalla tana e si sveglia. Cosa, allora, si blocca? E cosa no? Cosa muore? Cosa, invece, nasce?

La filosofia resta. Il superfluo si ferma. I malati muoiono, assieme alle più abituali abitudini. La solidarietà nasce. Il senso civico nasce. Le urgenze cessano, le amicizie rinverdiscono. Strana situazione. La stessa che, come mi han detto vari amici aquilani, ha caratterizzato il post-sisma. Ogni tragedia, infatti, è ambasciatrice di primavera. Ed è così anche nella natura. Serve la morte per la vita, il secco per l’umido, il freddo per il caldo e via dicendo.

Subito dopo il terremoto, un dopo, però, durato troppo poco, si assistette a qualcosa di inedito: senza precedenti. Rottura degli schemi ordinari, crisi dei pregiudizi sociali e subitaneo oltrepassamento dei soliti confini. I muri ideologici crollarono assieme ai palazzi, ma le macerie che lasciarono erano gemme di collettività inattese.

Si può sperimentare, insomma, cosa succede quando il paradigma entra in crisi. Quello che Kuhn ha teorizzato per la scienza, a quanto pare, vale anche per la natura, la società, la vita individuale e, chissà, forse anche per l’intero universo. Questo a riprova di come ogni cosa sia in ogni cosa e di come, con tutta probabilità, valga il principio di invarianza caro allo spinoziano Einstein. Il punto è: quanto dura lo stato eccezionale prodotto dalla guerra? E quante sono le chance che ha di sopravvivere nella memoria dei suoi osservatori?

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Al “nessuno perderà lavoro” si accompagna un “mai più tagli alla sanità”. Ma, come la saggezza popolare insegna, “mai dire mai”. L’uomo è storto e, perciò, solo perfettibile diceva Kant. Hobbes, prima di lui, aveva colto nella paura il primum movens della vita comunitaria. E nemmeno il Covid-19 sembra dargli torto.

Il punto, allora, è proprio questo: quanto durerà il nuovo? Come evolverà? Cosa succederà quando la paura sarà placata?

I Greci avevano capito che per i mortali che siamo, la Gloria è il più alto dei compiti: l’eterna durata, per chi ne ha una finita e spesso senza ragione, è la sfida. Ne saremo all’altezza?

Per il momento, tutto ciò che mi sento di dire è che, in questi giorni, ogni eccezione si è sciolta in regola: dalle conversazioni multiple via Skype alla generosità, dalla buona politica al de-inquinamento, dalla responsabilità all’attenzione reciproca. Almeno in Italia, infatti, alcune cosiddette “buone pratiche” non solo non erano stimate buone ma, di più, erano avversate. La furbizia e l’indifferenza sono i valori usualmente coltivati non solo dalla maggior parte dei politici. E ciò soprattutto a Roma, città in cui sono nata e in cui, perciò, non ho nessuna intenzione di tornare.

Ecco perché, in questi giorni, viviamo con gli occhi spalancati. Pronti a chiuderli, assieme alle orecchie, solo intorno alle 18.20, quando il capo della Protezione Civile compie il suo rito quotidiano: la lettura del bollettino. Finora non è positivo, e ciò sebbene il 16 marzo sia stata rilevata una lieve inversione del trend.

I contagi aumentano e gli occhi si sgranano: dai balconi e davanti a un Papa-pellegrino-a-piedi cui l’eterna città fa da sfondo temporaneo. Nelle sue guardie del corpo si sono forse incarnati quei gabbiani smarriti a seguito dell’interruzione della movida capitolina.

Gli occhi si spalancano, sì, ma balbettano davanti alla sfilata di carri militari traghettanti salme anonime in un altrove che lo è altrettanto. Caronte ha dormito a Bergamo stanotte.

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“Distanti ma uniti” è l’hastag di questi giorni. Il “tele” che inaugura molti dei rapporti attuali non allude infatti a una distanza ma a una vicinanza superiore, d’altro ordine. Siamo uniti, adesso, come raramente noi Italiani ci sentiamo. Il Covid-19, in breve, è meglio di Italia-90 o di qualsivoglia finale dei campionati mondiali di calcio: genera, come ogni evento, altri eventi, e sono eventi più spessi e reali di quelli mondiali generati dai mondiali. A questa filiazione apparteniamo, ora, senza poterci sottrarre: prodotti più che produttori, siamo eredi di questa situazione, eredi degni di quel che accade avrebbe detto Deleuze.

Questa, però, non è una novità. Non assoluta almeno. Qui in Italia il genio, come il bene, è consustanziale alla corruzione e al male. Ha bisogno dell’ostacolo, spesso, per emergere. Siamo, del resto, la terra natale di Giordano Bruno, ossia di colui che amava ripetere: in tristitia hilaris, in hilaritate tristis e che una “vera magia” aveva definito l’arte di saper trarre “l’un contrario dall’altro” dopo aver intravisto il “punto de l’unione”.

La commedia all’italiana è la commedia dei contrari. Siamo abili a produrli e a sfruttarne con destrezza le risorse. Un troppo efficiente welfare state, da un certo punto di vista, è incompatibile col nostro gene: ci annoia, non ci fa produttivi.

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La quarantena, come ogni cosa, non è un male in sé.

La quarantena, come ogni cosa, è un’occasione in sé.

Certo, abbiamo paura: paura soprattutto per quel che verrà dopo, paura per l’assenza di paragoni che caratterizza tutto ciò che, su scala globale, stiamo vivendo. Eppure, siccome più di quel che stiamo facendo, forse, non possiamo fare, alla paura si affianca qualcosa d’altro, qualcosa come la gioia di sentirci anche noi in un modo che non ha paragoni.

Tutto, ora, si fa a distanza. Ma l’azione a distanza, quella misteriosa e fantomatica azione a distanza aborrita da un non spinoziano Einstein, unisce invece di separare. Ciò che i fisici quantistici chiamano “entanglement”, invero, non è solo il nome per un intreccio o un legame inspiegabile perché infinitamente superiore a quelli ordinari: se il principio di ragion sufficiente non lo afferra è perché la sua ragione non è umana, e non perché non ne abbia una.

Affetto da qualcosa che umano non è, il Covid19, l’uomo si rende capace di qualcosa che umana non è. Anche la telepatia, infatti, da eccezione è oggi la regola. E tutto ciò che è raro diviene comune. Lo stato Covid, cioè, è uno stato entangled: siamo distanti l’uno dall’altro, ognuno nella propria casa ma, ciò nonostante, e anzi proprio per questo, ci sentiamo tutti nelle case altrui: tutti su quella casa comune che è la famigerata “stessa barca”.

È la barca che il buon politico-timoniere deve guidare secondo Platone; è la barca la zattera che trasporta i migranti; è la barca ogni nuovo posto letto creato per far fronte all’emergenza; è la barca la rete che, in questi giorni, conosce un sovraccarico. Barca, però, è anche il nome di un uomo intelligente che, quando era al governo, ha fatto molto per L’Aquila.

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Per le infelicità individuali, ai tempi della quarantena, c’è molto meno spazio. Il narcisismo anche è affetto da Covid-19 ma, fortunatamente, nessuno si sogna di costruire ventilatori per dargli l’ossigeno che gli manca.  “Come stai?”, adesso, non è solo una formalità: le parole più quotidiane hanno un’eco epocale e profonda perché, invisibile a occhi nudi, questo virus rende visibili, a quegli stessi occhi, cose che prima non lo erano.

La quarantena è un’epifania prolungata. Ed è solo per questo che, da un certo punto di vista, ci si augura non finisca mai. P. dice che il Covid è un setaccio naturale che trattiene solo il meglio degli italiani dandogli una grande lezione di vita con le morti che, pure, sta generando: le cose vanno a posto da sole, basta non fare resistenza, basta avere fede. Come i papà, di cui oggi è la festa, l’hanno per il figlio o la figlia che è loro, senza che loro l’abbiano partorito/a.

Biografia dell'autore:

Alessansdra Campo è assegnista di ricerca in filosofia teoretica presso l’Università degli studi dell’Aquila e membro del centro di filosofia e psicoanalisi “Après-coup” presso la stessa università. Per diversi anni si è occupata dei rapporti tra filosofia e psicoanalisi, con particolare riguardo alle implicazioni metafisiche e cosmologiche della teoria freudiano-lacaniana (Bergson, Whitehead e Deleuze). Più recentemente, le sue ricerche si sono consacrate allo studio della causalità metafisica in Kant e Spinoza e, nello specifico, alla presenza di alcune istanze caratteristiche della filosofia del secondo nella riflessione del primo. È autrice di diversi saggi e collabora con Il Manifesto.  Ha curato il volume “L’uno perverso. L’uno senza l’altro: una perversione?” (L’Aquila: Textus, 2018) ed è autrice della monografia “Tardività. Freud dopo Lacan” (Milano: Mimesis, 2018)

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European Journal of Psychoanalysis