INCERTEZZE DEL GENDER.
Questione di genere, autoritarismo e fuga dalla donnità

Relazione tenuta al Seminario INCERTEZZE DEL GENDER, 10 novembre 2023.

 

Traduzione di Gianmaria Senia

 

Di prossima uscita in Orwell’s Nightmare, a cura di Daniel Burston (Routledge 2024)

 

 

 

1990, un fresco pomeriggio di dicembre. Io e tre colleghe entriamo in una piccola aula del campus della UC Berkeley, giunte dall’Istituto di Ricerca Femminista dell’università, presso cui eravamo borsiste in residenza.  Siamo lì per ascoltare una filosofa che ha recentemente pubblicato un libro sulla teoria femminista che sta riscuotendo grande interesse. Mentre prendiamo posto in fondo all’aula gremita, Judith Butler sale sul podio. Giacca sportiva, camicia di tessuto Oxford, aria sofisticata, decisamente androgena.  Il pubblico si acquieta.  La Butler esordisce ponendo un’unica domanda:

            “Chi tra le presenti si considera una donna?”[1]

Ricordo di aver lanciato delle occhiate alle mie amiche, di esserci scambiate degli sguardi perplessi; eravamo confuse, forse sospettose e diffidenti.  Restiamo come sospese, in silenzio.  E nessuno, in una platea di 150 persone composta in gran parte da donne, alza la mano. È come se avessimo intuito che si trattava di una domanda a trabocchetto, che ci era stata chiesta qualcosa per noi indecifrabile.  Col seno di poi, credo che nessuna di noi volesse fare la figura dell’idiota, essere presa in giro dopo essere stata la sola ad alzare la mano ed essere esposta come ingenua, poco informata, sciocca.

 

A pensarci bene, la riluttanza che io e le altre avevamo mostrato quel giorno nasceva dalle stesse emozioni che oggi tormentano chi subisce l’influenza dalle politiche simboliche e identitarie: un desiderio profondo (anche se di rado del tutto consapevole) di appartenenza, di far parte a tutti gli effetti di un élite moralmente virtuosa, illuminata, sofisticata sul piano intellettuale.  Fui introdotta al femminismo simbolico, con il suo linguaggio oscuro e ironico, che conferisce a chi vi aderisce la sensazione di stare sul pezzo, di essere superiore agli altri, e alla politica simbolica in senso più ampio, proprio quel giorno, il 6 dicembre 1990, nella Wheeler Hall dell’università di Berkeley.

 

La domanda

In questo saggio mi propongo di mostrare quanto quella stessa domanda—insieme alla reazione del pubblico—anticipi molte delle caratteristiche di quella che oggi viene diffusamente considerata politica progressista.  Chiedendo alla sua platea se qualcuna di noi credesse o, implicitamente, fosse talmente poco informata da credere di essere una “donna”, Butler aveva implicitamente introdotto la tesi principale del suo libro del 1990, Questione di genere: la tesi secondo cui il genere è un artificio sociale. Le nostre idee su ciò che costituisce l’uomo e la donna o il maschile e il femminile non corrispondono a nulla che esista in natura, ma derivano esclusivamente dalla riproduzione inconsapevole di rapporti di potere.  Quando parliamo o agiamo in modo genderizzato, “recitiamo” il genere, riproducendo in questo modo le categorie di genere e rafforzando l’errata convinzione che esistano realmente delle caratteristiche di genere. Per Butler, tuttavia, la parola “donna” non denota una effettiva categoria di esseri umani ma una “rappresentazione” che costruisce la realtà genderizzata.  Non c’è alcun nesso con la biologia, ma è a tutti gli effetti una costruzione sociale. Conta quello che una persona fa, non quello che è. Il suo contributo consiste quindi nella destabilizzazione delle categorie universalmente riconosciute e nello sconvolgimento delle norme ad esse associate. Il suo obiettivo è la liberazione da ogni tipo di categorizzazione. Per Butler, la categorizzazione è in sé una forma di “violenza”. Da qui il ruolo centrale del linguaggio e della simbolizzazione. Dal momento che, secondo Butler, è impossibile sottrarsi del tutto alle costruzioni sociali create dal linguaggio e dal discorso, il massimo che possiamo fare è sconvolgerle, “metterle in crisi”, aprendo spazi a chi si oppone a qualsiasi forma di categorizzazione dicotomica. Quindi, firmare una email con pronomi di genere, ad esempio “lei, essa, sua”, è diventato d’obbligo in molti ambienti elitari per comunicare ai destinatari che non si può dare per scontato che io sia donna solo perché mi chiamo, per esempio, “Ilene”. Né si può dare per scontato che io sia donna secondo le varie categorie grammaticali: nominativo, accusativo, possessivo, ecc.

 

Con quella domanda quel dì di dicembre, Butler aveva messo in campo quella che Martha Nussbaum ha definito “la politica della parodia”, che mira a ridurre “all’assurdo” le categorie di genere.

 

Nella sua famosa critica all’opera di Butler, The Professor of Parody: The Hip Defeatism of Judith Butler (“La professoressa della parodia: Il disfattismo fico di Judith Butler”) pubblicata nel 1999, Nussbaum ha criticato “la nuova ondata di femminismo simbolico” inaugurata da Butler. L’autrice caratterizza questa ondata come rappresentativa di un

 “. . .abbandono pressoché totale del versante materiale della vita, a favore di una sorta di politica verbale e simbolica che ha solo una debolissima attinenza con la situazione reale delle donne reali […] si pensa che i gesti simbolici siano essi stessi una forma di resistenza politica; e che per essere audaci, quindi, non è necessario impegnarsi in iniziative più complesse come partecipare attivamente ai processi legislativi o ai movimenti politici… L’enfasi di Butler sull’aspetto simbolico, il suo orgoglioso disinteresse per la realtà materiale della vita, si traduce in una pericolosa cecità. Le donne affamate, analfabete, prive di diritti, vittime di violenze e stupri, vengono così cancellate”. (Nussbaum, 1999, pp. 38/43).

 

Come conseguenza dell’attuale influenza di Butler e di molte colleghe e studentesse postmoderne, vigilare sulla lingua, mettere in crisi le categorie di genere, promuovere i bagni inclusivi, la difesa dell’uso del termine “persone incinte” al posto di donne incinte, ecc., diventano una forma di teatro politico che consente ai suoi interpreti di sentirsi virtuosi e moralmente superiori senza padroneggiare le complessità del processo legislativo, fare pressioni sui politici, lavorare in una mensa per senzatetto o fare volontariato come operatrici di un numero di emergenza per donne vittime di maltrattamenti.  Di fatto, un’attenzione lucida e mirata alle sofferenze delle donne che subiscono violenza in quanto donne deve necessariamente fare affidamento su quelle stesse forme di categorizzazione che Butler e altri teorici che condividono il suo pensiero vogliono sovvertire.

 

Io e le mie colleghe avevamo trovato il tutto alquanto incomprensibile. Eravamo femministe socialiste e per noi ogni cambiamento sociale rilevante era legato all’economia politica, alla promozione delle istituzioni democratiche e alla critica della misoginia insita nella storia. Sostenere che la resistenza al “sistema sesso-genere”, come l’ha definito l’antropologa Gayle Rubin, possa compiersi mediante un implacabile stravolgimento delle categorie verbali, o la “messa in crisi” dell’esperienza genderizzata, ci sembrava un’ingenuità e una semplificazione. “Mettere in crisi il concetto di genere tramite la rappresentazione dell’androginia, la glorificazione del camp o, più recentemente, l’uso di “loro” per il pronome di terza persona singolare (come praticato da Butler) ci colpiva in quanto approccio troppo semplice e individualista rispetto alle straordinarie sfide poste dalla trasformazione dell’economia capitalista, dalla redistribuzione della ricchezza e/o dalla lotta per i diritti riproduttivi”.

 

Questa differenza di prospettive è evidenziato in un articolo che Butler avrebbe pubblicato sette anni dopo l’intervento a Berkeley. In “Merely Cultural” (Social Text 52/53, 1997), Butler affermava che “l’eterosessualità normativa e i ‘generi’ ad essa associati sono… essenziali per il funzionamento sessuale dell’economia politica” e considerava la soppressione della normatività una sfida all’ordine capitalista (p. 42). Tali affermazioni sembravano improbabili allora e lo sono ancora di più oggi, vista la legalizzazione dei matrimoni gay nel 2015 e il fatto che oggi le relazioni omosessuali sono ampiamente accettate e attivamente celebrate nelle arti e nella cultura popolare americana. È la disuguaglianza economica non arginata dallo Stato a essere il fulcro dell’impresa capitalistica, non la non-normatività. Oggi le multinazionali non si oppongono ai diritti delle persone queer e trans.  In realtà, tutte le aziende leader, nei settori della tecnologia, dei media e dei prodotti di consumo, accolgono quest’ultimi come potenziali consumatori.  Sono solo i conservatori culturali e religiosi a voler riportare indietro l’orologio e ricostituire l’eteronormatività.

 

Infine, il contesto più ampio in cui Judith Butler pose quella domanda nel 1990 è definito dal contributo della filosofa socialista-femminista Nancy Fraser.  Da sempre critica nei confronti del pensiero di Butler, Fraser evidenzia che il movimento femminista

“spostava la sua attenzione sulla politica culturale proprio nel momento in cui un nascente neoliberalismo dichiarava guerra all’eguaglianza sociale… voleva semplicemente reprimere ogni ricordo di egualitarismo sociale. . . Incapaci di trasformare le profonde strutture di genere dell’economia capitalista, preferivano concentrarsi sui mali radicati nei modelli androcentrici dei valori culturali o sulle gerarchie di status. Il risultato fu un cambiamento consistente dell’immaginario femminista: mentre la generazione precedente aveva cercato di rifare l’economia politica, questa puntava invece a trasformare la cultura” (2020, 1-6 passim).

 

Il femminismo simbolico di Butler, che si concentra sulla rappresentazione, sul linguaggio e sulla performatività, è nato in concomitanza con il fondamentalismo liberista e con le forme più estreme di disuguaglianza economica. Come molti altri critici di questa prospettiva (cfr. Lange e Pickett-Depaolis), anch’io sostengo che l’attuale enfasi sul linguaggio, la rappresentazione e la cultura rispetto al peggioramento delle condizioni economiche degli individui e alla costante erosione della democrazia è una forma di distrazione, spostamento e offuscamento che è ormai entrata nella vita politica dominante.  Si potrebbe affermare che la politica simbolica è diventata l’ideologia dominante del tardo capitalismo proprio grazie a queste funzioni, ovvero lo spostamento della materialità a favore dell’identità, del discorso e dei simboli culturali come centro d’attenzione e di resistenza.

 

La reazione della platea

A posteriori, credo che la domanda lanciata da Butler nel 1990 abbia innescato una serie di reazioni che oggi pervadono le politiche femministe e progressiste.  Se da un lato avevamo sicuramente provato un senso di smarrimento o almeno di incertezza sull’obiettivo della domanda, dall’altro la nostra riluttanza ad alzarci e rivendicare il nostro essere donne nasceva dalla paura—il timore di sbagliare, di essere derise, disprezzate, di sembrare delle sprovvedute, delle ingenue, poco informate, poco fiche”.

 

Facendo uso della parodia come modalità privilegiata di comunicazione, Butler voleva dimostrare il suo disprezzo, la sua distanza dal passato, nonché il desiderio di sovvertire le forme più comuni di comprensione o rappresentazione. Dopo tutto, Butler avrebbe potuto esordire semplicemente spiegando: “oggi sosterrò la tesi che la categoria donna non ha alcun rapporto con quanto avviene in natura ed è costituita dalla performatività”.  Invece, scelse di “mettere in crisi” le forme convenzionali di esposizione di un tema e aveva tentato di indurre il pubblico ignaro a fare da spalla alle sue parodie e prese in gire. Come per intuito, l’intera platea era riuscita a non abboccare. Avevamo percepito dei secondi fini ed eravamo restate in silenzio come misura di difesa personale.

 

La rivoluzione trans

Quando Judith Butler si era rivolta a noi nel 1990, nessuno poteva prevedere lo sconvolgimento della concezione di genere che sarebbe avvenuto di lì a poco in gran parte delle società occidentali. La sua tesi si poneva come sfida alla convinzione universale e rigorosamente osservata che il genere fosse dicotomico e radicato nella biologia. Quell’universalità e quella rigidità erano precisamente ciò che faceva sembrare le sue affermazioni così radicali. Stava sfidando qualcosa che era sempre stato dato per scontato, qualcosa che appariva “naturale”. Oggi, di conseguenza, la convinzione che gli esseri umani possano “nascere nel corpo sbagliato” e il diritto delle persone di dichiararsi di qualsiasi sesso desiderino e che tale dichiarazione debba essere rispettata dalla legge sono principi che molti difendono con la medesima rigidità. Nelle aule scolastiche, sui passaporti, nei censimenti della popolazione, nei tribunali penali, negli spazi pubblici, nello sport agonistico, vale a dire praticamente in ogni aspetto della nostra vita, le identità trans sono sempre più riconosciute. Le Nazioni Unite e il New York Times hanno sostituito con una certa disinvoltura il termine “donne incinte” con “persone incinte” e il Cambridge Dictionary ha ampliato la voce del termine “donna” aggiungendo la definizione “persona adulta che vive e si identifica come femmina”.

 

L’attivismo transgender è diventato il principale terreno di lotta della politica simbolica.[2]  È indubbio che la transizione porti benefici a molte persone e migliori la loro salute mentale. Ma è importante differenziare quello che chiamo “attivismo trans” dalle “persone o soggetti transgender”. Come hanno sottolineato Lisa Selin Davis e Christina Buttons, si tratta di categorie distinte. Sebbene vi sia una certa sovrapposizione, la maggior parte degli attivisti non sembrerebbe essere costituita da individui in transizione o che hanno compiuto una transizione.

 

Secondo me, chi partecipa all’attivismo trans sta prendendo sempre più in svolta autoritaria. La premessa di fondo è che si possa arrivare alla liberazione e alla libertà tramite una celebrazione sempre più ampia delle molteplici identità sessuali e di genere. Molti sostenitori di questo tipo di militanza sono dediti a una crociata morale per esaltare e glorificare questa lista in perpetua espansione, invocando l’adesione a un insieme di principi ritenuti incontrovertibili, moralmente superiori e non suscettibili di alcuna discussione o critica—una posizione dogmatica spesso accompagnata da comportamenti autoritari. All’interno dell’attivismo trans, qualsiasi femminista osi dissentire dall’attuale pensiero progressista consolidato viene etichettata come TERF (trans-exclusionary radical feminist, femminista radicale transesclusiva), viene ridicolizzata, messa alla gogna, talvolta diventa vittima di vere e proprie minacce di morte. Ed è ancora più importante notare che non è chi ha posizioni di destra ad essere soggetto a queste forme di coercizione, ma le stesse compagne femministe e progressiste. Siamo noi ad essere da una parte aperte e dall’altra esposte a questa crociata molto più di quanto non lo sia chi si trova al di fuori della sfera della sinistra liberale. Per quale motivo? Perché per chi e di sinistra l’accusa di transfobia può arrecare danni irreparabili alla reputazione e agli stessi mezzi di sostentamento di una persona, rendendola un paria, emarginata dalle amiche, dalle organizzazioni di sinistra e/o dal mondo del lavoro.

 

Questo modello di autoritarismo di sinistra cela una contraddizione fondamentale che sottende la politica simbolica del movimento trans e impedisce che venga alla luce. Come abbiamo visto, Butler afferma che “una vera identità di genere” è “una finzione regolativa”, e come tale è mantenuta esclusivamente attraverso la performatività (1990:192), perché la donna non è un’entità biologica, ma piuttosto una performance che costruisce una realtà di genere. È ciò che una persona fa; non “lei” chi è.

 

Tuttavia, un gran numero di influencer, operatori sanitari, studenti universitari e persone che non capiscono il perché della propria depressione, del proprio isolamento o della propria angoscia si convincono sempre più che l’idea di essere intrappolati nel “corpo sbagliato” sia un problema comune a moltissimi esseri umani. Questa vera e propria disgrazia sarebbe un scherzo malvagio della natura a cui si può porre rimedio affidandosi a un gruppo sempre più numeroso di professionisti, a un’industria farmaceutica desiderosa di liberare le persone trans facendole rientrare nei loro corpi “giusti”—anche se a un certo prezzo. Ma questa posizione si basa sul presupposto, non dimostrato, che il “vero” genere di una persona può essere “conosciuto” e che non è semplicemente rappresentato. Da dove derivi questa conoscenza resta una questione aperta, non specificata. La fonte di questa “conoscenza” è di origine psicologica o neurologica? Viene dalla mente o dall’anima?  C’è scarso interesse a interrogarsi su questi punti. Anche solo esprimere un interesse ad approfondire questi quesiti implica la presenza di un dubbio e, di conseguenza, la mancata accettazione incondizionata dell’ideologia trans, e chi lo fa si espone all’accusa di eresia, vale a dire di transfobia.

 

Come possiamo ragionevolmente sostenere che il genere sia una “finzione regolativa” e che sia intrinseco, immutabile, essenziale e conoscibile allo stesso tempo?  Come scrive il sociologo Rogers Brubaker nel suo libro Trans:

            “L’identità di genere è contemporaneamente soggettiva e oggettiva. È definita dal proprio “senso di sé” soggettivo, ma il senso di sé è inteso come fondato in qualche aspetto oggettivo—anche se al momento ancora sconosciuto—del proprio essere biologico.  Le fonti della soggettività sono collocate al di fuori del regno della scelta e dell’autotrasformazione riflessiva, al di fuori del regno della cultura e persino, paradossalmente, al di fuori del sé. In questo modo la difesa della volontà di genere viene spinta su un terreno essenzialista.” (2016:36).

 

La diffusa incapacità di riconoscere questa contraddizione rientra nella categoria del bispensiero di George Orwell: “Sapere e non sapere. . . ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullano a vicenda, sapendole contraddittorie fra di loro e tuttavia credendo in entrambe…”.  N.S. Lyons va oltre, affermando che “si tratta di nichilismo. È come fluttuare in un mondo senza gravità; e non c’è nulla che tenga insieme il mondo. Il risultato è l’equivalente esistenziale della vertigine e di una società che si sfalda” (16/2/22).

 

Questa contraddizione vertiginosa, ignara di se stessa, è affiancata ed esasperata dalla crescente accettazione di stereotipi di genere regressivi, spesso interpretati erroneamente come forieri di “una nuova fase in cui l’identità transgender diventa parte del mainstream” (Brubaker:3).  A titolo di esempio, consideriamo la comparsa di Caitlyn Jenner sulla copertina della rivista Vanity Fair il 25 giugno 2015.  Bruce Jenner, medaglia d’oro alle Olimpiadi, ha assunto volontariamente ormoni intersessuali, si è rasato la trachea, si è fatto rimuovere tutti i peli del corpo e del viso, modificare l’attaccatura dei capelli, delineare la fronte, aumentare chirurgicamente la mascella e il mento e impiantare sul petto dei seni al silicone per assomigliare non alla maggior parte delle donne dalla nascita di oggi, ma piuttosto una diva di Hollywood degli anni ‘50 (si pensi a Jayne Mansfield). Questa rinascita degli stereotipi di genere di metà XX secolo ha stranamente guadagnato terreno non solo tra gli adulti in transizione, ma anche all’interno della stessa professione medica. Come sottolinea Kathleen Stock: “Molti dei presunti segni rivelatori della disforia di genere tra i bambini trans-identificati sembrano stereotipi estrapolati da riviste di arredamento per signore d’inizio Guerra Fredda”. (11/4/19).

 

Questa osservazione è avvalorata dal lavoro di Diane Ehrensaft, direttrice del reparto di salute mentale del Centro per l’infanzia e l’adolescenza di San Francisco presso l’Università della California, nonché autrice e docente spesso citata sul tema dei bambini trans. In una sua lezione, disponibile su YouTube col titolo Barrettes: Diane Ehrensaft, un partecipante chiede se è possibile identificare un bambino o una bambina trans già in età preverbale, cioè di età compresa tra uno e due anni. Ehrensaft risponde che di fatto lo è. Questi bambini o queste bambine, dice, sono “molto inclini all’azione”. Racconta di una collega nata di genere femminile di cui esiste un video che la mostra togliersi le mollette dai capelli. “Si tratta di un messaggio legato al genere… E se accade una o due volte, si tratta di un messaggio che riguarda il genere… Quindi, dobbiamo individuare dei comportamenti di questo tipo, come strapparsi di dosso una gonna…” oppure strapparsi le mollette dai capelli per distinguere un’eventuale disforia di genere e il bisogno della bambina o del bambino di essere riconosciuti come transgender. Racconta poi la storia di un bambino di un anno che si sbottona la tutina per “trasformarla in un vestitino” da far scivolare liberamente. Per lei “è un esempio di comunicazione preverbale legata al genere”, e quindi aggiunge che “se una bambina o un bambino ha un’identità di genere sbagliata lo sa già a partire dall’inizio del secondo anno di vita”.

 

Ehrensaft è considerata dal governo degli Stati Uniti un’autorità nel suo campo, ed è stata scelta dal Comitato Nazionale per la Salute come capo ricerca di uno studio quinquennale sulle conseguenze mediche e mentali dei bloccanti per la pubertà e/o gli ormoni “cross-sex” sui bambini. Eppure afferma che le bambine e i bambini in età preverbale possono esprimere l’erroneità intrinseca della loro assegnazione di genere attraverso comportamenti superficiali come togliersi le mollette dai capelli o sbottonarsi un indumento costrittivo, praticamente senza fornire alcuna prova convincente a supporto di queste stravaganti affermazioni.  Sembrerebbe non aver mai sentito parlare del “rasoio di Occam”, il precetto metodologico accolto fino ad oggi dalla stragrande maggioranza degli scienziati secondo cui la spiegazione più semplice è di solito quella migliore. Ringrazio il cielo che quando ero bambina la Ehrensaft non lavorava ancora, perché la mia avversione per i capelli legati a coda di cavallo avrebbe potuto indurre la mia famiglia a farmi somministrare i bloccanti per la pubertà.

 

Anche se non è immediatamente evidente, Ehrensaft sembra prendere gli stereotipi di genere della sua infanzia negli anni ’40 e ‘50 come forme innate di espressione di genere. Tradizionalmente, nella maggior parte dei Paesi occidentali, bambine e bambini venivano vestiti allo stesso modo: abiti bianchi e capelli lunghi sia per le femminucce che per i maschietti. Secondo Cydney Grannan, “i Baby Boomers degli anni ‘40 sono stati i primi ad essere vestiti con indumenti differenziati in base al sesso a cui gli americani sono abituati oggi. Bambini e bambine venivano vestiti come uomini e donne in miniatura e non più con abiti uniformi per femmine e maschi”. Quindi, affermare che l’avversione dei bambini per determinate forme di abbigliamento, tipiche di una determinata società in un determinato contesto storico, è diventato uno scarso surrogato di una solida verifica empirica della disforia di genere. Inoltre, Ehrensaft ribalta la premessa più elementare del genere in quanto costruzione sociale, sostenendo che le bambine e i bambini vengono al mondo non solo conoscendo le specificità dell’abbigliamento genderizzato nelle società di cui fanno parte, ma anche sapendo di trovarsi nel corpo “sbagliato”.

 

Il determinismo essenzialista riflesso dalle dichiarazioni di Ehrensaft è utile per ignorare e offuscare le tendenze significative, e alquanto inquietanti, riguardo il numero di giovani che chiedono la transizione. Il numero di ragazze e ragazzi che si identificano come transgender è quasi raddoppiato tra il 2017 e il 2020 (Ghorayshi, 2022). Ma il trend più rilevante è la recente inversione di tendenza riguardo a chi chiede la transizione.  Tradizionalmente, erano i maschi a voler diventare femmine. Un desiderio che si riflette non solo nelle statistiche storiche sulla disforia di genere, ma anche nella riconoscibilità culturale di travestiti e drag queen.  Nel 2012, tuttavia, questo stato di cose ha iniziato a cambiare. Poiché il servizio sanitario nazionale britannico mantiene registri dettagliati delle prestazioni effettuate, il Gender Identity Development Service (GIDS, servizio per lo sviluppo dell’identità di genere) del Tavistock fornisce una grande quantità di informazioni su pazienti che desiderano effettuare la transizione.

“Nel 2009/10 si erano rivolti al GIDS del Tavistock 32 femmine e 40 maschi. Nel 2011/12 il rapporto tra i sessi si era ribaltato, e da allora il divario tra maschi e femmine ha continuato ad aumentare di anno in anno. Il numero totale di consultazioni per il 2018/19 nella sola Inghilterra era stata di 624 maschi e 1.740 femmine. In meno di un decennio c’era stato un aumento del 1,460% dei maschi e uno straordinario aumento del 5,337% delle femmine” (Transgender Trends, 2022).

“Nel 2016, le femmine nate tali rappresentavano il 46% di tutti gli interventi di riassegnazione del sesso negli Stati Uniti. Un anno dopo, la percentuale era salita al 70%.” (Shrier:33).

 

Oggi sono le adolescenti a identificarsi più spesso come trans, ma sono anche i soggetti meno riconosciuti.  Mentre infuriano varie battaglie politiche per stabilire se i maschi dalla nascita che hanno effettuato la transizione al femminile debbano essere ammessi negli spazi femminili, come bagni, carceri per donne competizioni sportive femminili, il crescente numero di ragazze che desiderano essere maschi è sostanzialmente ignorato. Si potrebbe pensare che questo fenomeno dovrebbe essere di notevole interesse per le femministe. Invece non lo è. Interrogarsi su questo desiderio, la fuga dalla femminilità, interessa poco se la femminilità viene interpretata esclusivamente come rappresentazione e se è il processo di alterazione di tale rappresentazione a essere privilegiato e venerato.

 

La transessualità è la nuova invidia del pene?

Nel 1925 Sigmund Freud annunciò “una scoperta densa di conseguenze riservata alla bambina…”

“La bambina ha modo di osservare il pene, grosso e vistoso, di un fratello o di un compagno di giochi; riconosce subito in esso il corrispettivo, in grande, del proprio organo piccolo e nascosto, ed ecco che nasce in lei l’invidia del pene” (1925/1974:20).

 

Il discepolo di Freud, Karl Abraham, ha ricamato il concetto di Freud, notando che con “straordinaria frequenza… un gran numero di donne reprime il desiderio di essere maschio” e affronta questo desiderio assillante, e spesso inconscio, maturando “la seguente idea: ‘Ho avuto originariamente un membro come i bambini, ma mi è stato preso. . . Si sforza quindi di rappresentare il difetto dolorosamente percepito come una perdita secondaria derivante dall’evirazione” .

 

La concezione di Freud e Abraham di un’invidia del pene innata e universale era una reificazione e un’elusione di relazioni sociali costruite storicamente che Freud non aveva colto. Data la sua tendenza a interpretare i tratti e i comportamenti che vedeva in se stesso e coloro che frequentava nella Vienna di fine secolo come universali e immutabili, Freud aveva frainteso l’invidia delle donne per ciò che posseggono gli uomini interpretandola come caratteristica profonda, essenziale e basata su criteri biologici. Abraham ebbe modo di rafforzare questo equivoco proponendo che le donne che desiderano essere maschi trasformano “il loro difetto primario”, la loro mancanza di mascolinità, nella convinzione di aver posseduto un pene, che però è stato loro tolto.

 

Solo nel 1926, quando l’analizzante di Abraham Karen Horney pubblicò “La fuga dalla femminilità”, fu introdotta, con grande prudenza, nel canone psicoanalitico una visione contrastante.  Benché anche lei notasse il diffuso “desiderio di essere un uomo, che ci è così familiare dalle analisi delle donne adulte”, affermava che questo desiderio “ha solo pochissimo a che fare con quella precoce, infantile, primaria invidia del pene…”  Proponeva invece un’altra possibilità:

.

 

Oggi, inoltre dobbiamo confrontarci con la necessità di approfondire ciò che Horney ha definito fuga dalla femminilità. Così come gli psicoanalisti del primo Novecento si occupavano del desiderio delle loro pazienti di essere uomini, all’inizio del XXI secolo assistiamo a un drammatico aumento di ragazze e giovani donne che esprimono lo stesso desiderio. E, come nel caso di Freud, Abraham e della maggior parte dei loro colleghi, la risposta sembra essere quella di offrire una spiegazione innata ed essenzialista piuttosto che sociale, per motivare questo desiderio di essere uomo.

 

La “reale subordinazione sociale delle donne” che Horney individuava nel 1926 come causa dell’invidia delle donne nei confronti degli uomini appare oggi molto diversa. Le varie forme di sessismo, economico, culturale, politico e ideologico, sono cambiate radicalmente nell’ultimo secolo. Ma il cospicuo aumento del numero di ragazze che affermano di essere intrappolate in corpi che disprezzano e da cui si sentono estranee rappresenta ancora una forma spostata, concretizzata e/o dissociata di ribellione alle norme sociali incentrate sul corpo femminile.

 

La pornificazione della nostra cultura fa sì che le fantasie maschili su come dovrebbero apparire le donne—seni, glutei e labbra enormi—siano sempre più diffuse. L’età media in cui le ragazze sono esposte per la prima volta alla pornografia online è 11 anni (Shrier:23). I social, con una platea globale di tre miliardi di persone, propongono alle adolescenti, le fruitrici più assidue di queste piattaforme, ogni giorno, minuto per minuto, secondo per secondo, immagini di come dovrebbero essere i corpi femminili. Di conseguenza, assistiamo all’avvento di forme di chirurgia plastica ampiamente disponibili che consentono alle donne di assomigliare a una Kardashian, mentre molte ragazze e giovani donne ricorrono all’aumento del seno, al sollevamento dei glutei, all’uso dei filler per le labbra e alla liposuzione, il tutto per conformarsi agli interessi e ai desideri dello sguardo maschile plasmato dalla pornografica.

 

Un messaggio completamente diverso proviene dall’industria della moda e dalla cultura dei VIP che pervade Internet. Grazie all’ascesa dei social media e alla loro monopolizzazione della vita di molte adolescenti, alcuni siti, influencer, video e podcast “pro-anoressia” promuovono quest’ultima come strumento invidiabile per gestire la dismorfia corporea o l’odio per il proprio corpo. Personaggi come Kate Middleton, Principessa del Galles, la cantante Ariana Grande e l’attrice Angelina Jolie sono seguitissimi e le loro ossa sporgenti, le loro linee slanciate, riflettono quello che viene percepito come un controllo esemplare del corpo. Come racconta l’autrice Lea Muldtofte nel suo saggio “The Grace of My Perfect Skeleton: An Autoethnographic Analysis of the Anorexic Body,” (‘La grazia del mio scheletro perfetto: un’analisi auto-etnografica del corpo anoressico’):

Cominciai a parlare tramite la visibilità delle ossa, creando uno spazio in cui nessuno poteva interrompermi… La prassi dell’anoressia parla tanto del disordine della cultura che circonda gli ideali corporei… quanto del disordine della mente anoressica… una pratica di protesta con un alto livello di azione”.

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Aspirare a una voluttuosità resa possibile dalla chirurgia o a una “visibilità delle ossa” non è una novità assoluta. È il modo in cui queste idee arrivano alle menti delle adolescenti a esserlo. Secondo Lukianoff e Haidt, le ragazze dedicano molto più tempo ai canali social rispetto ai ragazzi e si mostrano più attenti all’inclusione e al conformismo.  I due autori sottolineano che

“Un’ulteriore conseguenza della gestione dei contenuti sui social media è il bombardamento a cui vengono sottoposte ragazze giovani e giovanissime di immagini di altre ragazze e donne il cui aspetto fisico è potenziato artificialmente, il che rende le adolescenti e le giovanissime sempre più insicure riguardo al loro aspetto. Non sono solo le modelle a pubblicare immagini ritoccate; piattaforme come Snapchat e Instagram forniscono “filtri” che molte ragazze utilizzano per perfezionare le proprie fattezze nei selfie che scattano e modificano, facendo apparire più attraenti le loro stesse amiche. Questi filtri riducono il naso, aumentano il volume delle labbra e rendono la pelle più liscia. Tutto questo ha generato un nuovo fenomeno: alcune giovani desiderano sottoporsi a interventi di chirurgia plastica per assomigliare alle immagini dei loro selfie ritoccati” (2016:155).

 

Le giovanissime che contribuiscono al notevole aumento di persone di sesso femminile che oggi cercano la riassegnazione di genere hanno scoperto la loro identità trans durante l’adolescenza e, secondo una ricerca, solo “dopo un periodo prolungato di immersione nei social” (Shrier:26).  I CDC (i centri federali per la prevenzione e il controllo delle malattie negli Stati Uniti) hanno rilevato che la percentuale di studentesse delle scuole superiori che hanno provato “sentimenti persistenti di tristezza o disperazione” era aumentata dal 36% nel 2011 al 57% nel 2021 (CDC 2023). La mia tesi è che l’attuale fuga dalla femminilità sia, in parte, un tentativo di sottrarsi a quella che Karen Horney definiva la subordinazione sociale delle donne. Queste non sono ovviamente le forme di subordinazione degli anni ‘20, ma sono invece forme implicite nelle norme visive e culturali che incoraggiano le donne ad apparire e ad essere in un certo modo. In molti casi, l’insorgenza della disforia di genere durante l’adolescenza può essere interpretata come forma di ribellione concreta e corporea contro i vincoli della femminilità normativa del 21° secolo. Alla base c’è l’invidia per quella che viene percepita come libertà maschile. Dati gli ovvi benefici monetari per l’industria farmaceutica, per i chirurghi estetici e per i terapeuti che praticano terapie affermative, la transizione è diventata una scelta facilmente accessibile, una scelta che viene sempre più lodata ed esaltata.

 

L’osservazione degli psicoanalisti di un secolo fa, secondo i quali molte pazienti desideravano essere uomini, sembra curiosamente attuale nel XXI secolo. Il motivo per cui la fuga dalla femminilità è riemersa oggi è una questione “seria e importante”, come lo era nel 1926, quando Horney la pose. Ma non è una domanda che si pongono la Butler e coloro che, influenzati dal postmodernismo, sostengono che la messa in crisi dei generi, il simbolismo, il camp, l’ironia e la parodia siano le questioni primarie; a loro non interessano questioni urgenti come queste.

 

Inserirsi nella “Gerarchia dell’oppressione”

Da psicoanalista, ritengo che il desiderio di transizione non possa essere preso alla leggera e debba essere prima approfondito e compreso. Cerco di suscitare la stessa curiosità a chi desidera detransizionare al genere di nascita.  Data la collocazione del mio studio, ricevo molti pazienti provenienti da contesti politicamente progressisti e con un elevato livello di istruzione. Frequentano o hanno frequentato scuole dove la scelta dei pronomi di genere avviene già in quinta elementare. Piuttosto che bollarsi come emarginati o disadattati, chi dichiara di essere transgender spesso riceve riconoscimenti e quindi l’accesso a un’identificazione con un gruppo oppresso, il che spesso offre fratellanza, senso di appartenenza e uno status più elevato rispetto a quello di “cisgenere”.

 

“Olivia/Oliver” si autodefinisce di genere fluido e ha intrapreso una terapia poco dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore. Valutava la possibilità di assumere testosterone per transizionare da femmina biologica al genere maschile. “O,” come abbiamo concordato che la chiamassi, non aveva mai avuto amici veri e propri, viveva una forte ansia sociale, ma eccelleva negli studi, in particolare in matematica e in scienze. In quanto figlia unica di professionisti di sinistra che trascorrevano una quantità spropositata di tempo al lavoro, O era abituata a starsene a casa da sola perseguendo una serie di interessi piuttosto astrusi su Internet (ad esempio, studiare il finlandese). O era stata ammessa a un esclusivo college di arti liberali sulla East Coast ed era preoccupatissima di dover andare via di casa e vivere in un pensionato universitario dormendo con altre ragazze. Secondo lei le femmine pretendono un certo coinvolgimento emotivo nell’amicizia, mentre i maschi le sembrano più presi “dalle cose concrete, da roba che si può studiare e imparare”. Il solo pensiero di dover condividere una stanza con un’altra ragazza la terrorizza. “Un maschio mi lascerebbe in pace”, mi dice sicura di sé.

 

O aveva una lunga storia di vittima di bullismo e derisioni. Socialmente e fisicamente goffa, di solito consumava il pranzo in biblioteca e aveva il terrore delle gite scolastiche, degli sport di squadra e di qualsiasi attività extrascolastica. Secondo lei la transizione le avrebbe aperto le porte di una comunità di riferimento, siccome aveva constatato che il circolo transgender della scuola era estremamente accogliente nei confronti di “chi come me si sente a disagio ovunque”. Mi fa notare che nel grande liceo pubblico che frequentava c’erano organizzazioni studentesche per neri, latinos, asiatici, queer e trans, ma non c’era nulla a cui lei potesse iscriversi. “Dove può sentirsi a proprio agio una ragazza bianca se non è gender fluid o trans? In nessun luogo, e non è che posso entrare nella squadra di basket femminile!” O non era neanche capace di afferrare una palla, quindi gli sport organizzati non erano certo un’opzione.

 

Non ci metto molto a ipotizzare che O rientrasse nello spettro autistico e le chiedo se si fosse mai sottoposta a degli esami neuropsicologici. O mi risponde che, per quanto ne sappia, no, ma che avrebbe chiesto alla madre. Il giorno dopo ricevo un messaggio vocale stizzito da parte della madre di O, in cui dice categoricamente che O non ha mai avuto alcun problema per cui si sarebbe dovuta sottoporre a degli esami. La figlia presentava una disforia di genere e aveva bisogno di transizionare, punto!

 

Nei mesi successivi, man mano che io O indaghiamo sui motivi più profondi alla base del suo desiderio di transizione, iniziamo a parlare delle varie dinamiche per cui essere trans le sembra l’unica opzione, l’unica via d’uscita da una vita di solitudine e incomprensioni. Ascoltando con attenzione quello che mi racconta delle conversazioni con la madre, comincio a pensare che per quest’ultima avere un figlio trans fosse in qualche modo più accettabile del riconoscere che la figlia rientrasse nello spettro autistico. O non voleva solo sottrarsi alle problematiche emotive di dover dividere una stanza con un’altra ragazza, ma desiderava assumere un’identità che le offrisse una posizione sociale, una comunità e l’approvazione materna.

 

La situazione di O illustra in modo lampante come in certi ambienti il transgenderismo non sia semplicemente accettato, ma venerato. Il desiderio di transizione di O era il suo modo di fuggire da un mondo ostile e, allo stesso tempo, una profonda complicità con l’intolleranza della madre nei confronti del suo autismo e il desiderio che la figlia si collocasse in una posizione più alta nella gerarchia dell’oppressione. Ho anche ipotizzato che la completa accettazione di un figlio trans avrebbe migliorato il posizionamento di questa madre nella gerarchia del suo mondo fico e politicamente progressista che esalta la non conformità di genere.

 

Caccia alle streghe

“Se lei pretende eliminare la religione dalla nostra civiltà europea, la cosa può avvenire solo con un altro sistema di dottrine, che assumerebbe fin dall’inizio tutti i caratteri psicologici della religione, la stessa santità, rigidità, intolleranza, la stessa proibizione di pensare a propria difesa

—Sigmund Freud, L’avvenire di un’illusione

 

Greg Lukianoff e Jonathan Haidt hanno evidenziato come le caccie alle streghe politiche “nascono in tempi brevi” e “si manifestano con esplosioni drammatiche”… Dal Regime del Terrore durante la Rivoluzione francese, ai processi farsa staliniani fino al Maccartismo negli Stati Uniti, il fenomeno è sempre lo stesso: una comunità si mobilita con tenacia per fare fuori dei nemici interni”. Un’altra caratteristica chiave della caccia alle streghe, spiegano gli autori, è il silenzio degli altri, cioè la paura di difendere gli accusati. “Quando viene mossa un’accusa pubblica, molti degli astanti, tra cui anche amici della vittima, sanno che quest’ultima è innocente, ma hanno paura di intervenire. Chiunque prenda le difese della persona accusata è d’intralcio alla messa in scena di un rituale collettivo” (2018:101,102).

 

Oggi gli studiosi che interrogano e criticano l’ideologia trans vengono vessati, oscurati, ostracizzati e minacciati. Alcuni esempi: Kathleen Stock, docente di filosofia della University of Sussex in Inghilterra, è stata costretta a dimettersi dal suo incarico per il suo schietto ed energico dissenso nei confronti delle tesi fondamentali di Butler. Nel libro Material Girls: Why Reality Matters for Feminism, sostiene che il sesso biologico è un dato di fatto ed è critica nei confronti dell’idea che le donne trans siano “realmente” donne. Per tutta risposta, centinaia di accademici britannici scrivono una lettera aperta al governo britannico per condannare la nomina di Stock a Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico. Moltissimi studenti pretendono le sue dimissioni, scendendo in piazza con passamontagna, bengala e striscioni con la scritta “Stock Vattene!” La porta del suo viene imbrattata e le sue lezioni interrotte. Si sarebbe poi dimessa in seguito a ciò che ha definito una “caccia alle streghe”. Kathleen Lowrey, professoressa associata di antropologia alla University of Alberta, viene licenziata dopo otto mesi da un incarico triennale come presidente associato del primo ciclo di studi per aver creato un ambiente di apprendimento “a rischio” con le sue opinioni femministe critiche del genere. Quando Lisa Littman, una ricercatrice nel campo della sanità pubblica, utilizza le segnalazioni di alcuni genitori nel tentativo di studiare il motivo per cui così tante adolescenti dichiaravano di essere trans, Diane Ehrensaft dichiara a The Economist che uno studio del genere è come “selezionare soggetti dai siti del Ku Klux Klan o della Alt-Right per dimostrare che i neri sono davvero una razza inferiore” (Shrier:28-9). Il professor Allan Josephson è stato licenziato dalla facoltà di Medicina della University of Louisville per aver affermato: “l’idea che l’identità di genere debba prevalere su cromosomi, ormoni, organi riproduttivi interni, genitali esterni e caratteristiche sessuali secondarie è contraria alla scienza medica” (Watkins 2019). I dottorandi dell’Università del Southern Maine hanno abbandonato per protesta le lezioni della professoressa Christy Hammer, chiedendone il licenziamento perché sosteneva l’esistenza di due soli sessi (Levine 2022).

 

Dubito che quando Judith Butler ha chiesto chi si considerasse donna, abbia immaginato quanto dogmatismo, odio e assolutismo le sue idee avrebbero, per molti versi, ispirato. Nell’ambito della conquista postmoderna dell’università annunciata da Butler, abbiamo assistito a quella che lo storico Russell Jacoby ha definito “l’invasione della piazza pubblica da parte del campus”. L’autore documenta come, alla fine degli anni Novanta, le università non fossero più in grado di offrire lavoro alle crescenti schiere di dottorandi, in particolare nelle discipline umanistiche. Questi dottori di ricerca hanno finito per lavorare nei centri studi, nelle ONG, nelle organizzazioni non profit o per scrivere su ogni tipo di media. Così, le “parole d’ordine del campus—diversità, inclusione, microaggressioni, differenziale di potere, privilegio bianco, sicurezza di gruppo—sono diventate le parole d’ordine della vita pubblica” (Jacoby, 2022). Ma di pari importanza è il silenzio e l’implicita tolleranza di molti di fronte al bullismo pubblico, alla stigmatizzazione e alla negazione della libertà di parola che ci circonda. La mancanza di coraggio, la paura che io e tutte le donne del pubblico abbiamo manifestato come reazione alla domanda di Butler mi tormenta tuttora. Quel mio silenzio, quel mio desiderio di integrazione e di scongiurare il rischio di essere schernita si ripresentano oggi in ampi settori della nostra società. La politica simbolica, l’oclocrazia di Internet che impone l’adesione alle regole in costante evoluzione del linguaggio corretto e minaccia i trasgressori di espulsione dai social, dai gruppi di amici, dai posti di lavoro e dalle carriere, rappresentano una sfida straordinaria per la democrazia e la libertà di espressione. Chi è consapevole di tutto questo ma non si pronuncia contro questa nuova religione, questa nuova forma di intolleranza, lo fa a suo rischio e pericolo. Oggi, del resto, chi si pronuncia non rischia semplicemente scherno e derisione come noi in quell’aula. Rischiano invece denigrazione e disprezzo sui social, minacce di morte, nonché la possibilità molto concreta di perdere il posto di lavoro, quindi eventuali finanziamenti e la propria reputazione per il reato di aver usato parole ritenute sbagliate o di aver creduto che ci sia una relazione necessaria tra sesso biologico e genere. Con lo sgretolamento della società civile, delle religioni e delle norme sociali condivise, ci troviamo di fronte a una nuova religione, una crociata morale che idolatra le identità emarginate e privilegia il linguaggio a discapito dell’azioni come dimostrazione di fede. Come fa notare Michael Lind, oggi stiamo

“resuscitando la visione religiosa pre-liberale e pre-moderna della società concepita come congregazione di persone virtuose e affini. O si è veri credenti o si è eretici. Non si può scendere a compromessi con chi è malvagio, e la misura principale della malvagità non è quello che qualcuno fa—come riversare delle sostanze tossiche in un fiume o discriminare apertamente in base alla razza—ma esprimere atteggiamenti giudicati riprovevoli e rifiutarsi di usare il linguaggio rituale del politicamente corretto.” (Lind, 2016).

 

Se tornassimo alla Wheeler Hall nel campus della UC Berkeley e Judith Butler chiedesse “Chi tra i presenti si considera una donna?” Immagino che tra il pubblico calerebbe un silenzio simile a quello di allora. Ma questa volta, probabilmente, qualche mano si solleverebbe, oppure qualcuno del pubblico si alzerebbe e a testa alta e con più orgoglio di chiunque altro, proclamerebbe a squarciagola: “Io!!!”.  E chi tra noi è nata femmina probabilmente esulterebbe in riconoscimento del fatto che oggi chi è nato maschio ha la possibilità di fare una tale proclamazione. E nel nostro plauso e riconoscimento, esulteremmo per il diritto di tutti gli uomini e le donne trans di vivere liberi da paure e persecuzioni, di godere dello stesso rispetto garantito a tutti, e riconosceremmo che la transizione può essere realmente un beneficio per la salute mentale di moltissime persone. Tuttavia, molte—come la sottoscritta—vedrebbero anche che si tratta da un lato di una conquista importante per queste donne trans poter essere così coraggiose e fiere, e dall’altro un’enorme perdita per chi, come noi, crede ancora che esista una connessione sostanziale tra sesso e genere, tra biologia e costruzione sociale. Se c’è un filo conduttore tra la reazione del pubblico nel 1990 e quello a cui assistiamo oggi è l’idea orwelliana del pensiero di gruppo. Per paura, codardia e/o per il desiderio di essere accettate, assecondiamo, razionalizziamo il nostro silenzio e permettiamo a chi fa la voce grossa, ai più accesi e determinati di avere il sopravvento. Ci piaccia o meno, siamo noi a rendere possibile la caccia alle streghe. È in risposta a questa riflessione che, finalmente, alzo la mano e dichiaro: “Sì, sono una donna”. Nella speranza che non sia troppo tardi.

 

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Ilene Philipson ha PhD in sociologia, psicologia clinica e psicoanalisi. E’ analista didattica e di supervisione all’Istituto di Psicoanalisi Contemporanea di Los Angeles, analista di supervisione al San Francisco Center for Psychoanalysis, e pratica in privato la psicoterapia e la psicoanalisi a Oakland, California.

I suoi lavori più recenti includono: “The Plague of Certitude,” in stampe su Psychoanalytic Inquiry”; “Fearing the Theoretical Other:  The Legacy of Kohut’s Erasure of the Analyst’s Trauma,” in Henik and Aron (a cura di) Answering A Question with More Questions, 2024; “The Reproduction of Mothering:  A Love Story,” in P. Bueskens (a cura di) Nancy Chodorow and the Reproduction of Mothering, 2021.

Tra i suoi libri:  On the Shoulders of Women:  The Feminization of Psychotherapy (Guilford Press, 1993, New York).  Married to the Job:  Why We Live to Work and What We Can Do About It (Free Press, 2002, New York).  Ethel Rosenberg:  Beyond the Myths (Rutgers University Press, 1993, New York).

 

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[1] Dato che, per quanto ne sappia, non esistono registrazioni o trascrizioni di questa conferenza, mi sono affidata alla mia memoria e a quella delle mie colleghe. Quindi, la domanda potrebbe essere stata “chi di voi crede di essere una donna”, o “chi si ritiene una donna”, o qualsiasi altra variante.

[2] Come fa notare l’autrice Lisa Selin Davis, esiste un diagramma di Venn tra gli attivisti transgender, che possono essere o meno transgender, e le persone transgender. Al centro dei cerchi intrecciati si trovano coloro che sono sia soggetti che attivisti transgender.

 

 

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