L’inconscio come chiusura o apertura?
“Come giungere alla conoscenza dell’inconscio? Naturalmente noi lo conosciamo come qualcosa di conscio dopo che ha subito una trasformazione o traduzione in qualcosa di conscio” (Freud 1915).
Ringrazio la dottoressa Cristiana Cimino e il dottor Antonello Correale per i preziosi suggerimenti e consigli.
Introduzione.
Il termine “inconscio” – e il concetto a cui si riferisce – è entrato nella vita di tutti i giorni sin da quando il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, ne ha fatto un oggetto di ricerca sistematica. Gli stessi Laplanche e Pontalis nella loro “Enciclopedia della psicoanalisi” (1967) evidenziano che se si volessero riassumere le scoperte freudiane in una parola sola essa sarebbe proprio l’inconscio.
L’importanza di questo concetto all’interno della psicologia clinica e teorica è tale che è stato ripreso e utilizzato da diversi orientamenti, anche molto diversi tra loro, tanto che ad oggi si può dire che è uno di quelle terminologie trasversali a quasi tutti gli orientamenti che studiano la mente umana. Probabilmente infatti, sono pochi i ricercatori e gli studiosi di psicologia che non riconoscono che parte del funzionamento mentale vada oltre il dato cosciente. Siamo sicuri tuttavia che quando parlano di inconscio si riferiscono alla stessa cosa?
Se si legge un po’ di letteratura sull’argomento quello che si nota è che è molto difficile tenere insieme tutte le osservazioni e i diversi punti di vista che sono state fatte che per la loro diversità appaiono non integrabili e a volte anche contraddittori. I punti di vista sono molteplici e spesso il termine inconscio viene utilizzato in riferimento a dei concetti anche molto differenti tra loro.
Tuttavia questo non ci deve spaventare, per il fatto che probabilmente ci sta indicando qualcosa dell’oggetto di studio, cioè che per inconscio si intende qualcosa che per definizione non è completamente conoscibile e probabilmente non lo sarà mai. Questo significa che l’inconscio ha come condizione di esistenza logica proprio il fatto di non essere pienamente spiegabile e trasformabile, altrimenti perderebbe la sua natura aperta, il suo linguaggio e la sua ricchezza.
Un altro aspetto spinoso che si riscontra dell’argomento in questione, strettamente connesso al precedente, è che gli anni trascorsi di riflessioni e di lavoro clinico da parte di chi si è occupato di questo concetto non hanno affatto semplificato e chiarito le cose, ma anzi le hanno complicate, con il risultato che arrivare ad una definizione univoca, condivisibile e universalmente accettata di cosa sia questo inconscio appare impossibile da delineare nonostante l’evidenza della sua presenza e importanza ad esempio nella clinica ma non solo.
Probabilmente anche questo aspetto riguarda un’altra caratteristica dell’inconscio da tenere presente e cioè il fatto che esso stesso possa essere considerato una riserva quasi inesauribile di sensi e significati (Cfr A. Green 1983) e che per questo motivo esso viene spesso associato a ciò che in parte caratterizza, se le cose vanno bene, la natura umana: la creatività e le forme ad essa connesse.
L’inconscio infatti, viene spesso associato all’energia psichica, in quanto fonte o natura stessa, e in effetti una esperienza comune di chi passa attraverso il congegno psicoanalitico e che viene spesso riferita soprattutto in una prima fase di analisi, è la percezione dell’aumentare delle proprie energie psichiche[1].
Questo scritto vuole riprendere alcune delle linee di riflessioni teoriche contemporanee che a mio modo di vedere sono le più interessanti per ipotizzare dove queste strade potrebbero portarci nel futuro prossimo. Il punto di partenza e il riferimento principale vuole essere l’inconscio così come Freud lo ha delineato, con le complessità e le contraddizioni presenti. D’altronde come si può pensare di non ritrovarle avendo a che fare con un concetto così complesso e che presenta una logica propria che rimane e rimarrà di difficile comprensione?
- Freud e l’inconscio.
Freud partì nella sua esplorazione dell’ignoto dal lavoro clinico e dallo studio dell’isteria (Cfr Breuer e Freud 1895; Benvenuto 2017). Potremmo riassumere le sue riflessioni relativamente all’inconscio in questo modo. Alcune informazioni, come ad esempio alcuni ricordi associati ai sintomi che questi pazienti presentavano, tendevano ad emergere a consapevolezza ad un certo punto sotto la spinta del medico curante, ad esempio per ipnosi o attraverso il posizionamento di una mano sulla fronte o tramite le libere associazioni e delle interpretazioni. Queste informazioni influenzavano la vita del paziente attraverso il sintomo e non solo e dunque si trovavano in un posto inconscio per l’appunto.
Nella prima topica infatti, all’inconscio viene dato un topos specifico, fondamentalmente costituito da contenuti rimossi a cui è stato rifiutato l’ingresso al sistema preconscio-conscio. Al meccanismo della rimozione viene dunque riconosciuto un ruolo primario e originario (Freud 1911). I contenuti rimossi sono rappresentanti delle pulsioni che si sono staccati dai contenuti ideativi e sono ora liberi di circolare e sono regolati da meccanismi specifici, come ad esempio la condensazione e lo spostamento con le conseguenze connesse che questi comportano. Freud chiama questa mobilità e libertà delle cariche “processo primario”. Un’altra caratteristica messa in risalto da Freud riguarda la spinta pulsionale di questi contenuti che emergono parzialmente tramite dei compromessi e a seguito di una de-formazione. In assenza di un ancoraggio a dei contenuti ideativi queste spinte pulsionali “premono per”.
Il processo primario implica dunque la condensazione, lo spostamento e il simbolismo, inoltre l’inconscio è atemporale (Cfr Freud 1899; 1901). Il processo primario è caratterizzato dalla libertà delle cariche psichiche di fluire e di ricercare una immediata gratificazione.
Nella seconda topica le cose si complicano ulteriormente per il fatto che il termine inconscio viene utilizzato da Freud maggiormente nella sua forma di aggettivo-descrizione, per il fatto che sia l’Io che il Super-io vengono qualificati da esso, nonostante il punto di vista topografico rimane presente sullo sfondo e non perde la sua importanza, inoltre esso non viene affatto sostituito da questo nuovo vertice (Cfr Freud 1922). Un ulteriore complessità emerge nel rapporto tra il preconscio e l’inconscio, con il rischio che questa differenziazione venga abolita o per lo meno perda l’importanza che aveva in precedenza, anche se Freud stesso identifica delle parti dell’Io e del Super-io rispettivamente preconsce e inconsce. Queste complessità mirano a tenere conto innanzitutto della clinica e anche della soggettività umana che è di difficile riduzione categoriale. Inoltre, questa scienza nascente, la psicoanalisi, si è dovuta confrontare con il linguaggio scientifico che vorrebbe dire una cosa valida per sempre.
- L’inconscio cognitivo e l’assenza di rapporto con l’inconscio freudiano.
Dalla seconda metà del secolo scorso, il concetto di inconscio ha attratto l’attenzione di studiosi di diversi orientamenti e dei ricercatori di tutto il mondo per cercare di comprendere meglio la sua portata nello studio della mente umana. All’interno della psicoanalisi stessa sono nati alcuni tentativi di revisione della scoperta freudiana seguendo la critica principale della relazionalità primaria intrinseca alla natura umana.
I punti di vista allo studio dell’inconscio tra questi ricercatori sono molteplici e differiscono tra loro a volte anche radicalmente da sembrare dei concetti che in comune hanno solo il termine linguistico di riferimento. Se questo non bastasse a confondere le idee, nella letteratura sull’argomento molto spesso vengono utilizzati dei termini all’apparenza simili come se fossero sinonimi, ad esempio inconscio, o non conscio o subconscio. Alcuni di questi sono stati allontanati da Freud stesso nelle sue riflessioni come non rientranti nella ricerca psicoanalitica: “(…) Sarà anche opportuno respingere il termine «subcosciente» perché scorretto e ingannevole” (Freud 1915).
Un ottimo lavoro di raccolta di informazioni e di riflessioni relativamente all’inconscio cognitivo e relazionale è stato ad esempio portato avanti da Di Francesco, Marraffa e Paternoster (2016). Colpisce indubbiamente che, nonostante la diversità dei punti di vista – soprattutto rispetto all’inconscio computazionale che sembra essere di difficile paragone all’inconscio freudiano -, anche questi filosofi finiscono per domandarsi rispetto alla rappresentabilità psichica potenziale della mente, ad esempio quando si ritrovano costretti a definire cosa sia il mentale e cosa invece non può essere considerato tale. La questione della rappresentabilità psichica è al centro di numerose riflessioni psicoanalitiche contemporanee (Cfr ad esempio Botella 2004; Correale 2021).
Sembrerebbe che ciò che accumuna l’inconscio cognitivo e relazionale sia il pensare che per “inconscio” si intende qualsiasi contenuto mentale che nonostante al momento non lo sia potrebbe diventare cosciente e dunque presenta una condizione di potenzialità abbastanza fluida.
Di Francesco, Marraffa e Paternoster (2016) evidenziano che molti degli studiosi contemporanei partono dall’evidenza indiscutibile che molti processi mentali identificabili e connessi alla cognizione risultano essere per la maggior parte al di fuori della coscienza. Ad esempio, rispetto al linguaggio sono presenti molteplici regole grammaticali di cui mentre parliamo non sappiamo proprio niente; o altrimenti rispetto alla visione esistono dei moduli computazionali che partono dall’organo percettivo per arrivare al cervello. Tuttavia, nel seguire questa traccia questi studiosi sembrano riscontrare delle problematiche significative che appaiono di difficile risoluzione.
Infatti, per i ricercatori che studiano la mente umana seguendo dei modelli computazionali essa viene rappresentata da delle macchine organizzate che seguono delle sequenze di operazioni di base. Non è chiaro tuttavia cosa o chi definisce quali siano le operazioni di base e i confini dati ad esse (i mattoni del muro)[2]. Inoltre, questo modo di procedere implica il fatto che ci sia una sorta di linearità o per lo meno una organizzazione di sequenze temporali, un partire da un punto 0 per procedere in successione.
Questo approccio epistemologico – perché è di questo che si tratta – implica dunque il fatto che questi sistemi siano in qualche modo isolati dagli ambienti circostanti, metafisici e logici a volte scambiati per realtà, e prevedano una temporalità chiusa a loro specifica, significata e non significante.
Questi ricercatori ritengono che questi processi computazionali nonostante non siano coscienti manifestano tutta la loro importanza e rilevanza nello studio della mente. L’oggetto di studio della psicologia cognitiva e delle scienze cognitive consiste proprio nel portare alla luce questi meccanismi sottostanti.
In questo senso, la coscienza e i fenomeni ad essa associati sono dei piccoli frammenti di un costante flusso di funzionamento mentale (Di Francesco, Marraffa, Paternoster, 2016).
Si rimanda al lettore al testo citato, in questa sede l’interesse centrale è relativo alle numerose questioni che un approccio allo studio dell’inconscio impostato in questo modo comporta.
L’inconscio cognitivo sarebbe dunque formato da questi processi e meccanismi che vengono studiati e rilevati, che rappresentano un funzionamento costante e in parallelo di cui tuttavia non siamo coscienti se non tramite proprio questi studi e ricerche.
Nel concepire l’inconscio in questo modo emergono diverse questioni significative, dove a mio parere la principale risulta essere quella di identificare e mettere dei confini a ciò di cui non siamo consapevoli.
In base a quale criterio emergono questi limiti?
Una riflessione impostata in questo modo infatti ci apre un abisso di difficile risoluzione e riapre dei problemi di antropocentrismo rispetto a cui l’uomo si affligge da diverso tempo e che tuttavia periodicamente ritornano alla ribalta.
La centralità della coscienza sembra infatti definire il resto – il non-cosciente per l’appunto – per il fatto che questo resto si poggia sulla coscienza stessa per una sua definizione, questo modo ricorsivo di impostare il problema potrebbe essere figlio e schiavo della cultura positivista che se presa in termini totalizzanti e non come una parte del tutto sembra far più danni alla ricerca scientifica che altro.
Inoltre, come accennato in precedenza, un’altra questione evidente si riferisce a cosa bisogna considerare mentale e cosa invece non è da considerare tale.
Se infatti si fa rientrare il non cosciente all’interno della riflessione sull’inconscio, la tendenza all’infinito della significazione potrebbe far rientrare in questo insieme anche un sassolino infondo al mare.
Paradossalmente nel tentativo di dare una forma e dei limiti all’inconscio e renderlo in questo modo definibile e studiabile una volta per tutte, si apre un abisso senza una forma precisa che è a sua volta da escludere a priori e da tenere fuori dalla ricerca scientifica. Il tentativo infatti è quello di standardizzare e di dare una forma e respingere invece le eccezioni e le deformazioni.
Penso che in questa ottica si possa leggere un altro discorso che spesso si ritrova in questi autori – paradossalmente critica che tra l’altro viene posta da chi si occupa di cognitivismo alla ricerca freudiana e psicoanalitica – mi riferisco alla differenza tra il cosiddetto common sense in contrapposizione al linguaggio scientifico; e la psicologia folk o popolare in contrapposizione alla psicologia scientifica.
Se si ritiene infatti che l’inconscio computazionale sia composto da tutti i processi mentali sottostanti ad esempio alla percezione visuale di un oggetto nello spazio, esso viene definito dai ricercatori stessi che si occupano dell’argomento; cosicché il linguaggio scientifico è la cosa a cui si riferisce, e la parola del ricercatore è creatrice della realtà stessa studiata.
Ancora una volta mi sembra che emerga la natura umana che tende a mettersi al centro dell’universo e a rappresentarsi come un punto di riferimento a partire dal quale il resto viene definito e spiegato. Inoltre, un pensiero di questo tipo è rischioso anche in relazione alle possibili scoperte scientifiche future che getteranno nuova luce su alcuni fenomeni di cui attualmente non sappiamo niente o solo qualcosa.
Questo approccio alla scienza è rischioso quando si tratta di psicologia per la chiusura al nuovo che implicitamente comporta, a ciò che diverge dalle proprie concezioni e una chiusura all’altro. Tematiche centrali nel periodo storico in cui viviamo non solo per la ricerca scientifica.
Veramente il linguaggio scientifico applicato alla psicologia mira a voler dire qualcosa di eterno e una volta per tutte come una divinità-giudice che prepara a calare il suo martello? Non c’è forse il rischio che questa divinità sia in realtà il brigante Damaste?
E se questo approccio alla scienza è pericoloso nei contesti di studio e ricerca, figuriamoci in quello clinico e psicoterapeutico.
In questa sede non ritengo abbia senso affrontare il fatto che alcuni ricercatori chiamano inconscio i processi fisiologici e biologici del cervello sottostanti ai processi mentali, molte delle problematiche sembrano essere comunque simili. Non sorprende tuttavia che una concezione dell’inconscio/non conscio/subconscio impostata in questo modo abbia bisogno di ricercare uno statuto di scientificità nelle neuroscienze, infatti potrebbe essere una risposta al quesito “chi decide?”.
- L’inconscio per la psicologia dinamica e le relazioni oggettuali.
Lo studio dell’inconscio per chi si occupa della psicologia dinamica, negli ultimi anni ha avuto l’occasione di confrontarsi con i contributi che numerosi autori hanno dato. In ambito universitario infatti, è uno degli orientamenti maggiormente studiati.
La psicologia dinamica ha fatto propria la scoperta dell’inconscio freudiano e ha cercato di integrare diversi contributi successivi[3] allo studio della psiche, inseguendo l’intenzione di una revisione e un aggiornamento del pensiero psicoanalitico. Questa branca della psicologia ha fatto propri gli studi dell’etologia evoluzionistica integrandola alla ricerca universitaria per cercare di comprendere e studiare la mente umana e l’inconscio (Eagle 2012). Le scoperte e gli studi così impostati, hanno permesso inoltre alle università di far proprio uno statuto scientifico contemporaneo che possa avvalersi della psicometria statistica.
Questo approccio allo studio dei processi e dei contenuti inconsci fa riferimento alle rappresentazioni che abbiamo di noi stessi, il Self – che nella traduzione italiana presenta delle problematiche specifiche di traduzione (Cfr Jervis 1997) -, dell’oggetto e della relazione che si crea dall’interazione reciproca. Questo modo di studiare la mente fa riferimento a delle credenze, aspettative e affetti osservabili e interpretabili inserite all’interno delle relazioni oggettuali.
Una costante di queste riflessioni e ricerche sembra essere l’assunto di base che le relazioni oggettuali vengono plasmate dalle precoci interazioni coi caregiver “reali”. Tra i diversi autori che hanno studiato queste dinamiche ricordiamo ad esempio Mitchell e le Configurazioni Relazionali (1988); le Relazioni Oggettuali Interiorizzate di Fairbairn (1952); le Rappresentazioni Interattive Generalizzate (RIG) di Stern (1985); i Modelli Operativi Interni di Bowlby (MOI) (1973) e i Pattern di Attaccamento di Ainsworth (1978).
In questo contesto non ci interessa affrontare la complessità di queste teorie, e nemmeno le loro differenze o somiglianze.
Quello che invece mi sembra interessante e che vorrei riprendere è l’idea di inconscio che sembra trasparire da molte di queste ed evidenziare circa alcune conseguenze che sembrano emergere.
Diversi autori tra quelli citati ritengono infatti che sulla base di interazioni precoci ripetute con i propri genitori, a volte descritte come delle vere e proprie “danze” relazionali, il bambino si forma delle rappresentazioni inconsce (a volte definite anche implicite, termine mutuato dalla psicologia cognitiva) costituite da “astrazioni o generalizzazioni di interazioni prototipiche” (Eagle 2012). Queste strutture interattive sono inoltre l’espressione del contesto delle interazioni sociali all’interno delle quali sono inserite. Gli autori tra questi che sembrano essere più vicini al pensiero di Freud ritengono che queste ultime siano plasmate dai desideri inconsci dell’individuo, altri invece le prendono nella loro concretezza.
Queste rappresentazioni rispecchiano le variabili situazionali e funzionano da modello standard o norma da cui ci muoviamo per creare e ricercare dei significati nuovi, oltre al fatto che ci indicano cosa dobbiamo aspettarci. Queste strutture relazionali essendo state acquisite precocemente e al di fuori del linguaggio vengono definite dagli autori contemporanei inconsce o implicite.
Inoltre, essendo queste rappresentazioni descritte come se fossero delle memorie procedurali – come andare in bicicletta ad esempio o allacciarsi le scarpe – esse risultano difficili da narrare e da modificare nonostante l’impegno realizzato.
Tuttavia, queste modalità relazionali connesse alle credenze, alle motivazioni e agli affetti connessi sono identificabili e conoscibili tramite il setting psicoterapeutico e l’interazione sia esplicita che implicita tra paziente e terapeuta.
In altri termini il passaggio del dato psichico tra il livello inconscio e la consapevolezza per questi autori sembra essere abbastanza fluido e i due sistemi presentano delle logiche tra loro paragonabili.
Per questo motivo vorrei proporre l’ipotesi che queste procedure relazionali implicite, nei termini metapsicologici freudiani, in realtà appartengono al sistema preconscio. Effettivamente negli scritti e nelle ricerche contemporanee è raro riscontrare questo sistema psichico.
Per la metapsicologia freudiana infatti, gli elementi passibili di diventare consci presentano la qualità, la descrizione di essere inconsci ma non appartengono al sistema Inc. e possiedono dunque la qualità fluida e potenziale di diventare consapevoli senza la necessità di qualche tipo di trasformazione.
Freud infatti evidenzia che i limiti tra i sistemi sono delineati dalla censura, con la differenza che tra il sistema Inc. e Prec.(C.) essa è più netta che invece tra il sistema Prec. e il C. (Freud 1915).
Inoltre, ciò che differenzia il preconscio e l’inconscio riguarda una differenza potenziale in termini di forme di significato.
Le rappresentazioni di interazioni Sé-oggetto sembrano presentare delle forme in qualche modo precostituite e stabili, a volte identificate in schemi comportamentali intersoggettivi biologicamente ed evoluzionisticamente determinati, come ad esempio rispetto ai Sistemi Motivazionali Interpersonali (Liotti 1994).
Anche in questo caso questo tipo di forma cristallizzata sembra situarsi al di fuori delle leggi e delle dinamiche del processo primario e situarsi invece in un sistema in cui le forze hanno già ottenuto in termini rappresentazionali delle forme relazionali in qualche modo già definite.
Si avrebbe forse qualche vantaggio a considerare questi dati psichici caratterizzati dall’avere un formalismo identificabile e potenzialmente consapevole, come se fossero l’inconscio? Non c’è invece il rischio di dimenticare e annullare una parte importante dell’inconscio freudiano e con essa parte della ricchezza ad esso associato?
Non sarà forse che in questo modo, occupandoci di un dato psichico in qualche modo già potenzialmente formato, esso diventa meno “scomodo” da tenere in considerazione, come ad esempio suggerisce Cimino (2020)? Non rischiamo inoltre di annullare la poíēsis dell’inconscio e in questo modo anche il suo valore di cura?
A mio modo di vedere per questo motivo Freud evidenzia che è necessario tenere a mente i diversi punti di vista metapsicologici come “coronamento della ricerca psicoanalitica (…) sicché non possiamo sfuggire all’ambiguità di usare le parole «conscio» e «inconscio» a volte in senso descrittivo e a volte in senso sistematico.” (Freud 1915).
Ho l’impressione inoltre che sia rischioso cercare di bonificare la parte perturbante dell’inconscio e delle Vorstellungsrepräsentanz – rappresentante più prossimo della pulsione – per diversi motivi. Innanzitutto, per il fatto che presenta un potenziale creativo di significati che tende all’infinito con il valore di cura soggettiva ad esso connesso. Inoltre, la clinica e i fatti sociali contemporanei (vedi ad esempio le guerre che si continuano a fare) evidenziano sia che l’inconscio spinge in maniera coatta e continuerà a farlo, sia che la soggettività umana è di difficile riduzione a qualsiasi teoria. Possiamo indubbiamente rinunciare a quella parte più oscura e imprevedibile dell’inconscio e cercare di strutturare teoricamente le cose per far sì che qualche conteggio possa tornare, questo approccio avrebbe indubbiamente il vantaggio di essere rassicurante per il fatto che come scrive Recalcati (2020) parlando dei contributi di Fachinelli alla psicoanalisi e allo studio dell’inconscio: “l’aperto angoscia, il chiuso rassicura; l’eccesso sgomenta, la normalizzazione acquieta; il conformismo pacifica, l’estasi perturba”.
Conclusione: una differenza di temporalità tra l’inconscio e il preconscio.
Vorrei concludere questo scritto proponendo un’ipotesi di differenza tra l’inconscio e il preconscio e che riguarda la temporalità intesa come ciò che dà forma. Se consideriamo infatti l’inconscio freudiano una apertura a dei significati nuovi, esso va pensato nei termini di una doppia negazione del tipo “non so di non sapere” e non nei termini di un’unica negazione “io so di non sapere”. In effetti se ci pensiamo, nel passaggio da due negazioni ad un’unica negazione qualcosa tende a cambiare nel dato temporale. Se in precedenza la condensazione e la fluidità delle cariche era la legge vigente, nel passaggio di trasformazione dell’informazione in un linguaggio i concetti cominciano ad avere una linearità temporale che va da un prima a dopo: serve del tempo per dire delle cose. Questo passaggio/processo, questa freccia temporale che comincia ad avere un verso, caratterizza la temporalità del preconscio e in questo modo possiamo logicamente pensare al fatto che se un punto viene ripetuto può diventare una linea, una linea ripetuta un solido e così via.
Da questo punto di vista i modelli computazionali escludono una temporalità diversa da quella di moduli che si susseguono uno dopo l’altro e che magari possono tornare indietro ed essere ricorrenti e ricorsivi, ma il processamento delle informazioni rimane a delle “n” dimensioni (spesso una sola a dir la verità) prestabilite.
Inoltre, la linearità e l’esserci di una dimensione temporale, che presenta un minino di organizzazione – il prima e il dopo che si susseguono – presuppone un momento 0, un punto di partenza. La realtà dei fatti tuttavia è che non è possibile non percepire nulla, qualcosa del genere non è nemmeno pensabile se non al prezzo di forzare la mano. Anche durante la notte, e questa è stata un’ulteriore scoperta geniale di Freud, il nostro sistema percettivo è “occupato” da un dato che presenta una natura sensoriale. Probabilmente, sempre in termini esclusivamente logici, un momento zero è concepibile (una sorta di Big Bang della mente) solo se si riuscisse a pensare nei termini di una doppia negazione per l’appunto. Parziale utopia per la complessità che questo tipo di pensiero comporta, e in effetti, già la negazione ed i fenomeni ad essa associati (il sogno, i fantasmi, la coazione a ripetere) implicano non poche difficoltà (Cfr Green 1983; 1996; Baldassarro 2018).
Note :
[1] Altro concetto che crea non poche difficoltà, non per altro il punto di vista economico della teoria freudiana è stato aspramente criticato proprio per le difficoltà di definire “energia”, nonostante l’indiscutibile ricchezza esplicativa di questo vertice di osservazione.
[2] Sembra essere un discorso simile a quello avvenuto in passato per definire quale fosse il più piccolo elemento della materia (molecola, atomo, elettrone o altre particelle ecc.), lotta ancora in atto e ci stupiremmo se si concludesse una volta per tutte.
[3] Sarebbe scorretto tuttavia come spesso viene fatto, tracciare una linea netta tra la psicoanalisi freudiana o classica e la psicoanalisi portata avanti dai primi cosiddetti relazionali. Ad esempio, il pensiero dei Balint (1991) sembra essere più vicino al pensiero di Freud. Per questi autori la ricerca della relazione si avvicina maggiormente alla pulsione. Lo stesso non si può dire invece per altri autori.
Bibliografia:
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Di Francesco M., Marraffa M., Paternoster A., The Self and its Defences – From Psychodynamics to Cognitive Science, Palgrave Macmillan, 1916.
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Recalcati M. (2020), La critica della ragione psicanalitica: tre saggi su Elvio Fachinelli. Ponte alle Grazie.
Stern D. N. (1985), Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, 1987.
Data:
22/09/2021
Alcune informazioni sull'autore:
Leonardo Provini, è psicologo, psicoterapeuta e dottorando di ricerca presso la Sapienza Università di Roma. Co-editor della Sezione Italiana dell’European Journal of Psychoanalysis.