La contemporaneità dell’inconscio: interviste con John Gale, Cristiana Cimino, Sergio Benvenuto e Vittorio Lingiardi
Insieme alla Sapienza Università di Roma e alla sezione italiana dell’European Journal of Psychoanalysis abbiamo condotto una ricerca teorica e concettuale sull’inconscio e sulla sua importanza per la teoria e la pratica clinica.
Infatti, nei campi del sapere della psicologia, della psicoterapia e della psicoanalisi sono individuabili diverse concettualizzazioni dell’inconscio che spesso differiscono tra loro. Per questo motivo, abbiamo posto a diversi studiosi delle domande aperte per capire meglio cosa significhi e cosa sia per loro l’inconscio.
Queste sono le prime risposte che abbiamo raccolto.
John Gale:
- Può descrivere l’idea di inconscio che più si avvicina alla sua concezione teorica?
Nel pensare all’inconscio, Freud ha fatto una ri-mappatura di vecchi terreni. Tuttavia, era notoriamente disattento a ciò che si intende con il termine di “conscio” e le sue formulazioni sono state spesso interpretate in termini riduzionistici. Lacan ha visto una strada per andare avanti, notando che Freud stava svolgendo il suo lavoro all’interno della cornice del linguaggio. Sia nel parlare (nella clinica), che nello scrivere. E’ arrivato a comprendere lo stesso inconscio a livello linguistico, descrivendolo come un discorso. Ritengo che ciò sia essenzialmente corretto. Definirei l’idea dell’inconscio come una metafora necessariamente inadeguata ma a sua volta importante che cerca di cogliere qualcosa di fondamentale per quanto riguarda l’ambiguità dell’uomo: la sua complessità e le sue incongruenze. In altre parole, si occupa principalmente della tensione inerente all’essere-nel-mondo, per usare l’idioma di Heidegger, in cui Esteriorità e Theōria (interiorità) sono contemporaneamente presenti. Come tale, si occupa di auto-comprensione e, di fatto, con il modo in cui veniamo a capire in generale (ovvero l’epistemologia). In questo contesto, uso il termine (inconscio) piuttosto liberamente in una serie di modi sovrapposti per descrivere: (1) Ciò che è pienamente presente nel modo di vivere del soggetto, e dove pensiero e sentimenti sono ancora nascosti dalla sua attuale comprensione di sé. (2) Ogni esperienza dimenticata, nascosta, non integrata o esclusa (repressa). Tuttavia, qui è importante dire che la nozione di repressione è di per sé un modo di dire, dato che l’inconscio non è in senso letterale un ‘luogo’ in cui esperienze, idee o rappresentazioni possono essere inviati. (3) Ciò che non è esplicitato nel discorso. (4) La memoria del soggetto, non in senso di magazzino ma nel senso dinamico in cui Agostino descrive la memoria come una radicale riflessività che caratterizza l’interiorità. (5) Un pensare storicamente, nel senso che la storia del soggetto si svolge sempre entro i limiti e le restrizioni del mondo in cui si trova e in relazione a coloro con cui la sua vita è inestricabilmente intrecciata. Questo significa che tutto ciò è radicato nell’ “altro”. In altre parole, l’assenza che la psicoanalisi esplora è inevitabilmente legata agli eventi storici e ad altre persone. La storia non è solamente ciò che è successo, ma come il soggetto capisce quel che è successo, ovvero il suo modo di guardare indietro come interpretazione del passato. Il significato del passato non può mai essere stabile o finito. (6) Come principio che rivela la singolarità del soggetto (ecceità) che non può essere combinata né con l’avere né con l’essere un Ego (come nel modello strutturale di Freud) e non può essere esaurita. (7) Come modo di descrivere un’alterità al centro della sfera dell’interiorità. - D’altra parte, qual è la concezione teorica dell’inconscio che più se ne allontana? E perché?
La concezione teorica dell’inconscio che è più lontana dal mio punto di vista sarebbe quella che oggettiva e reifica l’inconscio considerando: (1) Che l’inconscio sia un’interiorità prestabilita o auto-chiusa, oppure una sorta di natura umana interiore. (2) Che si tratta di una ‘cosa’ appartenente ad un individuo, all’interno del quale operano impulsi libidici compulsivi. (3) Che è il sé biologico di un individuo o un insieme di istinti. Allineata a questa idea vi è quella che vede la repressione come un processo semi-idraulico all’interno di una macchina pseudo-materiale chiamata mente o psiche. Alla base di questi malintesi vi è anche quello che vede il comportamento come un’apparenza esteriore di una realtà interiore; un segno di qualcos’altro. Questi semplici modi di comprendere il quadro topografico di Freud mi sembrano inadeguati e inaccettabilmente meccanicistici e riduttivi. - Quale pensa sia il rapporto tra i processi inconsci o l’inconscio tout court e il conscio? Può descriverlo?
Penso che questa sia una domanda molto complessa. Ma direi che il conscio è una coscienza di qualcosa. In questo senso, è una sorta di conoscenza. Il parlare dell’inconscio cade facilmente preda di un dualismo artificiale o di dicotomie semplicistiche tra soggetto e oggetto, interno ed esterno, profondità e superficie, pratica e contemplazione (Theōria). Piuttosto che essere distinti, il conscio e l’inconscio devono, a mio parere, essere visti come punti di vista diversi del soggetto, nel suo complesso; due modi in cui tessiamo il nostro pensiero. Freud ha descritto il particolare modo di pensare di ciò che è inconscio (processi inconsci o processi primari) in termini di spostamento (una cosa che sta per un altro) e condensazione (due immagini che si combinano per formare un’immagine composita). Queste distorsioni (Lacan, seguendo Roman Jakobson, li descrisse in termini di metafora e metonimia) si riferiscono al modo, in cui le cose, soprattutto nei sogni, si fondono, si sostituiscono e non si lasciano governare dalle categorie di tempo e luogo. D’altra parte vi è il pensiero cosciente (processi coscienti o processi secondari) che Freud vedeva come il procedere del pensiero logico e razionale. Parlare dell’inconscio o dell’inesprimibile è pur sempre parlare. Il non esplicito è sempre resistente all’interpretazione, ma poiché la parola è il mezzo della psicoanalisi, possiamo percepire qualcosa di ciò che non viene detto perché il soggetto dice sempre più di quanto intende nel modo e nei modelli ripetitivi che ritornano nel suo discorso e nel suo modo di vivere, e nel sentimento di esclusione, nei sintomi, negli errori e nelle battute. Vale a dire, il discorso e il comportamento del soggetto hanno un significato ambiguo e non sempre immediatamente evidente, ma è articolato ed è quindi presente e disponibile per l’interpretazione. - Negli ultimi anni della sua carriera ha modificato e/o integrato la sua idea di inconscio? E attraverso quali contributi specifici?
Penso di aver gradualmente cambiato il mio punto di vista attraverso la lettura del background filosofico sulla coscienza (Husserl, Heidegger, Wittgenstein in particolare) e la letteratura psicoanalitica sull’inconscio (Freud, Klein, Ricoeur, Lacan). Ma anche attraverso la mia vita e la mia riflessione su di essa, e attraverso la mia lettura in generale, tra cui ritengo importante leggere romanzi e libri di argomenti generali e di filosofia (de Certeau, Foucault, Derrida). In termini di psicoanalisi, mi ha molto interessato Lacan, anche se non posso pretendere di capire pienamente il suo pensiero. Ma sono diventato più consapevole, credo, del fatto che il pensiero psicoanalitico rivela ciò che è incerto, ambiguo e irrisolto nella vita del soggetto. - Pensando da una prospettiva clinica, cosa significa avere a che fare con l’inconscio del paziente nel processo psicoterapeutico?
Penso che significhi essere consapevoli di una certa assenza. Non tanto quanto qualcosa che non c’è. Ma come qualcosa che sta lì, nel discorso, e nel modo in cui il soggetto vive, le sue scelte di vita, ma anche le cose che gli accadono che non sembra scegliere. O non lo fa completamente. Insomma, modelli particolarmente ripetitivi. L’assenza, cioè, di una parte della vita del soggetto; le cose di sé stesso che esclude inconsapevolmente. Tutte le cose che sono accadute o che sono state pensate e che ha dimenticato. Questa esclusione lo collega al desiderio. - E infine, pensa che ci siano alcune concezioni dell’inconscio che, anche se non condivide, sono comunque utili dal punto di vista clinico? E perché?
Sì, credo che qualsiasi nozione dell’inconscio sia probabilmente meglio di niente. Perché senza una certa comprensione dell’inconscio, l’analista dovrebbe considerare il soggetto come sempre genuino (se veritiero o ingannevole), piuttosto che radicalmente in contrasto con il modo in cui si mostrano (l’ego). Senza la consapevolezza che il soggetto è più di un ego, non c’è spazio per il desiderio. Pertanto qualsiasi formulazione dell’inconscio, per quanto possa sembrarmi letterale, riduttiva o meccanicistica, permette all’analista di aggrapparsi alle incongruenze del soggetto.
Cristiana Cimino
- Può descrivere l’idea di inconscio che più si avvicina alla sua concezione teorica?
La mia idea dell’inconscio è molto vicina all’idea freudiana: quella di un sistema con un proprio linguaggio che deve essere decodificato nel contesto del trattamento e attraverso il transfert. Trovo essenziale, anche per la clinica, la suddivisione lacaniana dell’inconscio in Simbolico, Immaginario e Reale. Su quest’ultimo trovo interessante l’idea più recente di memorie procedurali. - D’altra parte, qual è la concezione teorica dell’inconscio che più se ne allontana? E perché?
Direi che a priori esiste un contenitore e/o contenitore di caos inconoscibile. Perché l’inconscio è sempre in movimento e in stretta relazione con il lavoro di analisi. E perché ha un codice che lo rende affidabile e “conoscibile”. - Quale pensa sia il rapporto tra i processi inconsci o l’inconscio tout court e il conscio? Può descriverlo?
Non credo in un’autonomia dell’ego “senza conflitti”. Credo che il desiderio (il desiderio Freudiano) sia il motore dell’inconscio e che raggiunga sempre il suo oggetto perché la pulsione vuole emergere, nonostante le difese. Ritengo che i percorsi del desiderio, nel sistema cosciente, siano solo più lunghi e complicati della loro origine inconscia, da cui deriva l’origine del sintomo. Ritengo pertanto che i due sistemi siano strettamente correlati, piuttosto che uno derivato dall’altro. - Negli ultimi anni della sua carriera ha modificato e/o integrato la sua idea di inconscio? E attraverso quali contributi specifici?
La mia idea dell’inconscio rimane molto simile nel tempo anche se, come ho già detto, trovo interessante il tema della memoria procedurale rispetto alla descrizione dell’inconscio reale (in termini lacaniani). - Pensando da una prospettiva clinica, cosa significa avere a che fare con l’inconscio del paziente nel processo psicoterapeutico?
La scommessa per il trattamento psicoanalitico, dal mio punto di vista, è far parlare l’inconscio attraverso le sue formazioni: sogni, vuoti, sintomi e, naturalmente, le libere associazioni del paziente. Tutto questo può accadere solo dopo che un transfert diventi strutturato e tramite l’ascolto dell’analista. - E infine, pensa che ci siano alcune concezioni dell’inconscio che, anche se non condivide, sono comunque utili dal punto di vista clinico? E perché?
Non so se sia rilevante, ma trovo la ricerca congiunta tra psicoanalisi e neuroscienze molto interessante e promettente. Il modello a cui mi riferisco è quello di Ansermet-Magistretti.
Sergio Benvenuto
- Può descrivere l’idea di inconscio che più si avvicina alla sua concezione teorica?
La mia formazione è avvenuta essenzialmente attraverso la nozione freudiana di inconscio, sebbene ampliata e adattata ad alcuni successivi contributi psicoanalitici. L’idea che diversi processi psichici siano inconsci è ampiamente accettata da quasi tutte le cosiddette scienze cognitive di oggi; “inconscio” come attributo è qualcosa di banale. Diverso è invece il caso di parlare di “inconscio” come sostantivo, come qualcosa di descrivibile in sé.
L’inconscio freudiano è un inconscio nominale e sostanziale. A sua volta strutturato nella cosiddetta seconda topica, la differenza tra Ego (Ich), Questo (Es) e Oltre-l’ego (Über-ich). L’inconscio è per Freud un’area di tensione tra queste tre diverse istanze, così come tra pulsioni di vita e pulsioni di morte.
In generale, definirei inconscio tutto ciò che non si riesce a dire. E ciò che non riusciamo a dire può essere il punto cruciale della nostra esistenza. Dopo un po’, in ogni analisi emerge il problema centrale del soggetto, di cui esso non sa nulla se non attraverso il sintomo. Il sintomo è un non poter-fare-o-essere o un non poter cessare di fare-o-essere che si manifesta come inibizione o sintomo o angoscia, o come inibizione e sintomo e angoscia. Parto dal presupposto che attraverso il sintomo si esprima qualcosa di inconscio che, secondo Freud, è essenzialmente dell’ordine del die Lust, del desiderio e godimento. (Die Lust è stato tradotto come “piacere”, ma manca l’ambiguità del termine tedesco, che significa sia desiderio che piacere).
A differenza di Freud, però, non considero l’inconscio che ci interessa in analisi solo come una modalità di desiderio e di godimento perché, come Freud stesso ha dovuto ammettere, c’è un al di là del desiderio e del godimento.
In modo molto generale, direi che i problemi che i soggetti portano in analisi sono sempre legati a una difficoltà a separarsi dai modi di essere infantili. L’inconscio è infantile. Ogni nevrosi o psicosi deriva dall’essere intrappolati in modi arcaici di pensare, desiderare e volere. L’arcaico è l’arché dell’essere umano (“il bambino è il padre dell’uomo”, come diceva Wordsworth). Ogni essere che soffre e cerca un Altro che possa dirgli qualcosa di utile èdipendente dai modi infantili di essere nel mondo. In questo senso, l’analisi rende possibile l’emancipazione, che è sempre anche uno svezzamento. In questa prospettiva, l’inconscio è la ripetizione interminabile di modalità infantili di amore e di godimento. L’inconscio è la necessità di ripetere sempre le stesse cose, anche gli stessi errori.
Anche il continuare a credere in idee che sono state smentite dalla realtà (penso a diverse ideologie politichedominanti tra noi) è un effetto inconscio: è l’inerzia di continuare a vedere le cose secondo la stessa narrazione delirante. - D’altra parte, qual è la concezione teorica dell’inconscio che più se ne allontana? E perché?
Francamente non do molta importanza alle teorie psicoanalitiche, con poche eccezioni (Freud, Winnicott, Lacan…). Ciò che mi interessa di una teoria è il suo essere una traccia, un sintomo, di una certa pratica analitica, che implica sempre certe premesse etiche prima ancora che teoriche. Ciò che mi separa da certe teorie non è il contenuto cognitivo, dato che non ho gli strumenti per verificarle o falsificarle, ma il fatto che esse incarnino, attraverso quella che chiamerei un’alienazione teorica, un certo modo di “trattare” con gli esseri umani.
Per esempio, sono molto distante dalla visione e dalla pratica di Bion, per quanto apprezzi il suo ingegno. Non perché quello che dice su certi processi psichici non sia vero, ma perché non mi piace il suo modo di lavorare. Per esempio, il fatto di dover rinunciare alla memoria e al desiderio: credo invece che l’analista debba essere in parte la memoria dell’analizzando e debba avere il desiderio di analizzare. Altrimenti, come potrebbe l’analizzando desiderare un’analisi? Come teoria, la trasformazione di elementi beta in elementi alfa attraverso la rêverie è potenzialmente interessante, ma in pratica si riduce al fatto che l’analista trova le proprie parole per conferire significato e ordine alla confusione soggettiva dell’altro. Come analista, invece, non mi interessa affatto nominare ciò che il soggetto non può nominare o pensare: mi interessa che sia il soggetto stesso a trovare il modo di dire ciò che prima non poteva dire. Ciò che mi sembra importante è che sia finalmente in grado di raccontare la propria storia in un modo nuovo.
Allo stesso modo, posso trovare interessanti le descrizioni visionarie di Jung su alcuni processi psichici, ma il mio modo di lavorare non potrebbe mai essere quello dell’analista junghiano. Un film dei Monty Python (Il senso della vita) lo illustra in modo molto efficace: un uomo va in giro cercando di convincere diverse persone a vendergli il loro fegato. All’inizio tutti ovviamente rifiutano, ma poi il tizio descrive la grandezza e la bellezza dell’universo con una narrazione edificante e finisce per dire: “Quanto può essere importante il tuo piccolo fegato rispetto a tutta questa sublimità?”. Di solito l’altro, estasiato, accetta di venderlo.
Morale della favola: Non mi interessa annegare i sintomi dei soggetti nella maestosità di un significato grandioso che li renda episodi di una narrazione cosmica. - Quale pensa sia il rapporto tra i processi inconsci o l’inconscio tout court e il conscio? Può descriverlo?
Anche in questo caso lei usa la parola “conscio” come sostantivo. Diciamo che non sono estremamente interessato alla coscienza. Identifico la coscienza con la linearità del pensiero e del discorso: A, poi B, poi C…. Come nelle relazioni lineari di causa ed effetto. Abbiamo quindi un’immagine “narrativa” del mondo, mentre il mondo reale – anche quello della nostra esperienza – non è lineare. La mente umana è collegata in rete e in una rete non esiste una relazione lineare di causa ed effetto. Rivolgersi all’inconscio significa rivolgersi a processi reticolari ed essenzialmente indeterministici.
È interessante notare che molto spesso gli analizzanti cercano la causa primaria dei loro problemi secondo una logica lineare. “La causa di tutti i miei problemi, o meglio ciò che è da biasimare, è mia madre, che non è stata abbastanza buona con me!”. Personalmente penso che tutte le madri, anche le migliori, siano abbastanza cattive. Anche molti analisti, opportunamente chiamati analisti relazionali, cercano la causa di tutto in una relazione che ritengono lineare, di un soggetto con il padre, la madre, i fratelli… Sia l’analista che l’analizzante si interrogano sulla causa primaria, che di solito è la mamma. Ma nella rete in cui siamo presi fin dall’inizio non c’è una causa primaria, ci sono solo giochi di differenze.
In questo modo, alcuni soggetti danno un’immagine del padre come autorità dispotica e castrante anche se il vero padre era in realtà mite e indulgente. Non c’è una relazione lineare, insomma, tra il padre reale e il padre-padrone al centro della nevrosi ossessiva di un soggetto, ad esempio.
La coscienza è la favola di Cappuccetto Rosso, mentre l’inconscio è la nostra convivenza con i lupi. - Negli ultimi anni della sua carriera ha modificato e/o integrato la sua idea di inconscio? E attraverso quali contributi specifici?
Per me le teorie psicoanalitiche sono interessanti non come teorie della mente, dell’inconscio o delle relazioni intersoggettive, ma come modo di rendere conto coram populo di una certa pratica sociale chiamata psicoanalisi. Ci sono teorie molto interessanti sulla mente umana – per esempio il darwinismo neurale di Gerald Edelmann – ma non hanno mai avuto un’influenza diretta sulla mia pratica. Le teorie neuroscientifiche sono il prodotto di una pratica completamente diversa da quella del trattamento analitico.
A parte la lettura assidua di Freud, Lacan e alcuni altri analisti, la vera influenza mi è venuta dalla filosofia, e in particolare dall’approccio di Wittgenstein. Grazie a lui penso che l’inconscio, che vi interessa tanto in questa ricerca, sia in realtà un certo modo di rapportarsi ai problemi umani. L’inconscio non è “qualcosa”, ma è ciò che emerge quando i problemi umani vengono affrontati da una certa prospettiva, quella psicoanalitica. Possiamo anche dire che l’inconscio come concetto è un prodotto della pratica analitica, non viceversa. Lacan diretta che l’inconscio è un ente après coup.
Un esempio banale: un giovane si lamenta di avere attacchi di panico, nel senso che sente un peso enorme sul petto e forti dolori ai polsi e alle caviglie. Sono sintomi isterici di conversione, ma cosa stanno convertendo? Questi dolori lo fanno pensare a un prigioniero in catene. E infatti sono iniziati quando ha lasciato una delle sue due fidanzate, decidendo di stare con una sola… In catene in una relazione. Questo è il sintomo metaforico che Freud ha individuato nell’isteria.
Ma cos’è allora l’inconscio? È un discorso interpretativo, al quale ha partecipato non meno di me il paziente, che mette in relazione un sintomo somatico con un’esperienza indicibile, quella della relazione incatenante. L’inconscio è il riflesso ontico di questa attività, che ha portato effettivamente all’estinzione del sintomo.
Quindi, l’inconscio non è reale? Io confido nel reale dell’inconscio, ma so che questo è irraggiungibile, che ciò che risalta è la mia attività analitica, che decide di stabilire certe relazioni tra eventi e pensieri presupposti. L’inconscio è quindi qualcosa che sta tra l’invenzione e la scoperta, tra l’effetto di una pratica e la causa delle vicissitudini umane. È il nome che diamo a ciò che noi cartesiani (perché siamo tutti eredi di Descartes) non riusciamo a pensare proprio perché siamo cartesiani: che, come diceva Freud, la psiche è estesa anche se non lo sa. Ovvero, cogito, ergo sum extensus. L’inconscio è ciò che confuta la dicotomia cartesiana in cui siamo costretti a pensare; è il sintomo che mette in crisi il cartesianesimo. In breve, l’inconscio è un’autoconfutazione. - Pensando da una prospettiva clinica, cosa significa avere a che fare con l’inconscio del paziente nel processo psicoterapeutico?
L’inconscio, come ho detto, è un concetto clinico da cima a fondo. Anche se può offrire spunti utili ad altre pratiche o discipline; alla comprensione politica, per esempio. - E infine, pensa che ci siano alcune concezioni dell’inconscio che, anche se non condivide, sono comunque utili dal punto di vista clinico? E perché?
Per quanto ho detto finora, se una concezione è utile nella pratica clinica, non vedo perché non dovrei accettarla a livello teorico. Sarebbe un modo per contraddirmi, anzi per manifestare un conflitto tra due punti di vista.
In un certo senso, la sua domanda presuppone una divisione che non accetto: da una parte la teoria e dall’altra la pratica clinica. Questa divisione tra teoria e pratica, che può entrare in contraddizione, è un corollario della dicotomia cartesiana tra res cogitans e res extensa, che personalmente rifiuto. La teoria è ciò che è concettualmente depositato di una pratica. Una pratica non è quindi l’applicazione di una teoria; una teoria è un’applicazione di una pratica secondo un’esigenza di intelligibilità.
In un certo senso, non sono d’accordo con nessuna concezione dell’inconscio! Ho persino qualche dubbio su quella di Freud. Perciò mi muovo a tentoni, utilizzando tutto ciò su cui posso mettere le mani. Anche se, a differenza di altri analisti che non si occupano di teoria (perché la teoria che gli è stata insegnata è sufficiente per loro), non mi accontento di produrre negli analizzanti cambiamenti che sia io che loro consideriamo positivi, ma mi chiedo anche perché questi cambiamenti siano avvenuti. Non è sufficiente dire, mostrando i muscoli, “ho curato un sacco di persone!”, perché anche psicoterapeuti con tecniche e teorie completamente diverse dalle proprie sono in grado di farlo. Mi chiedo come la mia interferenza nella vita di queste persone abbia prodotto quel particolare cambiamento invece di un altro. Questa è la vera indagine teorica, non le discussioni astratte sui modelli dell’inconscio.
Vittorio Lingiardi
- Può descrivere l’idea di inconscio che più si avvicina alla sua concezione teorica?
Inconscio è ciò che non è accessibile alla coscienza e quindi alla concettualizzazione teorica, visto che per definizione, come già aveva detto Freud, lo si può conoscere solo in modo indiretto, attraverso gli effetti che esercita sulla nostra esperienza consapevole. Tutti i modelli che provano a cogliere la sfuggente sostanza dell’inconscio mi affascinano. Li trovo teoricamente eroici. In questi mesi sono tornato a studiare il fenomeno onirico: guardarlo alla luce dei modelli di inconscio freudiano, kleiniano, junghiano, bioniano è avvincente. Così come è avvincente confrontare le idee psicoanalitiche sul tema (dall’inconscio che nasconde e rivela all’inconscio che racconta e costruisce) con altre prospettive, per esempio neurocognitive. Ben sapendo che l’inconscio della psicoanalisi non è quello delle neuroscienze. Per parlare di inconscio, oggi, non bastano le inquietudini di Füssli, le isteriche della Salpêtrière e gli archetipi di Jung. Occorrono anche l’amigdala e l’informatica, i riflessi automatici e l’elaborazione preconscia delle informazioni. Qualche anno fa Peter Fonagy aveva proposto che la psicoanalisi dovesse rifarsi a un’idea non più motivazionale, ma solo funzionale di inconscio, che è appunto quella, oggi ampiamente accettata, che viene proposta dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive. Ma se vogliamo parlare di inconscio non possiamo fare a meno della Nachträglichkeit freudiana, la risignificazione a posteriori per cui esperienze, impressioni e tracce mnestiche, in particolare ricordi traumatici, vengono rielaborate in funzione di nuove esperienze. Del resto è un biologo, Gerald Edelman, ad aver rivoluzionato la teoria della memoria, affermando che non consiste in una registrazione permanente nel cervello, isomorfa all’esperienza passata, bensì in una riattivazione dinamica contesto-dipendente, una ricategorizzazione del passato in base al presente. E se la memoria non è un semplice archivio, neppure l’inconscio può esserlo.
Credo che oggi possiamo affermare che non esiste “un” inconscio, ma esistono più inconsci, ciascuno corrispondente a un registro di elaborazione delle esperienze che portano eventualmente al loro approdo alla coscienza. Analogamente esistono più coscienze (va aggiunto che la mente, per funzionare, non ha sempre e costantemente bisogno della coscienza). Oggi gli scienziati si interrogano su cosa sia la coscienza, sulla sua funzione nell’ambito dei processi mentali, su cosa rende necessario il passaggio dai processi e contenuti dell’elaborazione inconscia all’esperienza cosciente. Ciò che in questo dibattitto rimane appannaggio e motivo di interesse delle ricerche psicodinamiche (e della psicologia umana) è il ruolo che le vicende emotive, i significati e personali e la storia individuale svolgono nel favorire o intralciare tale elaborazione consapevole. Ritengo tuttavia che solo marginalmente possiamo ancora pensare all’inconscio come alla cantina freudiana dei desideri rimossi o negati (come schematicamente sembrava suggerire il film d’animazione cognitivista Inside out). Piuttosto, mi convince un’idea di mente come “spazio globale di lavoro”, laboratorio di stati mentali, memorie implicite e trasformazioni sensoriali che seguono percorsi di trasformazione anche sulla base di vicende emotive e identitarie che di volta in volta si presentano differenti tra loro. Se lo stereotipo dello psicoanalista investigatore-aruspice che decifra simboli misteriosi appariva già desueto in anni passati, oggi si è pienamente affermata la realtà dell’analista-clinico che, insieme con l’analizzato, costruisce una narrazione dotata di senso per renderci più capaci di vivere (e di convivere con le trappole dell’inconscio, cognitive o dinamiche che siano), partendo anche dall’attualità delle esperienze che si fanno nella relazione. L’idea di inconscio a me oggi più vicina non è quella di una cipolla da sbucciare per arrivare al nucleo psichico del paziente, né un sito archeologico da riportare alla luce. Lo penso più come un laboratorio caleidoscopico, un sistema complesso in cui una serie di elementi, di forma e densità diverse, si riorganizza in strutture con prospettive molteplici dando forma alla nostra vita psichica. L’inconscio non è un luogo, men che meno una struttura, è un insieme di funzioni potenzialmente integrabili tra memoria del passato e del futuro. Scherzando sui modelli potremmo dire che l’inconscio è un concetto del passato al quale dobbiamo dare un futuro, ma per apprezzare quel futuro, dobbiamo attraversare il suo passato per capire cosa conservare e cosa aggiungere. Quindi l’idea a me più vicina è quella che sa dialogare in modo selettivo con tutti i modelli accettando in modo critico la loro molteplicità storicizzata.
Detto questo, se gli scettici contemporanei a Freud ritenevano impossibile che gran parte della vita mentale fosse basata su un organo intangibile, oggi facciamo fatica a credere il contrario. Possiamo anche metterla così: il funzionamento del cervello sarà sempre più complesso della nostra capacità di comprenderlo. - Quale pensa sia il rapporto tra i processi inconsci o l’inconscio tout court e il conscio? Può descriverlo?
Credo di aver in parte già risposto qui sopra. Sono tutte lontane e tutte vicine. Ma se devo entrare nel merito, ribadisco che sento lontana l’idea freudiana originaria di inconscio come deposito del rimosso. A ben guardare fu lo stesso Freud a provare una certa insoddisfazione per questa prima formulazione e ad avvicinarsi all’idea di diverse funzioni dell’inconscio, anche se nella vulgata e in parte nel modo di procedere dei clinici psicoanalitici si è proceduto facendo riferimento a questa idea. E naturalmente non mi convincono neanche certi approcci neurocognitivi semplificati che equiparano l’inconscio all’implicito. Alcuni autori hanno recentemente portato la nostra attenzione sull’idea di «inconscio non rimosso», da intendere come uno stato affettivo, pre-verbale e pre-riflessivo, costituito da memorie precoci registrate nel sistema mente-corpo prima di poter essere qualificate verbalmente e vissute come esperienze propriamente soggettive appartenenti al sé. Parte di questo approccio viene da Gianni Liotti (che ha intergrato intuizioni di Bowlby e poi di Stern). Il concetto di inconscio non rimosso unito alle concezioni recenti sul trauma relazionale (un grande autore di riferimento è Bromberg) può essere utile in clinica per comprendere le sindromi la cui causa, non attribuibile a un conflitto inconscio (tipico delle condizioni nevrotiche), va ricercata nella mancata elaborazione di contenuti emotivi traumatici dissociati: impressioni corporee che, non potendo essere elaborate consapevolmente, fanno irruzione nella coscienza come «cose in sé», fatti non digeriti. Bion direbbe «proto-emozioni». - Negli ultimi anni della sua carriera ha modificato e/o integrato la sua idea di inconscio? E attraverso quali contributi specifici?
Come dicevo, i processi inconsci, pensiamo per esempio al funzionamento dei meccanismi di difesa, operano in modi molteplici e paralleli. Consistono in un funzionamento rapido, automatico e perciò inconsapevole nel quale non è richiesto l’utilizzo di risorse attentive. Questi processi sono implicati in specifiche situazioni in cui gli schemi impliciti di comportamento, motivazione e rappresentazione del soggetto attivano in maniera meccanica delle risposte precedentemente associate a particolari stimoli esterni o interni. Una volta innescati, tali processi vengono contraddistinti da inflessibilità e rigidità in virtù del loro modo di essere involontari. La quantità e il contenuto degli elementi processabili in modo inconscio risulta essere notevolmente superiore rispetto a tutti gli altri processi consapevoli caratterizzati quindi da limitatezza e selettività. I processi consci operano infatti attraverso processi di tipo seriale e controllati. L’utilizzo di tali processi avviene prevalentemente in situazioni in cui il soggetto viene portato all’impiego di specifiche risorse attentive nel tentativo di elaborare risposte coscienti in situazioni tendenzialmente nuove per cui non esistono schemi pregressi appresi. Autori come Stanislav Dehaene si sono concentrati su come avvenga il passaggio dai processi di elaborazione inconscia alle rappresentazioni coscienti, dimostrando che non si tratta di un passaggio automatico ma di un processo selettivo che investe tutta la corteccia, sfrondando informazioni incoerenti, contraddittorie e che non presentano un grado accettabile di uniformità con input della memoria e soprattutto di corrispondenza con gli stimoli provenienti dalla realtà esterna. A questo livello primario dunque l’elaborazione cosciente servirebbe a garantire in chiave adattiva un livello di stabilizzazione e migliore approssimazione possibile delle mappe che ciascuno di noi è chiamato a costruire per interagire con il mondo. Secondo le ricerche contemporanee, inoltre, queste mappe, costruite in una cooperazione fra meccanismi bottom-up e top down, darebbero luogo a quanto letterati e filosofi hanno descritto come flusso di coscienza che, per citare Winiccott, rende conto del nostro senso del continuare ad esistere (going on being). Ora però i neuroscienziati ci dicono pure che esistono delle mappe ancora più grandi e rilevanti che orientano il nostro modo di sentire e rapportarci al mondo. Si tratta delle rappresentazioni più o meno unitarie e coerenti che noi cerchiamo di dare di noi stessi come soggetti della nostra vita. A ciò si aggiunga che nella nostra specie l’evoluzione ha creato la possibilità di creare riferimenti ugualmente ricchi ma stabili della vita mentale degli altri. Direi che per ciascun essere umano la parte principale della vita mentale si svolge in questo costante dialogo, incontro o scontro fra menti. Sta di fatto che quando ci spostiamo al livello di queste rappresentazioni più ampie del sé e dell’altro, sembrano entrare in gioco quei processi che, come ci ha insegnato a vario titolo l’esperienza analitica, costruiscono identità e modelli di relazione sulla base di specifiche valenze affettive e di significato. Un’ultima considerazione riguarda il tema dell’embodied knowledge; la tendenza a costruire significati sulla base delle operazioni corporee che intercorrono nel rapporto con l’ambiente, ha di nuovo posto al centro della nostra attenzione un aspetto cui noi analisti siamo ancora affezionati. Andando oltre le nostre esperienze cliniche, siamo autorizzati a pensare che esistano modi, intimi e incarnati, di codificare la realtà, esterna diversi da quelli più convenzionali del linguaggio verbale che attiene per eccellenza all’ambito della coscienza. La peculiarità di tale tendenza al monitoraggio e all’attenzione volontaria limita in modo elevato la quantità di informazioni analizzabili riducendole a una serie di singoli elementi separati. La separatezza di tali meccanismi, consci e inconsci e le differenze sostanziali nella tipologia di informazioni elaborabili renderebbe il contenuto di essi particolarmente discrepante, rendendo perciò complesso qualsiasi tentativo di traduzione da un linguaggio all’altro. - Pensando da una prospettiva clinica, cosa significa avere a che fare con l’inconscio del paziente nel processo psicoterapeutico?
Avere a che fare con l’inconscio del paziente in ambito terapeutico significa comprendere uno dei modi del suo funzionamento mentale in senso ampio: temi nucleari, affetti, comportamenti, difese, stili relazionali, espressioni somatiche. Cercando di capire in che modo “lavorano” in noi e con noi. In terapia ci sono (almeno) due inconsci: quello del paziente e quello del clinico. Per dirla con Lewis Aron: a meeting of minds. - E infine, pensa che ci siano alcune concezioni dell’inconscio che, anche se non condivide, sono comunque utili dal punto di vista clinico? E perché?
Nonostante le differenze tra i modelli proposti dalle diverse prospettive teoriche, ritengo che ogni approccio serio contiene elementi utili a mettere in evidenza i diversi aspetti del funzionamento psichico e le relative scelte di trattamento. Come ho detto, esistono più inconsci e anche più modi di divenire coscienti dei contenuti dell’inconscio. Se il cervello è uno, gli inconsci possono essere molti, con assetti e funzionamenti che cambiano in relazione al nostro stato psicopatologico. Inconsci nevrotici, borderline, psicotici; inconsci da «narrare» con la psicoanalisi, «smascherare» con il cognitivismo, «fotografare» con le neuroscienze e persino «localizzare» con la neuropsicoanalisi do Solms. C’è persino un «inconscio artificiale», allarmante metafora con cui è stato descritto il web. Allarmante perché se l’inconscio cognitivo si è sviluppato in tutto l’arco evolutivo della specie umana mettendosi al servizio dell’adattamento (pensieri rapidissimi, decisioni intuitive, azioni immediate, emozioni automatiche, anche se a volte ingannevoli), quello artificiale è nato nell’arco di pochi decenni, seguendo le leggi del mercato e della facilitazione comunicativa anziché quelle della selezione naturale.
Data:
01/11/2022
Informazioni sugli autori dei contributi:
John Gale è filosofo e psicoanalista, è presidente dell’International Network of Psychotherapeutic Practice (INPP), direttore dell’ISPS (UK) e del Consortium for Therapeutic Communities. È anche membro del comitato consultivo del programma Community of Communities del Royal College of Psychiatrists. Ex monaco benedettino, ha insegnato filosofia e patristica prima di lasciare il sacerdozio. Nel 1993, con due colleghi, ha fondato la Community Housing and Therapy (CHT), che ha sviluppato un programma di trattamento lacaniano per la psicosi. Per diversi anni ha fatto parte del consiglio di amministrazione del The Homeless Fund e dell’Association of Therapeutic Communities. È stato vicedirettore della rivista Therapeutic Communities per sette anni ed è membro del suo gruppo editoriale internazionale. È inoltre membro del comitato scientifico della rivista Avances en Psicología Latineoamericana e del comitato di revisione del British Journal of Psychotherapy. Ha curato diversi libri e ha pubblicato oltre 25 articoli. Gli interessi di John spaziano tra filosofia, psicoanalisi e spiritualità e i riferimenti principali del suo lavoro includono le nozioni di linguaggio, silenzio, tradizione, assenza, misticismo e follia. I principali riferimenti letterari del suo lavoro sono gli scrittori stoici e neoplatonici, i testi monastici della tarda antichità, le opere di Heidegger, Wittgenstein, Pierre Hadot, Michel Foucault, Michel de Certeau e la teoria psicoanalitica di Jacques Lacan.
Cristiana Cimino è medico, psichiatra e psicoanalista, con formazione freudiana e lacaniana. Esercita a Roma. È membro associato della Società Psicoanalitica Italiana, SPI (IPA). È membro dell’Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi (ISAP). È stata redattrice dell’European Journal of Psychoanalysis. Ha lavorato a lungo sul pensiero dello psicoanalista Elvio Fachinelli. Ha pubblicato diversi testi su riviste specializzate, in varie lingue, tra cui l’inglese. È autrice di Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile (Roma: Manifestolibri, 2015).
Sergio Benvenuto è ricercatore in psicologia e filosofia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) di Roma e psicoanalista. È redattore dell’European Journal of Psychoanalysis e membro dell’Editorial Board di American Imago and Psychoanalytic Discourse (PSYAD). Insegna psicoanalisi presso l’Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e presso l’Esculapio Specializzazione in Psicoterapia di Napoli. È stato o è collaboratore di riviste culturali e scientifiche come Lettre Internationale, L’évolution psychiatrique, DIVISION/Review.
Vittorio Lingiardi, M.D., è psichiatra e psicoanalista. È Professore Ordinario di Psicologia Dinamica e già Direttore del Corso di Specializzazione in Psicologia Clinica presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica, Clinica e della Salute della Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza Università di Roma. È responsabile dell’Hub dei Servizi di Counselling della Sapienza per i professori e il personale amministrativo e Senior Research Fellow della Scuola Superiore di Studi Avanzati (SSAS) della Sapienza. Dal 2020 è presidente della Society for Psychotherapy Research-Italy Area Group (SPR-IAG). I suoi interessi di ricerca comprendono la valutazione diagnostica e il trattamento dei disturbi di personalità, la ricerca sui processi e sui risultati in psicoterapia, l’identità di genere e l’orientamento sessuale. È autore di diversi libri e di numerosi articoli pubblicati sulle principali riviste internazionali di psichiatria, psicoterapia e psicoanalisi. Insieme a Nancy McWilliams ha fatto parte del comitato direttivo del Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM-2; Guilford, 2017), che ha vinto l’American Board & Academy of Psychoanalysis Book Prize. È stato insignito di numerosi premi, tra cui il Roughton Paper Award 2005 dell’American Psychoanalytic Association, il Premio Cesare Musatti 2018 della Società Psicoanalitica Italiana e il Research Award 2020 della Society for Psychoanalysis and Psychoanalytic Psychology dell’American Psychological Association. Tra i suoi ultimi libri: Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo (Einaudi, 2021); Al cinema con lo psicoanalista (Cortina,2020); Io, tu, noi. Vivere con se stessi, l’altro, gli altri (Utet, 2019); Diagnosi e destino (Einaudi, 2018); Mindscapes (Cortina, 2017). È caporedattore della collana “Psichiatria, Neuroscienze, Psicoterapia” per la casa editrice Raffaello Cortina (Milano). Scrive per il supplemento culturale “Domenica” del quotidiano “Il Sole 24 Ore”, per il quotidiano “La Repubblica” e per la rivista “Venerdì di Repubblica” (con una rubrica settimanale di cinema e psicoanalisi intitolata “Psycho”).
Informazioni sugli autori della ricerca:
Riccardo Williams, PhD, è psicologo, Professore di Psicologia Dinamica presso la Facoltà di Medicina e Psicologia Sapienza – Università di Roma; Membro Associato dell’International Psychoanalytic Association; Direttore del Centro per l’Assessment e la Psicoterapia del Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica e Salute; Presidente del corso di laurea magistrale in Psicosessuologia Clinica – Sapienza Università di Roma.
Leonardo Provini è Psicologo e Psicoterapeuta a Roma. Co-editor della sezione italiana dell’European Journal of Psychoanalysis e dottorando presso la Sapienza Università di Roma.
Silvia Monaco è Psicologa e dottoranda presso il la Sapienza Università di Roma.
Massimiliano Pompa è Psicologo e dottorando presso la Sapienza Università di Roma. Co-editor della sezione italiana dell’European Journal of Psychoanalysis.