La psicoanalisi ai tempi dell’epidemia

La figlia di Freud, Sophie, muore di polmonite settica dopo aver contratto l’influenza spagnola.  Il 29 gennaio del 1920, il padre scrive all’amico e collega psicoanalista Sándor Ferenczi: “Strappata via! Nulla da dire”, e a conclusione della lettera aggiunge, “E noi? Mia moglie è molto scossa.  Io penso: La séance continue.  Ma era un po’ troppo in una settimana”.  Qualcuno potrebbe giudicare insensibile e crudele il tono di queste parole di Freud, ma ciò significherebbe non cogliere in esse l’ironia tragica a lui peculiare, fortemente presente nella sua chiusa.  È la stessa della dichiarazione che rilasciò quando gli fu permesso di lasciare l’Austria avendo l’obbligo di dire che i nazisti lo avevano trattato bene: “Raccomando vivamente la Gestapo a tutti”.  E la particolarità del tono è psicanalisi al suo meglio – nulla da dire.  Ne riparliamo alla prossima seduta.  È ora.

 

Cos’è il silenzio durante una pandemia – udire il tutto risuonare in ‘pan’ che è l’anatema lanciato contro il silenzio stesso? Ma da parte mia non potevo dire nulla, come potevo? Questa era una delle ragioni per cui cominciavo ad aver paura all’idea di rivedere i miei pazienti nel seminterrato di Shelter Island, dove mi sono trasferita temporaneamente da New York.  Non volevo aggiungere niente all’epidemia di linguaggio che seguiva tallonandolo il corona virus, riversandosi dalla tv e dai computer nei nostri rifugi.  Niente di tutto questo, io me ne lavo le mani – niente che fosse insipido, rassicurante, desensibilizzante, informativo o violento.  In una lettera ho attaccato i miei colleghi psicoanalisti: pensavo che perlomeno voi non sareste stati i propalatori di certezze o di banalità sulla salute mentale o di vittorie di Pirro, questa è stata la mia accusa – per favore non fate un altro post che pretende di indicare ciò di cui ha bisogno la gente adesso, anche se l’impulso è molto umano-troppo umano.

 

 

Mi rimetto a leggere Franza, il romanzo di Ingeborg Bachmann pubblicato postumo.  “Dolore, strana parola, strana cosa, riferita al corpo nella storia naturale dell’uomo, trasmigrata dal corpo e resa più dirompente nel suo cervello”.

 

Cominciavo a rendermi conto che ciò che mi faceva paura era che avrei dovuto filtrare tutto questo discorso per trovare alla fine il mio paziente.  Che avrei dovuto fare questo per circa otto ore al giorno.  Non mi piace avere i pazienti nelle orecchie con le cuffie – non faccio uso di tecnologie visuali.  È una cosa lacaniana, mi piace ascoltarli essendo due corpi in una stanza.  Mi piace il rituale: il saluto, aprire e chiudere le porte.  Sento la mancanza dei pazienti, anche se ci parlo.  All’idea che ora avrei dovuto seguirli tramite lo stesso dispositivo che già contaminava la mia vita di “parole, parole, parole” (come dice Amleto a Polonio prima di ucciderlo) mi sentivo psicotica.

 

Sembrerà strano sentir dire a una psicoanalista una cosa come questa su ciò che è lo strumento proprio dell’analisi, il linguaggio.  Ma questo io penso uno psicoanalista debba dire o meglio, come è risaputo, non dire – in alcune circostanze.  In una frase sin troppo nota, benché apocrifa, Freud stesso aveva equiparato la psicoanalisi alla peste.  Sembra poco opportuno rievocare una cosa di questo genere proprio ora, l’accoppiata dà un senso di vertigine, tuttavia la psicoanalisi in tempi di pestilenza è proprio il mio interrogativo.

 

 

Mai prima d’ora mi sono così profondamente resa conto dell’importanza di tenere fuori la mia famiglia quando mi metto a lavorare.  La distanza è fondamentale.  Non posso pensare a mio figlio sedicenne nella stanza accanto, annoiato a morte e incavolato nero perché è separato dalla sua ragazza, per colpa mia prima ancora che del virus (questo è il destino di una madre e lo accetto).  E non posso smettere di immaginare nell’altra stanza il mio compagno, e l’eroico tentativo che fa di dare un senso a tutto ciò, cercando anche di capire, visto che al momento non si può far niente, che ne sarà del suo lavoro di produttore cinematografico – anche se, come dicono, Hollywood non muore mai.

 

 

Quando è così vicino sento la sua mancanza.  Se vado a prendere un bicchier d’acqua o una tazza di caffè tra una seduta e l’altra, ai loro salutini devo rispondere solo con un cenno frettoloso così non me li porto giù al piano di sotto – piccoli salti, battiti di mani, altri gesti piuttosto neutri.  Come ho fatto a diventare così incredibilmente dipendente dalla solitudine nella gestione della mia routine? Essere uno psicanalista è un modo molto strano di vivere, o di scegliere di vivere.

 

Molti pazienti mi scrivono delle mail, vogliono sapere se sto bene.  Ho qualche sintomo? L’intimità di queste missive mi sembra espressione non semplicemente di un transfert, ma di una necessità di ridefinire i limiti che proteggono il lavoro dell’analista – Sta bene? Possiamo continuare a vederci? Un momento sorprendente: una paziente che per anni ha detto che voleva morire si dà da fare più di tutti per non correre rischi.  ‘Lei!? Proprio lei ci tiene alla vita?’  Faccio la battuta, affettuosamente.  Ridiamo.

 

 

Un’altra paziente è arrabbiata perché nessuno sembra prendere delle decisioni coerenti.  Questa rabbia produce l’ideale spettrale di una decisione finale, un’unica decisione – aprire le porte, lasciare che tutti vadano per i fatti loro, e vedere cosa succede – con cui ha preso a identificarsi.  Perché mai non affidarsi alla legge della sopravvivenza del più adatto, afferma.  ‘Io sono nella parte alta della curva, quindi considero di poter dire una cosa del genere’, dice.  ‘E chi sta dall’altra parte, di fronte a lei?’, chiedo.  ‘Al loro posto sarei terrorizzata’, risponde.  ‘Una volta tanto lo capisce quanto fa paura alla gente!’, ribatto.  Con aria sorpresa, dice: ‘Questa è la prima volta che capisco veramente quello che lei mi ha sempre detto’.   È vero che è una tipa notevole, risoluta.

 

Ora sto leggendo L’iliade o il poema della forza di Simon Weil – dopo tutto questo parlare in termini di guerra: “La forza annienta tanto impietosamente, quanto impietosamente inebria chiunque la possiede o crede di possederla.   Nessuno la possiede veramente”.

 

 

Passo senza soluzione di continuità da una seduta con una paziente che si è immaginata che non volessi più lavorare con lei – un’ipotesi da parte sua che mi ha quasi portato alle lacrime – alla mia seduta di analisi personale per telefono.  Di solito, quando vado dall’analista dopo il lavoro, esco dallo studio, prendo la metropolitana, rifletto su quello di cui intendo parlare, mi incammino per Third Avenue, a volte bevo un caffè.  Le due cose – io come analista, io con la mia analista – non sono mai state così vicine.  Le dico quanto lo trovi strano.  Le dico anche che sono arrabbiata di come gli analisti stiano oscurando la realtà della morte.  Sento risuonare il familiare “Umh…umh”.

 

 

Le racconto che ho fatto un sogno in cui c’era il suo studio, il che non succede tanto spesso.   So che è il genere di cosa reputata importante, perché anch’io guarda caso faccio l’analista.   Nel sogno dico a un mio amico psicoanalista ‘l’amore è una droga’, e lui mi rimprovera affettuosamente, facendo segno di no, e mi racconta una storia che riguarda il volere un tempo fuori del tempo, un luogo fuori dai luoghi.   Questo paradossalmente è un rifiuto del tempo e del luogo, un’illusione di cui lo psicoanalista deve farsi carico ma comprensibile, dice, in un mondo in cui siamo sempre di corsa, questo mondo così impaziente.

 

 

Poi il sogno si sposta in un hospice nella 28esima strada.   Le persone stanno nelle proprie stanze, e se vogliono fare l’amore con qualcuno prima di morire, accendono una luce, la stessa luce che c’è fuori dello studio della mia analista che indica se è presente (una tradizione analitica vecchio stile del tutto anacronistica), dove c’è un interruttore con cui posso segnalare che sono arrivata.   ‘Bella lunga l’interpretazione dell’analista che lei sogna’, dice la mia analista.   Io sento la frase di Freud, “Strappata via, nulla da dire”.   Penso alla questione dell’amore che fa da sfondo al sogno.   Riporta alla mente così tante occasioni mancate, azioni frustrate, dichiarazioni tardive, desideri insoddisfatti.  “Non succede mai niente al momento giusto”, sbotto.  Ventotto giorni in un ciclo mestruale, il momento giusto, l’amore, la morte.  ‘Il sogno riguarda anche il concepimento, la vita che due persone riescono o non riescono a creare insieme’, dico.

 

Vado e leggo la poesia d’amore di Paul Celan intitolata Corona:

 

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio.

Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca fa profezia.

Il mio occhio scende al sesso dell’amata:
noi ci guardiamo,
noi ci diciamo cose oscure,
noi ci amiamo come papavero e memoria,
noi dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio sanguigno della luna.

Noi stiamo allacciati alla finestra, dalla strada ci guardano:
è tempo che si sappia!
È tempo che la pietra accetti di fiorire,
che l’affanno abbia un cuore che batte.
È tempo che sia tempo.

È tempo.

 

Il finale oggi mi arriva in modo molto diverso.  Ha qualcosa di maniacale – “È tempo che si sappia!” La verità viene profetizzata, l’affanno non è sentirsi un morto vivente, non ci svegliamo dai sogni in preda al panico, ma continuiamo a dormire, a desiderare, a ricordare.  Nel sogno c’è spazio per noi.  Non siamo così indifesi.  Come l’amore, la mania può mutare perdita e depressione come si muta la pelle, almeno per un po’.

 

Mi sveglio e leggo del Brooklyn Hospital, mi blocco sulla storia di un paziente che in mancanza di tampone ha dovuto sputare in un contenitore per l’esame delle urine, che il Quest Diagnostics non voleva accettare.  La mia prima paziente stamattina ha una bambina ricoverata al Neonatal Intensive Care Unit.  Pur essendo spaventata, si è resa conto che è una fortuna che sia nata in anticipo e non tra due settimane, quando le cose saranno molto peggiorate.  Il suo compagno era presente alla nascita, è stato al NICU con la bambina fino a ieri, quando le regole sono cambiate per un po’ per ridurre il rischio di esposizione al contagio.

 

Mi racconta quanto si sente in colpa perché la bambina non è più dentro di lei dove avrebbe avuto tutto quello che le necessita.  Le dico che l’idea che un bambino nato a termine abbia tutto ciò che gli necessita è una fantasia.  Gli esseri umani nascono prematuri.  Molti animali sanno camminare fin quasi da subito.  Non è facile dire queste cose proprio a lei che ha una bambina in un’incubatrice, in un ospedale che manca del necessario, ma le parole sembrano fare presa su di lei.

 

Ripete la domanda: la sua bambina avrà tutto quello che le necessita? Non è questa la domanda che una madre si fa tutta la vita? Sì.  Questa è l’ingiustizia della situazione attuale.  Le attrezzature – mascherine, ventilatori, tamponi, kit per i test – sono il minimo necessario, o forse nemmeno il minimo, e per questo non c’è nessuna spiegazione se non la diseguaglianza sociale e l’incapacità di chiedere quello di cui si ha bisogno per la semplice sopravvivenza.

 

Ultima seduta della giornata: cercando di dire qualcosa a una paziente riguardo ai suoi che le raccomandano sempre di occuparsi di sua sorella, non mi viene la frase che avevo in testa – completamente svanita – e finisco per farfugliare qualcosa.  Più avanti nel corso della seduta scopro che era “to kill two birds with one stone” (prendere due piccioni con una fava).

 

 

Jacques Lacan diceva che si dové inventare la psicoanalisi per occuparsi della stranezza della condizione umana, non per porvi rimedio, ma per rendere visibile quella stranezza a sé stessa.  È questo che fa sembrare così perturbante, forse a volte anche impossibile e sbagliato, fare della psicoanalisi durante una pestilenza.

Tradotto dall'inglese da :

Fiorenza Conte

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European Journal of Psychoanalysis