Le ossessioni dell’ultimo Pasolini. Sull’inattualità del poeta di Casarsa.
Recensione a: Giacomo Marramao, Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo, Mimesis, Milano 2022.
Ci chiediamo se onorare la memoria di Pasolini non consista nell’avere la possibilità di discuterlo fino in fondo, nell’esaminare lo straordinario ruolo che la sua opera e il suo messaggio (i “suoi messaggi”, per la verità, contraddittori e incoerenti) hanno avuto, e continuano ad avere oggi, al di là delle commemorazioni e delle appropriazioni indebite della sua memoria. Un primato gli va riconosciuto: Pasolini è stato l’intellettuale italiano più discusso della seconda metà del Novecento. Viscerali sono stati i dinieghi di larga parte dell’opinione pubblica italiana (dalla metà degli anni ’50 fino alla morte), entusiastiche le adesioni, per lo più postume, di circoli intellettuali, in molti casi pregiudizievoli e poco meditate. C’è chi lo ha raffigurato come lo scrittore perseguitato dal regime, condannato dall’ostracismo delle maggioranze, imbavagliato dal potere, mosso da una volontà libertaria di superare gli steccati ideologici dei partiti politici e dei loro giornali e riviste cocchiere, utilizzati come casse di risonanza.
Il libretto di Giacomo Marramao segue questo filo conduttore, riesumando un discorso inedito di Pasolini del 6 settembre 1975, tenuto al Festival dell’Unità svoltosi nel parco delle Cascine di Firenze, in dialogo con Cesare Luporini. Il lungo brano citato potrebbe essere scambiato per un lascito testamentario, se non fosse che le parole del poeta di Casarsa fanno parte idealmente del blocco degli “scritti corsari” dell’ultimo triennio della sua vita, caratterizzati da una visionarietà negativa difficilmente paragonabile a casi simili del tempo. Ne parliamo in questi termini perché la categoria del “martirio” che ancora oggi si adopera per definire il “caso Pasolini”, è quanto di più risibile si possa escogitare, se solo si rifletta sulla facilità con la quale le condanne di un tempo sono state trasformate in elogi santificanti, soprattutto quando la protesta è resa innocua dalla morte dell’autore, nonostante la “società dello spettacolo” sia riuscita ad assorbire e neutralizzare facilmente i virus patogeni di quella che fu denominata contro-cultura. Solo a Roma in questo fine anno e inizio 2023, vi sono ben tre esposizioni dedicate a Pasolini, con il titolo generale Tutto è santo, a partire dalla centralità del “corpo” poetico veggente politico.
Perché dovremmo continuare a pensare al mito dello scrittore “inattuale”, indipendente, molesto, contrario ai tempi (senza passione) in cui ci tocca vivere? Non è stato già assorbito ‒ e digerito alla grande ‒ questo momento culturale da chi amministra l’editoria del consumo e sfrutta lo star system? Avrei preferito leggere in questo caso parole diverse sulla straordinaria normalità con la quale la tanto celebrata “disperata vitalità” pasoliniana appartenga di fatto all’orizzonte culturale odierno, con la sottintesa volontà di voler far coincidere arte e genio, trasgressione e creatività, delirio e onnipotenza. La metafora dell’isola utilizzata da Marramao è certamente un buon inizio. Va precisato il senso di questa metafora. Le parole di Pasolini sull’omologazione culturale, sull’avanzare del neocapitalismo, e soprattutto sulla distruzione “dei modi di essere, delle qualità di vita, quelli che io chiamo dei valori, e quindi dei comportamenti”, vanno lette all’interno di una psicologia individuale messa alle corde dalla nuova situazione, sottoposta all’assedio della civiltà dei consumi, in preda all’ossessione della perdita di ciò che rimane dell’umano. La società degli anni Sessanta assume i tratti di un fascismo inedito, più corrosivo di quello storico, poiché si perpetua ‒ e avanza inesorabile ‒ in un clima di progresso democratico, accettato senza resistenze. Questo nuovo potere dilania le coscienze, rendendole innocue, miserevoli, inconsapevoli. Nessuno meglio di Pasolini l’ha saputo dire con parole tanto efficaci, quanto vissute drammaticamente. Che poi esse siano riferite ad un uditorio favorevole, in cui il popolo comunista viene definito “la parte sana del Paese”, immune dalla corruzione dilagante, e i giovani armati di marxismo ritenuti gli unici in grado di reagire al nuovo corso, all’inquinamento sociale e al falso progressismo dei media, questi esempi appartengono ad un’aneddotica di scarso valore. Cesare Luporini in quella occasione, riferisce Marramao, gli rimprovera l’incoerenza della metafora dell’isola riferita ai giovani. E non aveva tutti i torti.
Pasolini reagisce ai mali del presente con le ossessioni dell’artista; se la sua critica sociale è condotta con mezzi conoscitivi di tipo politico, economico e sociologico, la sua proposta è di tipo estetico; ai danni cagionati dai nuovi poteri industrial-finanziari egli risponde gettandosi con il proprio “corpo” nella lotta politica. Vive questa lotta visceralmente, senza risparmiarsi. Il linguaggio mimetico dei suoi romanzi e poesie, il cinema di realtà dei suoi film, fino al “brutale” Salò, il teatro di parola, spasmodico e agonizzante, dicono tutto questo. Pasolini risponde all’ossessione dei tempi con le sue ossessioni personali.
Poteva questa decisione trasformarsi in un progetto politico, trovare dei compagni di viaggio in grado di seguirlo, assumere i contorni di una cospirazione in piena luce, come gli rimprovera l’amico-rivale Fortini, immedesimarsi con altre volontà? Poteva ma non è stato fatto. Avrebbe dovuto spogliarsi delle vesti dell’angelo decaduto, e rinunciare al compiacimento che questo inabissamento gli procurava, per rivestirsi di una umiltà solidale, di un cristianesimo di altra portata. “La nozione di Nuovo Potere e la traslazione del termine fascismo”, di cui parla Marramao, è indubbiamente un aspetto rilevante della straordinaria sensibilità e dell’acume fuori norma con cui si osserva un presente mutato in negativo, ma il grido disperato che sembra essere il basso continuo di tutta la polemica pubblica di Pasolini, ossia il “siamo tutti in pericolo”, nella città in fiamme o sul bastimento in avaria da cui non c’è ritorno, ci obbliga alla stasi, a fare un passo indietro. Quella di Pasolini è una enorme geografia del dolore. Queltopografo della nuova barbarie che è diventato, ritrovava in tanti luoghi periferici d’Italia e del mondo (pensiamo al filmato struggente che racconta la metamorfosi di San’a’, capitale yemenita) la condizione esasperata di chi è distrutto nel profondo dall’involuzione della società massificata, soffrendone nel corpo martoriato e irriconoscibile, come è divenuta poi la sua morte con il ritrovamento del cadavere dilaniato di Ostia, su cui hanno versato lacrime generazioni di amici e colleghi. La scena della Deposizione del Cristo morto del cortometraggio La ricotta, che ha evidenti richiami alla pittura manierista, unisce il simbolico al vivente, in un classico estratto da Living Theatre, tra le risate imbarazzate delle comparse e i toni seriosi delle madri dolorose (c’è una brillantissima Laura Betti, cui Marramao dedica il suo libretto), nel tentativo di sposare l’immaginazione narrativa alla tragicità del contesto.
I riferimenti di Giacomo Marramao, nella parte finale del saggio, alla microfisica del potere, a Foucault e Klossowski, Blanchot e Artaud, sono giustissimi, in particolari gli esempi del “corpo suppliziato” e dei concetti di biopotere e biopolitica, o le asperità del linguaggio dopo la lezione di Wittgenstein. Meno persuasivi gli ultimi capitoletti sulla concezione del tempo sacro cristiano che succede alla ciclicità pagana, sulla pietas rustica opposta all’apocalisse urbana, e sulla dicotomia radicale tra potere e verità. Pasolini ha scritto e vissuto l’alba del nuovo giorno che si annunciava con i toni minacciosi della catastrofe imminente; noi guardiamo quella stessa realtà con gli occhi dei “persuasi” e dei sopravvissuti, in uno stato di calma permanente, o di delusione persistente, che si verifica quando sono state deposte le armi, perché la guerra è finita o l’armistizio ne fa sentire meno la gravità. O peggio, nell’indifferenza generale che pervade oggi il pensiero del poeta de Le ceneri di Gramsci, ridotto alla condizione di uno dei più bei fossili novecenteschi che è sottoposto all’esame del radiocarbonio per stabilire la natura di questa strana creatura che tuttora ci inquieta.
La fede devozionale con la quale molti oggi si avvicinano all’opera di Pasolini, letteraria critica cinematografica teatrale, che non tenga conto delle discontinuità ideologiche e pratiche della sua attività intellettuale, non aiuta a migliorarne la comprensione generale. Meno enfasi e più riflessione, mi sento di dire: serve a poco l’osanna per un “inattuale”, per quanto grande sia, di genialità riconosciuta. Speriamo di non ridurci alla laudatio di una personalità che ‒ con i suoi errori ‒ ricorda fin troppo bene le nostre inadempienze e i nostri attuali (speriamo non futuri) asservimenti.
Data:
13/01/2023
Alcune informazioni sull'autore:
Vincenzo di Marco è cultore di Estetica presso l’Università degli Studi di Chieti, presidente del Centro Studi “Vincenzo Filippone-Thaulero” di Roseto degli Abruzzi. Di recente ha curato il volume Max Scheler, Ascesa e declino della borghesia, Mimesis, Milano 2020. Per l’editore Pazzini di Rimini ha pubblicato saggi su Emmanuel Lévinas, Günther Anders, Walter Benjamin, René Girard. È curatore dell’Opera omnia in cinque volumi di Vincenzo Filippone-Thaulero (2018-2023) per Studium Edizioni. Ha pubblicato un saggio su Thomas Bernhard nel volume Maestri ribelli, pubblicato da Ombre Corte (settembre 2020); un saggio su Ospitalità e violenza in Lévinas e Derrida nel volume di AA.VV., L’ospitalità. Forme e declinazioni di una pratica millenaria, Carabba 2021. Collabora con le riviste Ágalma, Studium, Res Pubblica, Prospettiva
Persona, Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto. Per Duende Edizioni 2022, ha pubblicato il volume di scritti giornalistici, Inimica civitas, e il volume di prose, poesie e traduzioni, Il tempo occluso.
È docente relatore nei corsi di aggiornamento di Psico-oncologia della ASL di Vasto-Lanciano-Ortona.