Lettera ai colleghi psicoanalisti – a proposito dell’attuale pandemia
Cari colleghi analisti,
Quando l’ignoto di una situazione è così forte, nasce in noi l’impulso a costruire narrazioni che creino certezze. Queste narrazioni vanno a braccetto con i blandi “consigli di salute mentale” condivisi ovunque: leggete le notizie, ma non troppo, lavatevi le mani, ma non troppo spesso, restate connessi agli altri ma allo stesso tempo utilizzate il tempo a vostra disposizione per riflettere su voi stessi, createvi una struttura, ma non dimenticate di divertirvi. Come al solito, la verità è stata articolata a stento in questo primo round di vittorie di Pirro relative al nostro ruolo nella crisi; non lasciamo aperto gran parte dello spazio che si è aperto.
Diciamo che vi sono “molte cose interessanti” per noi psicanalisti in questo lavoro virtuale; diciamo che il quadro ha subito moltissime mutazioni affascinanti, e queste non si limitano al fatto che ora possiamo vedere l’arredamento delle case dei nostri pazienti oppure i loro gatti. Ci sentiamo a disagio quado ci viene chiesto di trovare il lato ‘umano’ e ‘civile’ del disastro, partecipando alla circolazione in massa di video in cui si vede gente cantare dai balconi o eseguire esercizi fisici rispettando il distanziamento sociale, nel momento in cui affrontiamo una nuova realtà per noi stessi e per i nostri pazienti. La psicoanalisi vuole veramente allinearsi a tutto questo? È sbagliato metterlo in discussione?
E tuttavia, contro la narrazione predominante che mette in guardia contro traumi e pericoli legati all’isolamento, troviamo molti pazienti che stanno bene o che addirittura migliorano, a cui piace questo caos esternalizzato, o la cui malinconia è mitigata dalla prossimità della morte e della riprovazione; sono coloro che sono abituati a fare la loro cosa e che ora trovano le loro ansie e le loro infelicità placate e rese coerenti dalla forza pervasiva di un virus che ha provocato la chiusura di tutto. Sentiamo alcuni che da tempo anelavano che fosse tutto cancellato, che la vita come la conosciamo fosse messa in pausa, messa a tacere e bloccata, al punto di osare esprimere il desiderio, nelle loro fantasie, di essere uno degli interessati (effected), vale a dire uno dei contagiati (infected). Molti ammettono che si sentono stranamente bene—niente più FOMO (l’ansia sociale di essere tagliati fuori)—e qualcuno non vede l’ora di godersi lo spettacolo della spietata realtà che il virus può colpire chiunque, ricchi e poveri. Oltre questo, sembrerebbe che non abbiano altro che valga la pena dire. Alcuni non parlano praticamente più in seduta, ma lasciano intendere che parlano continuamente, come le chiacchiere infinite sui social media. I sintomi, nonostante tutti gli strappi nel tessuto della realtà, persistono, a volte ciecamente e in modo assordante; la sensazione è devastante. Il mantenimento del contatto può essere importante, ma forse per quest’unica ragione—essere certi che l’analista c’è ancora.
Forse dovremmo ispirarci ai nostri pazienti e alle loro dichiarazioni così poco accettabili e anti-sociali per far emergere l’articolazione di tutto ciò che nel nostro modo di lavorare attuale è poco focalizzato e poco eroico: quel tintinnio metallico dei nostri pazienti, sempre uguale, che ci arriva tramite le cuffiette, il problema di averli nelle nostre orecchie mentre noi siamo nelle loro, dentro le loro case (ah, l’astinenza), su scomode sedie da cucina come work station, quel costante scrutare il rettangolo del computer portatile finquando non viene voglia di urlare.
Quando è mai successo che qualcuno imparasse qualcosa da una catastrofe? È un’affermazione severa, ma cerchiamo di pensare collettivamente – impariamo veramente? La peste durata quattro anni descritta dai testi classici greci; l’ormai famigerato riferimento alla “spagnola”? La Grande Depressione; la crisi bancaria del 2008? La figlia di Freud, Sophie, morì a causa della “spagnola”. Nella lettera a Ferenczi del 29 gennaio 1920 scrive: “volata via, nulla da dire”, e conclude questa missiva piuttosto pedestre con “la séance continue. Ma è stato tutto un po’ troppo per una sola settimana”. Freud non ha nulla da dire. L’orchestra continuerà a suonare. Ma noi siamo armati e pronti per parlare, parlare e parlare di ciò che riteniamo benefico e giusto per le persone; incoraggiandoli a vedere tutto quel che offre il mondo virtuale: corsi di Yoga e streaming di opere liriche dal Metropolitan gratis. Fantastico! (https://www.psychologytoday.com/us/blog/psychoanalysis-unplugged/202003/psychological-responses-quarantine-what-expect-and-do?utm_source=dlvr.it&utm_medium=facebook)
Non saremo mai “funzionari sanitari” e la nostra comunicazione è tutt’altro che chiara, specialmente ora. Alla fine, quel poco che abbiamo da dire consiste proprio in questo.
La psicoanalisi può avvicinare a qualcosa di più reale e l’analista è lì per ascoltare; ma in cosa consiste questa conoscenza in un momento di violenza estrema e addirittura di delirio collettivo? Può veramente essere considerata una fonte di speranza rinnovabile? Dove si siede l’analista per ascoltare come si sono posti i propri pazienti rispetto al discorso collettivo, rispetto a questo arruolamento in un pharmakon virtuale e in queste narrazioni salvifiche? Qui sembrerebbe esserci qualcosa che vale la pena descrivere se vogliamo continuare a usare un termine sacro come controtransfert, ma dobbiamo evitare qualsiasi forma di crudele ottimismo e anche un riflesso come quest’idea che ‘l’orchestra deve continuare a suonare’ per il bene della conservazione di una salute mentale. L’orchestra continua a suonare, la Psicanalisi si sforza di sentire oltre il rumore che essa produce.
Evitiamo di seguire tutte quelle filosofie e politiche della speranza, ma anche quelle paranoiche, quelle che attaccano lo Stato, che condannano tutto questo come ennesimo esempio di “stato di eccezione”; bisognerebbe orientarsi rispetto al COVID-19 in quanto momento da osservare attentamente, immaginando che le cose debbano cambiare per forza. È ancora troppo presto; e vi sono troppe persone in situazioni precarie in questo paese per prevedere cosa tutto questo significherà per loro. Per noi sarebbe qualcosa di anti-psicoanalitico alla stregua di pensare che intravedere l’animale domestico di un nostro paziente sia un’autentica opportunità per instaurare un’analisi di transfert/contro-transfert. Noi ci rifiutiamo di vedere un’opportunità in tutto ciò. Si tratta di un’interruzione e di una devastazione.
Cominciamo invece a interrogarci su ciò che sta accadendo alla parola, dato che il linguaggio stesso è una sorta di virus. In qualche modo questo sembra essere escluso dal quadro virale se non riusciamo a interrogarci su come il virus stia infettando il linguaggio con tutto questo esternare-unito-a-igiene mentale forzato (enforced outpouring-cum-mental hygiene). Trump ha tentato per ben tre volte di pronunciare la parola “sintomo” senza riuscirci. Almeno ha avuto un lapsus. Perché fino a che punto è diventato ormai un tabù dire che tante cose sembrano montagne di ciance quando sull’orizzonte c’è la nuda realtà della morte. Niente inconscio, tranne che per il nostro presidente.
Quindi, vi poniamo quindi, a voi colleghi analisti, la seguente domanda impronunciabile: che significa fare analisi adesso, in una situazione del genere? Perché si dà subito per scontato che sia un bene o addirittura una necessità farla? Possiamo osare chiedere se i nostri servizi non sarebbero più utili altrove, e magari più in là nel tempo? E se vogliamo che le persone si interroghino in modo così approfondito, non dovremmo, specialmente in tempi disperati come questi, interrogarci noi stessi in modo altrettanto serio?
La Paura dell’esaurimento, come ci insegna Winnicott, è una difesa contro un esaurimento già avvenuto e l’incapacità di affrontarlo. L’assenza di paura dell’esaurimento è una difesa contro la psicanalisi.
Freud, notoriamente, e apocrifamente, ha equiparato la psicanalisi alla peste. Sembrerebbe osceno, scorretto e fuori luogo ricordarlo “di questi tempi”. Osceno, scorretto e fuori luogo quanto la psicanalisi stessa. Quindi questa oscenità la pronunciamo, sapendo che almeno uno psicanalista è già morto di coronavirus a New York, e in una professione tendente all’anzianità come la nostra, faremmo bene a sbrigarci a parlare. Presto perderemo una generazione.
Tradotto dall'inglese da:
Gianmaria Senia