Lettera da Minsk, Bielorussia
In risposta all’articolo “La psicoanalisi nella guerra. Un dibattito con i colleghi russi”, pubblicato in questa sezione.
Caro Sergio Benvenuto,
Ho letto il tuo articolo “La psicoanalisi nella guerra. Un dibattito con i colleghi russi”. Grazie, anche se è molto triste leggere le posizioni dei colleghi russi. E ho paura. Perché:
Le norme morali sono qualcosa di molto profondo, che è alla base di una persona. Se le norme sono umanistiche e democratiche, sono le stesse delle norme psicoanalitiche. Ma se le norme sono superficiali, vengono facilmente distrutte in una situazione non standard. Così puoi vedere che un analista ha raccolto sì molte conoscenze, ha scimmiottato i valori psicoanalitici, ma lui (o lei) è rimasto una persona autoritaria.
Vivo in Bielorussia. Sono una candidata dell’European Psychoanalytic Institute. Penso che tutti i miei colleghi nel mio paese siano contrari alla guerra in Ucraina. Ma nel 2020, quando sono iniziate le proteste contro la crudele dittatura nel mio paese, sono rimasta profondamente delusa dalla loro presa di posizione: hanno detto che un analista dovrebbe essere neutrale e dovrebbe starsene su una poltrona psicoanalitica e non per strada con altre persone a protestare, perché tutte le rivoluzioni sono manifestazioni della scissione [splitting]. Penso che una posizione così neutra copra semplicemente la paura. La paura viene coperta da norme morali proclamate e dai cosiddetti postulati psicoanalitici.
Al giorno d’oggi, quando abbiamo crudeli repressioni nel nostro paese e un grave pericolo per le persone a causa della guerra, molti pazienti chiedono di diminuire il pagamento e di cambiare il setting. I sedicenti analisti lo considerano un attacco al setting e ai confini psicoanalitici. Ma che dire della realtà e dell’umanità? Probabilmente sotto la ricerca di preservare puro il setting non si copre il tentativo di preservare il comfort dell’analista?
Penso alle ragioni di tutto ciò. E penso alla situazione della psicoanalisi nell’IPA. E ho molte domande da fare.
1. Perché ci sono tanti analisti narcisisticamente organizzati da non rendersi conto delle loro motivazioni e reazioni? Perché sono così facilmente attestati? Pongono le loro opinioni come norme culturali ai loro pazienti, ai loro studenti! E danneggiano i loro pazienti!
2. Perché diffondere così ampiamente una educazione psicoanalitica tanto limitata? (ad esempio corsi di teoria e analisi personale della durata di 2-3 anni). Il pragmatismo e il profitto finanziario portano al degrado della psicoanalisi!
3. Perché le società o fondi psicoanalitici propongono un’educazione teorica prima della fine dell’analisi personale? È una situazione in cui un analista – uno psicoanalista adotta/adatta i propri sentimenti a “quelli psicoanaliticamente corretti e attesi” e lui/lei sfugge ai propri veri sentimenti, al suo vero Sé. Rafforza le difese, conosce molto bene la teoria ma non riesce a sentire le esperienze dei pazienti.
Penso alla psicoanalisi nei paesi post-sovietici. La caratteristica diffusa della psiche post-sovietica è un atteggiamento speciale nei confronti della violenza. A mio parere, il fascismo non è un fenomeno speciale in politica, è nella società nel suo complesso o nel comportamento di una nazione nei confronti di un’altra nazione. È una manifestazione dell’atteggiamento abusivo e anti-umanistico nei confronti degli altri. È una miscela di arroganza e permissività, di assenza di rispetto ed empatia. Si forma nelle famiglie e nelle culture dove prevale la violenza e spesso non viene riconosciuta. È molto importante vedere e affrontare questo problema.
A mio parere, molti analisti post-sovietici assimilano forme psicoanalitiche esteriori; anche le loro menti si adattano con successo ai formati dati dalle teorie psicoanalitiche. Ma ciò non significa che pensino in modo psicoanalitico. Come diceva uno psicoanalista italiano (purtroppo non ricordo il suo nome): “L’empatismo domina al posto dell’empatia”. C’è un enorme pericolo qui.
Penso che i colleghi russi e anche quelli bielorussi non dovrebbero essere isolati dal mondo. Ma dobbiamo parlare dei problemi, chiamarli col loro nome, e non giocare a “saggi analisti neutrali che stanno al di sopra del bene e del male”.
I miei migliori saluti,
Irina Cheliadinskaya, Minsk
psicoanalista