Risposta a Claude Schauder

“Capisci, su questa Terra c’è qualcosa di spaventoso, il fatto che ognuno abbia le sue ragioni”

Jean Renoir, La règle du jeu

Il direttore dell’European Journal of Psychoanalysis mi chiede gentilmente di rispondere al commento del mio amico Claude Schauder su un rapporto che ho pubblicato su una conversazione tra me e colleghi russi all’inizio della guerra (e non “operazione speciale”!) in Ucraina. https://www.journal-psychoanalysis.eu/la-psicoanalisi-nella-guerra-una-conversazione-con-colleghi-russi/

Schauder ha espresso un’opinione che anche altri analisti hanno fatto propria contro la mia decisione di sospendere la mia collaborazione con questi colleghi (ma devo anche dire che molti altri analisti – soprattutto russi – mi hanno espresso la loro completa approvazione: al posto mio si sarebbero comportati allo stesso modo). Alcune reazioni sono state addirittura offensive, uno di loro mi ha chiamato “Benvenutler”, imitazione di “Poutler”, lo pseudonimo usato dagli amici russi nei loro scambi di e-mail per sfuggire alla sorveglianza informatica.

Il grande impatto di quella mia trascrizione, e la polarizzazione delle reazioni ad essa, è, a mio parere, un sintomo. Credo che quello che mi è successo sia indicativo di un punto cieco in quella che definirei la comunità psicoanalitica internazionale se esistesse (ma non esiste, perché ogni scuola è chiusa in se stessa e nella maggior parte dei casi trascura i contributi delle altre scuole). Questo punto cieco è il rapporto tra l’etica della relazione analitica da una parte e l’etica dell’analista come cittadino che vive in un determinato contesto sociale dall’altra. Lacan ha detto che “dobbiamo rifiutare il discorso analitico ai furfanti”. Ma il fatto di avere opinioni fasciste, o xenofobe, o razziste, o omofobe, ecc., vale a dire opinioni che noi (chi siamo noi?) consideriamo riprovevoli, rende qualcuno, e soprattutto un analista, un mascalzone?

Sappiamo che ci sono analisti canaglie. Penso agli analisti che hanno collaborato con i torturatori brasiliani per estorcere confessioni agli oppositori (caso Bessermann-Vianna)… O gli psicoanalisti americani che hanno sempre considerato l’omosessualità una patologia grave, in una posizione molto più conservatrice rispetto agli psichiatri americani (che nel 1973 hanno de-rubricato l’omosessualità come un disorder). Questo pone un problema teorico ancora più acuto del problema etico: il fatto che un analista – quindi analizzato – sia un mascalzone non sarebbe una confutazione del progetto della psicoanalisi?

Ma prima di rispondere, vorrei ricostruire il contesto del mio incontro con i colleghi russi.

 

**

 

Il giorno prima avevo tenuto un seminario online presso l’Istituto Internazionale di Psicoanalisi di Kiev, dove insegno regolarmente da circa quindici anni. La guerra era già scoppiata e sapevo che gli amici avevano già passato la notte nei rifugi antiaerei.  La direzione dell’istituto mi aveva offerto di parlare della psicoanalisi francese. Alla fine di gennaio[1], l’amministrazione mi offre di venire personalmente a Kiev per insegnare a fine febbraio, “dato che la pandemia è finita”…  Non ho osato dir loro: “Ma a fine febbraio ci sarà la guerra!” Devo dire che la sottovalutazione del pericolo di guerra mi aveva colpito, ed era ugualmente ben condivisa tra i miei amici russi e ucraini (si veda la testimonianza di una collega russa, Ekaterina Bolokoskaia, proprio su questa rivista).

Sabato 26 febbraio, due giorni dopo lo scoppio della guerra, gli organizzatori hanno insistito perché parlassi di psicoanalisi francese. Mi sono impuntato: “No, parlerò della guerra che state subendo! Parlerò della corrispondenza Freud-Einstein sulle ragioni della guerra e di un caso clinico di guerrafondaia”. Alla fine, gli organizzatori hanno concordato sulla mia deviazione dal programma.

Così ho parlato della guerra e ho subito proclamato la mia solidarietà con loro, ucraini, contro l’aggressione voluta dalla Nomenklatura russa. Durante il mio discorso, sono rimasto sbalordito dal fatto che una studentessa, una signora, mi abbia interrotto con tono seccato: “Ma vuoi parlare di questa guerra o di psicoanalisi?” Ho risposto che la psicoanalisi è nata per rettificare il nostro rapporto con il reale, non per rimuoverlo o ignorarlo, e che per me riferirmi a quegli eventi era un atto analitico.

Come potete vedere, quella che chiamerei etica dello struzzo è presente in Ucraina, in Russia e ovunque.

Il giorno dopo, avevo il gruppo di supervisione con i colleghi russi, e si aspettavano che parlassi del caso clinico di cui mi avevano inviato il testo. I nostri incontri clinici durano un’ora e mezza, e l’incontro di cui ho pubblicato la sintesi è durato altrettanto. Anche allora non volevo seguire il programma prescritto, e avete visto cosa è successo dopo.

Non ho pensato di registrare la nostra conversazione, quindi ho dovuto riassumere ciò che è stato detto in base alla mia memoria.

Avevo escluso di parlare del caso clinico come se nulla stesse accadendo… Non parlare di certe cose mi sembra la peggior rimozione, di fatto una complicità obliqua con l’aggressore. Così ho chiesto a tutti la loro opinione personale. Voglio dire che, contrariamente a quanto alcuni commentatori potrebbero pensare, non ho mai detto che raccomando il mio atteggiamento come modello per qualsiasi analista che si trovi in situazioni simili! Ho fatto quello che la mia coscienza mi ha detto di fare, tutto qui.

Avevo già percepito che la coppia di leader del gruppo era anti-ucraina. Mi sono detto: se alcuni nel gruppo non condividono le posizioni di Putin, se qualcuno almeno esprime solidarietà ai colleghi ucraini sotto le bombe, prenderò atto del fatto che ci sono diverse posizioni nel gruppo e quindi accetterò di continuare la supervisione. E’ così che ho chiesto a tutti di parlare, di verificare se c’era o meno unanimità.

C’era una terrificante unanimità.

Nessuno ha detto: “Mi dispiace per gli ucraini!”. In effetti, tutti loro credono fermamente nella propaganda del regime, che devono denazificare l’Ucraina. Solo allora ho trovato impossibile per me continuare a collaborare. Schauder sì, io no.

In questi casi, qualsiasi scelta è sbagliata. Ho sbagliato interrompendo la collaborazione, ma avrei sbagliato anche continuando a “insegnare la tecnica” mentre i nostri colleghi rischiavano la pelle. Decidere è scegliere come errare.

Voglio chiarire tutto questo perché Schauder sembra rimproverarmi di aver interrotto una collaborazione con “colleghi russi” perché russi! Niente affatto. Ho interrotto una collaborazione con analisti che pensano che il loro paese debba invaderne un altro. Altri colleghi russi hanno un’opinione completamente diversa.

Mi viene detto: “decidendo di non lavorare con i putinofili, rischi di trincerarli nelle loro certezze”. Forse.  Ma chi può prevedere gli effetti delle nostre azioni su ciascuno? Questi colleghi potrebbero dire a se stessi: “Gli occidentali sono tutti dogmatici anti-russi, anche quando sono analisti”. O forse altri possono dire a se stessi “perché un collega per il quale avevo stima ha sentito il bisogno di conoscere le nostre opinioni? e se avesse buone ragioni che io non percepisco? Perché Benvenuto riteneva che la posizione in relazione a questa guerra fosse importante anche per la psicoanalisi?” Nessuno può prevedere gli effetti di ciò che ho fatto produrrà in ciascuno, secondo la propria storia. Ma proprio perché non posso prevedere le conseguenze a lungo termine del mio atto, ho preferito agire seguendo il mio cuore. Contando sul fatto che la spontaneità del cuore è più toccante, più convincente, di tutti gli argomenti pro o contro Putin.

 

 

**

 

Alcuni mi hanno criticato per non aver ascoltato i miei colleghi russi. Che strano significato si dà allora ad “ascoltare”!  Li ho ascoltati così bene che ho cercato di trascrivere tutto ciò che dicevano. E se avessi registrato il tutto, li avreste ascoltati di più. I miei critici hanno mai trascritto gli argomenti dei putiniani? Se lo hanno fatto, allora mi congratulo con loro. “Ascoltare” non significa condividere le opinioni che abbiamo ascoltato!

Ad esempio, Schauder dice: “Non possiamo rinchiudere l’altro e fingere di sapere che cosa sia, per non parlare della sua capacità di essere o meno un analista esclusivamente in termini di ciò che difende come opinione politica”. Non ho mai detto di sapere cos’è l’altro (i miei colleghi), né che questi colleghi non sono capaci di essere analisti! Ho semplicemente detto che non voglio collaborare con persone che non possono emanciparsi dalla propaganda del loro regime. Punto.

“Sergio Benvenuto – scrive Schauder – non può negare a uno dei suoi interlocutori russi il diritto di argomentare, in risposta alle sue argomentazioni, la collaborazione degli ucraini con i nazisti durante la 2° guerra mondiale”. Non ho negato ai miei interlocutori il diritto di discutere, al contrario, ho trascritto fedelmente ciò che hanno detto! Ho semplicemente sottolineato che giustificare un attacco oggi con un conflitto di 80 anni fa non è convincente. Aggiungerei: per la maggior parte, gli ucraini hanno combattuto nell’Armata Rossa contro i nazifascisti.

Dire che dobbiamo attaccare militarmente l’Ucraina nel 2022 per quello che hanno fatto gli ucraini nazionalisti durante la seconda guerra mondiale sarebbe come dire che oggi possiamo attaccare l’Italia perché è stata compromessa con il nazismo, e certo molto più dell’Ucraina. Tutti troverebbero questo ragionamento assurdo. E non si può dire che in Ucraina ci sia il pericolo del fascismo perché c’è un piccolo partito filofascista che ha ottenuto il 2% dei voti. Ancora una volta, sarebbe come dire che bisogna attaccare la Francia a causa del voto per Marine Le Pen (una fascista, anche se non si dichiara tale)… Leggo che Le Pen sta recuperando molte intenzioni di voto, che è oltre il 21%… Direi che la Francia corre un pericolo di fascismo molto maggiore dell’Ucraina. In ogni caso, penso che oggi il fascista sia Putin, non gli ucraini.

Schauder non deve aver letto il mio testo sulla mia esperienza in Russia e Ucraina, pubblicato poco prima della guerra (https://www.journal-psychoanalysis.eu/il-cuore-spezzatoi-tra-ucraina-e-russia/), dove ricordo l’impegno filonazista di alcuni nazionalisti ucraini, ho parlato di Bandera e ho persino pubblicato una foto di un monumento di Bandera a Leopoli… Sono stato io stesso a evocare questo passato. Certo, c’erano collaboratori ucraini dei nazisti – ma c’erano anche collaboratori francesi dei nazisti. È proprio necessario menzionare qui l’affare Dreyfus per ricordare come la Francia abbia una vecchia tradizione antisemita (molto più pesante di quella dei tedeschi prima di Hitler)? E questa tradizione “illustre” sarebbe una buona ragione per attaccare militarmente la Francia oggi?

Schauder: “Gli inconsci ucraini, come quelli dei russi, spesso conservano le tracce di un passato che, se non riconosciuto, non passa!” Questo evoca l’inconscio collettivo di Jung, ma diciamo che sono d’accordo. Tuttavia questo è vero per molti paesi, non vedo nulla di caratteristico dei Russi e degli Ucraini. Anche per i Francesi: la collaborazione con gli occupanti durante la seconda guerra mondiale, le torture durante la guerra coloniale in Algeria…  Pochi popoli sono senza scheletri nell’armadio, motivo per cui nessuno dovrebbe lanciare la prima pietra, come hanno fatto i miei colleghi russi come se fossero senza peccato.

 

**

 

Schauder dice che puoi rifiutarti di prendere certi analizzanti per ragioni etiche, ma non è il caso dei colleghi. Il mio criterio etico è esattamente l’opposto.

Prendo gli analizzanti che hanno idee politiche che considero orribili perché prendo quelle idee come maschere discorsive di problemi inconsci che si situano altrove. Cesare Musatti, uno dei fondatori della psicoanalisi in Italia, ha detto di avere avuto in analisi un assassino – nessuno sapeva che lo fosse, lo ha detto solo al proprio analista. Musatti non interruppe l’analisi con lui.

A differenza di quel che sostiene Schauder, non sono affatto pronto a collaborare con qualsiasi analista. Nessuno di noi, nemmeno Schauder credo, è disposto a collaborare con qualunque analista. E ci sentiamo giustificati a rifiutarci di collaborare per ragioni molto più frivole di una discordanza politica fondamentale: rifiutiamo perché il livello clinico è troppo basso, perché la cultura analitica del gruppo di colleghi è troppo diversa dalla nostra, perché i membri del gruppo ci sono antipatici…  Perché solo la divergenza politica sarebbe una cattiva ragione per non collaborare con colleghi? Come si dice in Italia, non è che sia stato il medico a ordinarmi di collaborare con quel gruppo!

Credo che alla fine, in tutti i rimproveri per aver sospeso la mia collaborazione con i putinisti, si riveli un presupposto di fondo: che le opinioni politiche siano solo chiacchiere. Che dobbiamo essere tolleranti con le idee fasciste, razziste, putiniane… perché non significano nulla di importante. Questo mi sembra però contraddire la sostanza dell’etica psicoanalitica: qualsiasi analisi ci porta, al contrario, a dare gran valore a ciò che diciamo e a ciò che abbiamo detto, e quindi a ciò che riveliamo attraverso ciò che diciamo. L’etica del ben dire. Al di là di ciò che facciamo – che è di particolare interesse per i comportamentisti – ciò che diciamo è importante, e quindi ciò che pensiamo dietro ciò che diciamo. Come diceva Lacan, scripta volant, verba manent. Parlare implica tanto quanto lanciare pietre o sguainare un pugnale. Le parole ci determinano – questa è una delle scommesse essenziali della psicoanalisi.

 

Una collega italiana che non era d’accordo con me ha detto di aver accettato in analisi un picchiatore fascista (lei è di sinistra) e anti-vax (si è notato in Italia che molti anti-vax oggi sono putinofili. Ci si dovrebbe chiedere perché questo legame).

Anch’io ho anti-vax in analisi, che tendono anche al complottismo – sono professori universitari, persone altamente istruite, ricercatori scientifici … E poiché sanno che mi sono fatto vaccinare, alcuni non esitano a dirmi che sono una pecora che segue il gregge dei vaccinati, un altro pazzo che non vuole accettare l’inconfutabile evidenza scientifica che il vaccino è inutile e / o dannoso. Pensano di me quello che molti di noi pensano dei putiniani russi, il gregge di Putin…

In un film del 1999 di Harold Ramis, Analyze This, un boss della mafia di New York chiede un’analisi e l’analista, sebbene esitante, finisce per accettarlo. Lieto fine: grazie all’analisi, il gangster capirà che il suo sintomo – la sua difficoltà ad essere un killer efficace come voleva suo padre – è proprio ciò che di sé deve amare…  È qui che emerge un presupposto non detto della psicoanalisi  : che se si viene davvero analizzati, si è dei bravi ragazzi. Tuttavia, questo resta tutto da dimostrare.

Ma immaginiamo che il picchiatore fascista  dica in seduta alla mia collega che la sera stessa andrà ad aggredire ebrei o musulmani indifesi, cosa  farà? Lei gli dirà: “Ci vediamo alla prossima seduta, come al solito”? Io, in quel caso, ricorderei di essere un cittadino prima di essere un analista, e avvertirei la polizia del crimine che si sta preparando. E direi al bravo fascista: “Se stasera hai intenzione di prendere a botte queste persone, non tornare mai più qui”.

Forse altri farebbero diversamente.

Trovo che l’idea che l’analista faccia il suo lavoro in un luogo iperuraneo – un’idea abbastanza comune tra gli analisti – sia ingenua e nefasta. Si vede la pratica analitica come un tipo di ricerca scientifica, come al CERN, dove si ha a che fare con particelle elementari. Ma l’analista non ha a che fare con particelle elementari: ha a che fare con persone come lui, che spesso hanno i suoi stessi problemi, che vivono nella sua stessa società.

Un’altra citazione di Lacan (non sono un lacaniano, ma spesso mi piace citarlo). Negli anni 1970, a Milano, noi, giovani analisti in formazione, avemmo un incontro con lui. In quell’occasione, una giovane donna lesse una specie di papiro in cui celebrava il significato dis-sociale o a-sociale, anarchico, della pratica analitica, distaccata da ogni legge sociale fuori dell’analisi. Lacan replicò dicendo che “la psicoanalisi è una pratica sociale come molte altre!” Non solo perché il legame sociale analitico è ben definito (e si distingue da altri tre legami sociali) ma anche nel senso che l’atto analitico – disse – fa parte della società e della cultura in cui si svolge. Si può anche dire che la psicoanalisi è un sintomo del proprio tempo, della società in cui è fiorita. Questo non impedisce all’analista di avere sintomi a sua volta: quello di non sapere “chi sono veramente i miei colleghi” è uno dei suoi sintomi più evidenti. Perché, tutto sommato, non abbiamo criteri per chiamare un altro “analista”, se definirlo “mio collega” e non un ciarlatano.

 

**

 

Schauder ha approfittato della polemica con me per prendere le distanze dal sostegno occidentale all’Ucraina. (Insomma, ciò che lo interessava davvero non era criticare la mia decisione di non lavorare con i colleghi russi, era piuttosto dimostrare che dopo tutto i colleghi russi hanno ragione! Il che è molto diverso.) Attacca il signor Zelenskj (questo qualificatore di “signore” dice più di ogni altra cosa che il mio amico dice esplicitamente) per la sua gaffe alla Knesset, soprattutto perché è ebreo. Sì, è stato un errore di Zelenskj. E allora? Questo rende i discorsi deliranti di Putin, per non parlare delle sue azioni, più convincenti? Mi sembra che qui vogliamo vedere la paglia negli occhi di uno per non vedere la trave nell’occhio dell’altro. Sono molto sorpreso che Schauder insista su questo errore diplomatico in un contesto che vede città distrutte, civili uccisi, migliaia di morti… Sarebbe come criticare Putin soprattutto per aver indossato una giacca Loro Piana durante l’incontro allo Stadio Olimpico di Mosca a marzo.

Si sente una rabbia in Schauder contro Zelenskj, e ci si chiede perché. Fondamentalmente, il maggior merito di Zelenzkj è stato quello di essere nel posto “giusto” al “momento giusto”, quello dell’attacco  all’Ucraina di cui è diventato così il simbolo. Non si può fare a meno di leggere un possibile subtext in questa ira contro Zelensky: è che ormai è  considerato  un eroe dell’Occidente, e ovviamente tutto ciò che viene dall’Occidente (compresa la psicoanalisi?) è marcio. La condanna protocollare di Putin è un perizoma che non nasconde la vera narrazione che detta le accuse contro l’Ucraina: che il vero nemico è “l’imperialismo americano”, il lupo nero che  spaventava noi bambini, perché abbiamo ricevuto un’educazione “antimperialista”.

 

Trovo che il discorso di Schauder sia simile a molti altri che sentiamo in Italia come altrove: iniziano dicendo “Dobbiamo condannare l’aggressione di Putin …  ma… ” “Ma gli ucraini hanno sempre odiato i russi… ma la NATO ha provocato Putin espandendosi a est … ma con gli ucraini combatte il battaglione fascista Azov… ma gli ucraini commettono massacri nel Donbass…” Ci si rende conto che, nonostante la clausola di condanna iniziale di Putin, tutto il godimento di chi parla è nel “ma … ».  È un gioco che può essere fatto in qualsiasi situazione, troveremo “buone ragioni” per gli atti più mostruosi, se vogliamo. Fin dalla mia infanzia ho sentito “buone ragioni” date dai neofascisti, e le virgolette qui non sono ironiche. Mi ricorda gli intellettuali britannici durante l’ultima guerra di cui parlava George Orwell, per lo più stalinisti: dicevano, tra l’altro, che i soldati americani in Inghilterra non erano lì per combattere i nazisti ma per reprimere una rivoluzione proletaria che altrimenti sarebbe certamente scoppiata nel Regno Unito! Molti professori britannici di sinistra simpatizzavano per Hitler durante la guerra.

Non ho qui il tempo di analizzare le ragioni di questo godimento nell’essere-contro-l’-opinione-del-mio-paese, tipico godimento degli intellettuali.  Credo che sia un codice tacito per vedersi attribuire il titolo di “intellettuale”.  Francamente, io non ho bisogno di questo titolo.

Riferimenti:

[1] In questo contesto, lo hanno invitato a Kiev Elisabeth Roudinesco · anche. Cfr. « No pasaran ! »,

Data:

06/04/2022

Share This Article

European Journal of Psychoanalysis