Lo scrittore superstite. Una conversazione con Franco Ferrarotti

 

Questa intervista al Prof. Franco Ferrarotti è apparsa nel volume La filosofia come forma-di-vita, a cura di Andrea Carnesecchi e Francesco Pratelli (Jouvence, 2023)

 

 

Un mondo di ignoranti molto ben preparati.

Guido Ceronetti, Insetti senza frontiere

 

 

Dunque professore, come le abbiamo scritto, stiamo lavorando ad un libro…

 

Vabbè, oggi tutti pubblicano libri e nessuno li legge. Avanti con le domande!

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Vorremmo iniziare col farci raccontare com’è nata la sua passione per il sapere. La prima cosa a colpirci dei suoi libri, infatti, è stata proprio la passione e il coinvolgimento con cui si sente che sono stati scritti…

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Vi ringrazio molto di porre questa domanda, che è una domanda naturale, quasi ovvia, e anche molto difficile. Perché si scrive? Non lo so, a volte mi domando se il mio grande amore per i libri, che è una bibliomania, quasi una bibliofagia, non sia che un dispetto verso mio padre che detestava la cultura libresca. Un po’ perché lui associava, forse inconsapevolmente – anzi, di certo inconsapevolmente – la cultura libresca con i libri degli avvocati, dei notai, e quindi la pagina bianca, la pagina scritta, per lui era in realtà la pagina di una contravvenzione o del fisco.

Dunque perché scrivere? È molto difficile dirlo. Intanto, come voi ben sapete dalle vostre esperienze, scrivere è un’attività nevrotizzante, non è affatto naturale. Tutte le altre attività sono molto naturali: mangiare, bere, evacuare, accoppiarsi… ma non lo scrivere. E anche oggi con i nuovi mezzi – i word processor, i computer, e via dicendo – in fondo ci si ritrova sempre fermi davanti alla pagina bianca. E la pagina bianca che cos’è? È una sorta di sguardo nell’abisso. Allora, cosa vuol dire scrivere? Scrivere, sostanzialmente – per rispondere brevemente alla vostra domanda, mi dispiace che non abbiamo troppo tempo – vuol dire, forse, rivivere ciò che si è già vissuto e quindi è una chiamata dal regno dei morti. Scrivere, in effetti, è un’attività che rasenta, sfiora, la necrofilia. Perché, in effetti, quando scrivo, ricordo e in questo senso sono perfettamente uomo, donna, essere umano, perché gli esseri umani non sono nulla in senso assoluto, sono solo ciò che sono stati, ciò che ricordano di essere stati. Quindi c’è nella scrittura un tentativo di immortalità e la difficoltà estrema, la sofferenza implicita nello scrivere è direttamente, positivamente proporzionale a questo grande, a volte inconsapevole, scopo: quello di restare, di lasciare una traccia. Ma allora scrivere cosa vuol dire? Vuol dire testimoniare. Ma per testimoniare bene occorre imparare a scrivere e per farlo serve tutta una vita, cosicché quando finalmente uno sa scrivere non ha più l’energia per farlo, è troppo vecchio.

Ripeto, vi ringrazio molto di questa domanda – che è una domanda a cui è impossibile di per sé dare una risposta – perché mi riporta ad una distinzione sottile. Infatti potreste chiedermi: “Ma allora perché oggi tutti scrivono? Perché oggi si scrive così tanto?”. Stiamo attenti: come ci ha insegnato Roland Barthes, anche se non è stato lui il primo a dirlo, bisogna distinguere fra écrivains e écrivants, fra il vero scrittore – e ce ne sono pochi, tre o quattro ogni secolo, non di più – e lo scrivente, il puro scrivente. Non dirò “scribacchino”, perché ho troppo rispetto per l’attività dello scrivere, e neppure “pennivendolo”, ma comunque lo scrivente è colui che “giornalisteggia”. E infatti oggi gli scriventi primeggiano, sono più numerosi degli scrittori, e chi sono? Sono degli scrittori, certamente, scrivono, ma in qualche modo “giornalisteggiano”, sono a rimorchio dell’attualità, scrivono senza interrogarsi nel profondo, sarebbe troppo difficile, troppo doloroso, una grande sofferenza…

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Anche spaventoso…

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Eh sì, lei ha ragione, perché non si sa cosa può uscirne. È la stessa ragione per cui la gente che sta male, che è depressa, non va dallo psicanalista, perché teme questo disseppellimento dalle profondità. In fondo l’analista chi è? È semplicemente lo specialista che cerca di far dire ciò che si vuol nascondere; viene pagato per non fare niente, per ascoltare, ma ascoltare è sollecitare, obbligare. Siccome si fanno pagare un tanto ogni quarto d’ora, una volta li ho definiti i tassinari della psiche e, anche se non mi pento mai di nulla, perché quel che è fatto è fatto, quella volta…

Comunque, per concludere questa vostra domanda, perché scrivere? Veramente non lo so, può anche essere un effetto di masochismo, perché scrivere, in un certo senso, significa smettere di fare. Negli Stati Uniti, un paese che conosco bene, hanno una cultura nella quale il pensare tiene il luogo del fare: al primo posto c’è colui che fa, il businessman, l’uomo d’affari, non l’intellettuale, e chi scrive, scrive gli affari, cioè di nuovo il fare. Il doer è colui che fa, mentre chi pensa viene considerato semplicemente una persona che non sapendo fare si limita a pensare. Pensare, invece, è di per sé l’attività che ci distingue dagli animali non-umani, perché noi siamo animali naturalmente, ma rispetto agli animali non-umani abbiamo questa cosa del pensare, del riflettere, del tornare su di noi ed esprimerci, quindi del parlare… homo confabulans.

Quindi, come dicevo, parlando della scrittura, direi che occorre distinguere nettamente fra lo scrivente, il puro scrivente che non è necessariamente un pennivendolo, ma che è comunque qualcuno a rimorchio dell’attualità, e lo scrittore vero. Il vero scrittore è raro, perché è uno speleologo della psiche, scende nelle profondità, senza sapere se potrà riuscirne, se potrà riemergere. Lo scrivere, quindi, è una delle attività più pericolose, più pericolose del lavorare in miniera, perché si scende negli ipogei della coscienza senza avere un filo d’Arianna. Infatti, molti grandi scrittori hanno dato chiari segni di follia. C’è un elemento di turbamento profondo nella scrittura, ma perché? Perché in fondo può anche darsi che lo scrittore – e qui vi offro forse la mia considerazione finale – ad un certo punto, si ritrovi ad essere un superstite, un sopravvissuto. Voi siete troppo giovani, ma chi ha fatto la guerra come me, sia la guerra civile che la guerra vera e propria, la guerra guerreggiata, sa che c’è una imbarazzata felicità nell’essere sopravvissuto, nel dire: “Io ce l’ho fatta, l’ho fatta franca”.

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Lei ha fatto la guerra?

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Beh certo, io sono del ’26, ho novantaquattro anni, quindi è chiaro che ho fatto sia la guerra che la resistenza. Ero un gappista. Come potete immaginarvi, bisognava soprattutto saper scappare ed io, essendo giovane e rapido, portavo ordini, portavo bombe, portavo tutto quello che c’era da portare… e quando non c’era niente da portare portavo me stesso. Ad ogni modo, il superstite ce l’ha fatta, ma come può allora perdonare se stesso, come può perdonarsi il fatto di essere sopravvissuto? Il superstite diventa un superteste, un testimone. Quindi un grande scrittore – penso a Flaubert, lo stesso nostro Manzoni – chi è? È il testimone del suo tempo: scrivere come testimoniare. Ma un momento! Il testimone può finire in galera subito, per falsa testimonianza, per reticenza, per contraddizione… i veri testimoni sono i grandi scrittori. Allora, se voi volete scrivere, ed io vi prego di farlo, preparatevi a soffrire, preparatevi a dir di no molte volte, preparatevi alla solitudine e al silenzio, perché in questo modo, anche senza saperlo, prenderete una posizione nella grande divisione che c’è oggi nel mondo.

Oggi nel mondo ci sono due grandi logiche che si contendono la lealtà degli esseri umani, che si contendono l’anima degli esseri umani, e sono la logica della lettura e della scrittura da una parte e la logica dell’immagine preconfezionata dall’altra, cioè la logica dell’audio-visivo. Oggi sta vincendo quest’ultima, perché mentre la logica della scrittura è una logica cartesiana, analitica, una parola dopo un’altra, una riga dopo l’altra, che obbedisce al principio della non-contraddizione, per cui l’ultimo paragrafo va d’accordo col primo, ecc., l’audio-visivo, invece, colpisce con l’immagine sintetica, che ha un potere ipnotico ed è di facile fruizione. Mi dispiace per voi, ma state attenti, state occupandovi di un’attività da becchini, perché il libro è morente, il libro è in agonia. I veri libri oggi non ci sono più, oggi ci sono dei libri celebrativi, come quelli di Bruno Vespa, della televisione… potrei dire che sono quasi delle merde, ma non lo dico. I veri libri, oggi, in questa enorme proliferazione di carta stampata, per cui tutti scrivono e si autoincensano, sono diventati rarissimi, perché i veri libri fanno vivere o ammazzano qualcuno, sono tremendi i veri libri. Mi auguro che voi continuiate a scrivere.

Quindi perché uno scrive? Non lo so. Credo che insieme con la testimonianza, ci sia anche una irragionevole brama d’immortalità. Io scrivo, vengono fuori delle cose e mi dico: “Nessuno mi legge, non si vendono questi libri… ma chi lo sa, magari fra un secolo, qualcuno ci farà qualcosa”. Ma cosa ci farà? Magari una tesi breve, o addirittura una tesi di dottorato. Comunque, io che vengo pure rimproverato di avere scritto e pubblicato troppo – e di aver determinato così la morte di molti alberi per via della cellulosa – debbo dire che la scrittura è anche questo: brama d’immortalità. Scrivere è straordinario, vuol dire venire in chiaro con se stessi, trovare la parola giusta nel punto giusto, quella e solo quella. La parola, la parola contro l’immagine, la parola che viene prima dell’immagine e va oltre la musica, perché la parola è suono più significato. Bene, seconda domanda.

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Ricorda chi è stato il suo “piromane”, la persona che ha fatto nascere in lei l’amore per la scrittura e per il sapere?

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Il famoso piromane, vedo che lei ha letto il mio Elogio del piromane appassionato. Dunque, io ho avuto una fortuna scandalosa e, come tutte le vere fortune, del tutto immeritata. Nel ’42-’43, forse già nel ’41, essendo nato lungo il Po – sono mezzo monferrino – incontrai a Casale Monferrato Cesare Pavese, il quale allora viveva sotto falso nome, perché era stato un anno confinato per antifascismo, anche se in verità non c’entrava niente. Non è mai stato né politico né antifascista, ma gli avevano trovato in casa delle lettere di una signora che invece faceva antifascismo e per questa ragione fu mandato tre anni al confino, a Brancaleone credo, e poi fu graziato due anni. Ad ogni modo, in quegli anni, insegnava materie classiche in un istituto tenuto da religiosi – i padri somaschi – vicino a Casale Monferrato, in un posto chiamato Tarvisio. Lo incontrai per caso e insieme iniziammo a fare lunghe passeggiate per andare al Santuario di Crea. Ho anche scritto un libro su questo, Al Santuario con Pavese, che purtroppo non si trova quasi più.

Ho lasciato casa mia a dieci o undici anni, terminate le scuole elementari – tanto in famiglia non sapevano cosa farsene di me, quindi ho tolto il disturbo – e anche se credo che la fame sia un’ottima scuola e che qualche anno di fame ci vorrebbe per tutti, qualcosa dovevo pur mangiare. Alla fine sono riuscito a guadagnarmi da vivere traducendo, molto spesso da lingue che conoscevo poco, ed è proprio con Pavese che ho cominciato. Nel ’49, grazie alla sua intercessione, uscirono ben tre mie traduzioni da Einaudi: Veblen, Reik e Howard Fast e siccome Einaudi era un pessimo pagatore, pagava poco gli autori e quasi niente i traduttori, Pavese entrava addirittura in sciopero affinché mi pagassero. Ma anche il fatto che non avessi fissa dimora e che fosse difficile trovarmi rendeva tutto molto complicato.

Con Pavese facevamo lunghe passeggiate al Santuario di Crea e parlavamo, anzi, io parlavo, lui era un taciturno. Io sono del ’26 e lui mi pare fosse del 1908, quindi tra noi c’era una generazione di differenza, quasi vent’anni, però devo dire che ho avuto una fortuna incredibile perché dopo le scuole elementari non ho più frequentato regolarmente nessuna scuola – ho fatto la licenza ginnasiale, poi la maturità classica, ma sempre da privatista, da autodidatta – e lui mi ha aiutato molto. Mi contraddiceva, controllava le mie traduzioni dall’inglese, che era una lingua che conoscevo già molto bene benché “da muto”, perché se parlavo inglese non mi capivano e se mi parlavano non li capivo io, ma conoscevo il significato di moltissime parole e trovavo addirittura errori – ma questo non lo dicevo ad alta voce, altrimenti mi avrebbero dato del pazzo – in Shakespeare! Soprattutto, però, debbo a Pavese il culto della parola giusta nel posto giusto, quella parola e non un’altra, vi faccio un esempio: Veblen, in un passo particolarmente difficile da tradurre, scrive “conspicuous waste” che può essere reso con “spreco cospicuo”, “grande spreco”, “spreco non necessario”; una sera, però, mi venne in mente che questo “waste” ricorda il dantesco “guasto”, “la gente guasta” ed in effetti lo spreco è uno sciupio, significa sciupare. E lo stesso conspicere non poteva essere reso con “cospicuo”, perché per Veblen lo sciupio in America rappresenta la prova che qualcuno può spendere, la prova che ce l’ha fatta, che è arrivato… ma per fare questo lo sciupio dev’essere visto e allora non “sciupio cospicuo” ma dalla radice latina conspicere, vedere, “sciupio vistoso”! Allora telefono immediatamente a Pavese, e andiamo fuori in una piola della periferia torinese a bere fino alle cinque del mattino! È così che nasce uno scrittore, con il gusto della parola, della parola giusta nel posto giusto.

Per me quell’anno, il ’49, era stato un anno glorioso: polemizzavo con Benedetto Croce e tutti pensavano che io fossi un professore di scuola media sui sessant’anni che aveva tradotto Veblen, mentre in realtà ne avevo venti ed ero senza fissa dimora… stupendo! Poi però nel ’50 Pavese decise di suicidarsi, mi pare fosse l’ultimo week-end di agosto, all’hotel di Piazza Carlo Felice, l’Hotel Roma, di fronte alla stazione Porta Nuova, dove prese manciate di barbiturici, il Nembutal se non ricordo male. Quel giorno mi chiamò al telefono, ma non c’ero perché mi trovavo a Venezia alla Biennale, portato lì dalla mia ragazza del tempo, Anna Maria Levi, la sorella di Primo Levi. Quindi sì, per tornare alla vostra domanda, Pavese è certamente stato un mio “piromane”. Devo dire, comunque, che sono sempre vissuto in una “terra di nessuno” fra la letteratura e la scienza sociale. Giuseppe Pontiggia mi diceva sempre: “Perché non vieni con noi e lasci perdere questi sociologi?”, ma per me la sociologia è una vocazione talmente profonda che va al di là delle stesse vocazioni. D’altronde, si può anche essere un impiegato delle compagnie di assicurazione come Kafka e poi scrivere. Lo scrivere è un’attività stupenda, difficile, quasi drammatica, ma la puoi esercitare e coltivare ovunque, di giorno e di notte. Quindi la sua domanda è molto difficile perché io son stato un autodidatta.

Un’altra figura molto importante per me è stata certamente Nicola Abbagnano, una persona che mi ha dato una fiducia incredibile. Dovete sapere che il mio relatore, Augusto Guzzo, al tempo ordinario di Filosofia Teoretica a Torino, si rifiutò di firmarmi la tesi di laurea che, ovviamente, avevo scritto tutta per conto mio, mentre ero in Inghilterra. Quando mi presentai da lui con la tesi mi disse: “Ho grande stima di lei, per carità, per me può anche essere un ‘ingegnaccio’, ma è un clericus vagans, non l’ho mai vista. E poi scusi… Veblen?! Io non so nulla di sociologia e neanche mi piace”. Al tempo ero davvero un pessimo ragazzo, non vorrei darvi un cattivo esempio, ma in questo battibecco che venne a crearsi con Guzzo, che era un vero cattolico crociano, osai rispondere: “Ma lei non può trincerarsi dietro la sua ignoranza per non firmarmi la tesi di laurea, che è un atto dovuto!”.

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Gliel’ha detto?!

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Sì! Ma non si dovrebbe… sta di fatto che Abbagnano in quel momento stava leggendo il giornale vicino alla finestra e quindi sentì tutto: “Che succede?” dice rivolgendosi verso di noi. “Il professore non vuol firmarmi la tesi!” gli rispondo volgendo la schiena a Guzzo, e non appena mi chiese quale fosse l’argomento del mio lavoro, risposi prontamente che si trattava della prima traduzione in Europa de La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen, quindi di un lavoro sui fondamenti filosofici della sua sociologia. “Ah! Mi interessa molto, la firmo io!”, mi rispose, e quindi è grazie a lui che sono riuscito a laurearmi. Pensate che nel ’50, quando ebbi l’idea di fare i Quaderni di Sociologia, Abbagnano accettò di fare il mio vice-direttore dicendo che, essendo stata mia l’idea, sarei dovuto essere io il direttore.

Un altro incontro decisivo, poi, è stato quello con Olivetti. Tornato dall’Inghilterra, nel ’48, andai assieme a Anna Maria Levi a casa di Alberto Levi, per non so quale cerimonia, forse un onomastico. Alberto Levi era il fratello di Natalia Ginzburg e anche di Paola Levi, ovvero la prima moglie di Olivetti ed entrambe erano presenti quel giorno. Insomma, mi incontro con questo ometto basso, con gli occhi chiari, biondiccio e un po’ stempiato che mi dice: “Ah, sento dire che lei viene dall’Inghilterra – si capiva subito che tornavo dall’Inghilterra perché avevo una giacca a quadretti, sembravo un bookmaker disoccupato. Ah l’Inghilterra: Clement Attlee, i laburisti… sono straordinari gli inglesi! Winston Churchill vince la guerra e poi gli danno il ben servito, il governo laburista va al potere, e fa le nazionalizzazioni dei servizi, della sanità, delle miniere, dei trasporti…”. Al che io lo guardo e gli dico: “Scusi eh, ma lei non ha capito niente, è un perfetto cretino, non sono mica cose buone queste!”. “Come?! Non vanno bene le nazionalizzazioni?” mi risponde. “Le nazionalizzazioni non cambiano proprio niente, il vissuto operaio non ne è neppure scalfito, si tratta di una pura riforma giuridica!”.  Allora questo ometto si mette a fare: “Ma come?! Ma come?!”, ed io continuo: “Bisogna socializzare il potere, non basta nazionalizzare e cambiare gli statuti giuridici, non conta niente, bisogna socializzare il potere, il vissuto operaio è più importante della lettera giuridica degli statuti”. Lui allora mi inizia a dire: “Ripeta, ripeta quello che appena detto…”, me lo ha fatto ripetere tre volte, e solo quando mi ha chiesto di seguirlo ad Ivrea ho capito che avevo di fronte Olivetti, a cui avevo appena dato del cretino. “Non posso venire a Ivrea, non ho mezzi sufficienti”, gli rispondo, ma lui insistette dicendomi di dargli il mio indirizzo cosicché qualcuno potesse venire a prendermi. Di male in peggio, ero senza fissa dimora! Comunque, alla fine riuscì ad arrivare a Ivrea, dove lui mi propose di iniziare a lavorare al suo fianco come dirigente, offrendomi un ufficio vicino al suo, al terzo piano, con sulla porta una targhetta con su scritto “addetto alla presidenza per i problemi sociali”. Solo che al tempo io ero anarco-sindacalista e quindi con le ditte… ero anarchico, ero proudhoniano, ed infatti dissi ad Olivetti: “Lei è un socialista-libertario-proudhoniano”, ma rifiutai comunque la sua offerta. Pensate, ho rifiutato un posto da dirigente industriale, ma mi è piaciuto molto fare il consulente. L’ultima telefonata che Olivetti avrebbe voluto fare prima della sua morte per infarto nel 1960, sul treno che lo portava a Ginevra, era indirizzata a me. Lo so perché la figlia Laura gli trovò in tasca un biglietto su cui era scritto di chiamare con urgenza Ferrarotti. Ricordo che prendendo il treno mi disse: “Stia pronto, il sette marzo andremo ad Hartford, nel Connecticut, e lei viene con me, abbiamo ormai la maggioranza delle azioni della Underwood e dobbiamo ridurre le loro diciotto linee produttive, tutte passive, a tre. Farò venire da Ivrea dieci dei nostri migliori ingegneri e useremo le loro linee distributive per i nostri prodotti”. Naturalmente, morto lui, di questo piano con la Underwood non se ne è più fatto di niente, anzi, Olivetti fu anche accusato di avergli fatto perdere un sacco di soldi. Morì su quel treno, all’altezza di una piccola stazione chiamata se non mi sbaglio Aigle, dove il treno fu fermato nel tentativo di soccorrerlo.

Comunque, dopo Adriano Olivetti, da un punto di vista filosofico, un filosofo extra-accademico come Felice Balbo ha avuto su di me una grande influenza. Balbo riteneva il marxismo una sorta di eresia cristiana, lo spiego nel mio Il conte di Vinadio. Balbo e il marxismo come eresia cristiana. Lui era di Vinadio, vicino a Cuneo, e diceva sempre di essere il conte di Vinadio per non essere confuso con Italo Balbo, con cui non aveva nulla a che fare. Ma vi dirò una cosa, in realtà nella mia educazione sono stato seguito da un mio cugino primo per parte materna che era un monsignore, Leopoldo. Quindi anch’io come Mozart ho avuto il mio Leopoldo, solo che nel suo caso si trattava di suo padre mentre nel mio, per fortuna, si trattava solo di un cugino. Leopoldo mi ha assistito in quella che era la mia attività di studio, altrimenti sarei stato completamente allo sbando perché non avevo nessuno. Mi ha fatto studiare analisi grammaticale, logica, sintattica, poi siamo passati all’algebra, ai numeri passivi, ai numeri attivi, poi la teoria degli insiemi, le equazioni, ecc. E naturalmente il greco e latino, che erano le due lingue da lui maggiormente apprezzate. Considerava infatti le lingue moderne delle “linguette”, delle mere propaggini, e infatti il gruppo neolatino – italiano, francese, spagnolo, portoghese e rumeno, che è molto vicino al latino – sono indubbiamente delle linguette. Invece una lingua che apprezzava abbastanza era il tedesco perché, come il greco ό ή τό, ha anch’esso l’articolo determinativo in der, die, das, con il neutro. Mi divertivo molto quando lui si arrabbiava constatando che il tedesco aveva sì il singolare e il plurale ma non il duale, e gli dicevo: “Ma ai tedeschi cosa gliene frega del duale, loro hanno Auschwitz! Il prossimo loro lo fanno fuori, non hanno bisogno del duale”.

In tutta onestà, dopo aver fatto per cinquant’anni il professore alla Sapienza, debbo dirvi che in fondo non si impara dagli altri. Aveva ragione Platone quando diceva che noi sappiamo già cose che poi son state dimenticate, è il processo di anamnesi, di memoria, di richiamo. Ciò che si impara veramente è ciò che diventa sangue del nostro sangue, ciò che impariamo da noi stessi. In qualche modo siamo tutti autodidatti. Quindi, per rispondere alla sua domanda, direi che la scrittura è la cura scientifica della parola giusta e questo l’ho imparato grazie alle traduzioni, perché tradurre non significa traghettare le parole da una lingua all’altra ma significa, piuttosto, ricreare una mentalità, un’atmosfera: “tramonto” non è mai semplicemente un tramonto, tramonto può essere un crepuscolo, una fine, un declino, una notte, una sera…. non si può tradurre sunset con “tramonto”, no! Può essere il tramonto degli dei, Götterdämmerung, o un imbrunire. Se non avete il gusto della parola non potete scrivere, per questo i veri scrittori sono così rari, perché non usano le parole consunte dall’uso, non usano l’uso, rifiutano le parole usate. Adesso vi do il libro che ho scritto su Pavese in modo che possiate capire meglio cosa intendo.

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Grazie professore, un’ultima domanda prima di congedarci: come si riconosce la vera eccellenza nella cultura?

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Bisogna stare molto attenti: non si può mai dire quando l’eccellenza viene raggiunta, perché c’è anche un’eccellenza per così dire “ectopica”, strana, che può venir riconosciuta solo tardi. Penso a scrittori contemporanei, anche italiani, come Tommaso Landolfi, un grande scrittore sperimentale, o il mio carissimo amico Giorgio Manganelli, che ha scritto Nuovo Commento, un commento ad un libro che non esiste. Quindi è difficile dirlo, ma la vostra oggi è una situazione complicata perché questa è un’epoca maledetta, un’epoca sciapa. Basta guardare le pagine culturali per capire che la cultura oggi è soltanto spettacolo, quando invece dovrebbe essere un progetto di vita. Cosa vuol dire progetto? Progetto vuol dire avere uno scopo. Cosa vuol dire avere uno scopo? Vuol dire avere una scelta. E scegliere cosa vuol dire? Rinuncia! Si deve cassare con tutto ciò che non c’entra, con durezza, e questo era molto più facile nel mondo della penuria, nel mio mondo, dove mancava la carta, lo spago e dove la gente risparmiava tutto. I giovani di oggi, poveretti, sono deconcentrati perché vengono bombardati da stimoli, da informazioni, e quest’eccesso sovrabbondante di informazioni crea un chiasso interiore che impedisce di venire in chiaro con se stessi. La cultura come progetto di vita!

Io ho avuto la fortuna di conoscere vecchi universitari come Santo Mazzarino, autore de Il basso impero e de La fine del mondo antico, o Raffaello Morghen, che insegnava a capire il Medioevo leggendo i testamenti e interpretando le lapidi mortuarie. Queste figure oggi non esistono più, e al loro posto c’è solo una marmaglia.  Oggi la lettura è una lettura orizzontale, in estensione, non va in profondità. La cultura, allora, può essere spettacolo o progetto di vita, e chi sceglie la seconda via deve farsi un progetto, deve scegliere e quindi rinunciare. La concentrazione… tremenda. Oggi non c’è più, viviamo in uno stato di deconcentrazione continuo. Non sto facendo una critica approfondita, sto semplicemente prendendo atto. Cultura può essere intesa in maniera antropologica, quindi come modo di vita, come l’insieme delle esperienze condivise e convissute; poi c’è la cultura come valore, e quella è una scelta, un progetto, ed oggi è molto difficile averne accesso, ma uno scrittore autentico resta qualcuno che ha un progetto di vita culturale.

In fondo cosa sia l’eccellenza nessuno può dirlo, ma oggi raggiungerla è senz’altro più difficile di una volta, perché nel mondo della penuria già le condizioni di fatto trasceglievano i pochi che potevano continuare, e non erano necessariamente i ricchi come si sarebbe portati a pensare. Molta gente nata nel nulla e vissuta nella fame alla fine è riuscita ad arrivare. Si può dire che oggi la ricchezza delle informazioni è così debordante da impedire il crescere di un’autentica vocazione, e allora la gente è ansiosa, i giovani specialmente sono ansiosi, perché questa società in realtà è ansiogena. Nessuno sa di cosa in realtà si vada in cerca, ci sono troppe cose, troppe, e quindi nessuna, un vero deserto interiore. Beh, mi dispiace non avere più tempo… ma, mi dica, ci sarebbe ancora qualche domanda?

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L’ultima domanda sarebbe sulla musica, perché sappiamo che lei, come noi, è un grande appassionato…

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Certo! La musica ha un’enorme funzione nella società, ha una funzione di accorpamento, di unione… pensate agli inni musicali nazionali e a cose del genere. Ma stiamo attenti: la musica oggi non è più musica, è rumore organizzato, e allora torniamo al “tam tam” degli aborigeni. Purtroppo però non ho tempo di parlarvene, vi darò qualcosa che ho scritto a tal proposito.

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Grazie infinite professore.

 

 

Roma, 22 Ottobre 2019

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European Journal of Psychoanalysis