Lo ‘Stato’ di natura all’epoca del coronavirus

L’altro ieri Giuliano Ferrara così scriveva su “Il Foglio”

“Una corrispondenza di Antonello Guerrera per Repubblica e una di Mark
Landler per il Times, oltre alla visione della conferenza stampa di
Boris Johnson e dei suoi consiglieri per la sanità Chris Whitty e per la
scienza Patrick Vallance, rilanciano il tema della “grande scrematura”
da noi affacciato una decina di giorni fa.  Charles Darwin o il suo
profilo caricaturale sogghigna, con la sua bella barba, i suoi complessi
religiosi e fideisti, la sua teoria dell’evoluzione e della selezione.
Certo, uno fa di tutto per evitare la morte delle persone, certo, ma il
ricambio delle generazioni è il rinnovamento del mondo via sostituzione
dei vecchi con i meno vecchi.  Via, queste cose si sanno.  Ci eravamo
domandati qui poco fa, girando la domanda al professor Francesco
Giavazzi: sarebbe migliore o comunque senza alternative civilmente
superiori un mondo scremato di chi non ce la fa a resistere a una
pandemia di polmonite che strozza le vie respiratorie con la violenza
del coronavirus?  La risposta, dall’alto del cinismo di gente implicata
direttamente nel ricambio per via dell’età, era stata un agghiacciante e
tecnico: sì.  I costi della vecchiaia sono altissimi, quasi
insopportabili, e non sarebbe la prima volta che civilizzazione e natura
si trovano alleate in una selezione demografica spinta.  Ora in Europa e
in occidente un paio di conti non tornano.  L’Italia, paese del
melodramma e di una radicata quanto invisibile cattolicità, ha chiuso i
battenti per impedire l’estensione del contagio, e chissenefrega
dell’economia, del profitto, delle relazioni internazionali, non si
balla sul Titanic, tutto va sulle spalle dello stato che impone la
quarantena.  Ma è sola.  La Francia oscilla, paese latino cattolico e
protestante, chiude scuole e università ma non rinvia come noi le
elezioni locali (noi anche un referendum costituzionale).  Macron offre
un set di prescrizioni stringenti, ma ancora niente quarantena, teatri
aperti e il resto socchiuso.  Chissà quanto durerà ma per adesso è così.
In Germania, paese da cui trapela pochissimo della realtà del contagio,
in certo senso sembra la Cina del mese di dicembre o di gennaio 2020, la
Merkel, che non è una passante, dice con linguaggio piano e medio, il
suo, che il 60-70 per cento dei tedeschi quest’influenza prima o poi
dovrà prendersela.  Ma la strategia anticontagio è lasciata
impregiudicata, non si capisce ancora bene che cosa faranno.
Entra in gioco la Gran Bretagna.  Ha appena riacquistato quella che
considera la sua indipendenza.  Ha ripreso la sua vocazione
transatlantica e imperiale, multilaterale, marittima.  Ha un primo
ministro disinibito con una maggioranza di un’ottantina di deputati, il
partito Tory avendo prevalso su un imbecille vecchio socialista che ha
portato il Labour alla peggiore sconfitta dal 1935.  Sul piano politico e
d’immagine, la preparazione di questo grande paese, l’ora più buia
eccetera, consiste in un appello del primo ministro di Sua Maestà:
abituatevi all’idea che perderete prima del tempo alcuni dei vostri
cari.  Il che risuona come un sì alla “grande scrematura”, e si noti
l’accenno all’anticipo dei tempi (vogliamo mica vivere tutti fino a
ottanta o novant’anni?).  Sul piano scientifico, e sono molto curioso di
sapere se questa intuizione empirica ha basi vere nella virologia e
nell’epidemiologia all’ora del caro corona, il consigliere Vallance dice
che se il 60 per cento dei 69 milioni di britannici (si notino le
percentuali merkeliane) si becca l’influenza polmonitica, allora ci sarà
l’immunità di gregge e il problema sarà per lo più risolto.  Quattro,
cinquecentomila morti in questo quadro non sono un problema, doloroso
dirlo, ma la soluzione.  Nel frattempo, salvo consigliare chi è malato di
starsene a casa e vedere come va, salvo sconsigliare gite scolastiche e
altri assembramenti da crocieristi, si esclude rigorosamente la chiusura
delle scuole e delle Università e la paralisi della società commerciale
finanziaria e produttiva (bè, per gli advisor di BoJo tutto questo
sarebbe solo un palliativo).  Bisognerebbe, pare di capire, puntare su
una chiusura di un anno e mezzo, almeno, con conseguenze perniciose per
il paese della Brexit in trattativa sul suo destino e con un futuro
indipendente in costruzione, non se ne parla.  Almeno per adesso.  Ma
chiudere per riaprire dopo aprile, che per Eliot era il più crudele dei
mesi, è una bizzarria melodrammatica in tutto degna degli italiani.”

In sintesi, la questione posta è: “sarebbe migliore o comunque senza
alternative civilmente superiori un mondo scremato di chi non ce la fa a
resistere a una pandemia di polmonite che strozza le vie respiratorie
con la violenza del coronavirus? “

.
A parte ogni giudizio di valore, devo preliminarmente notare
che, allo stato, la domanda è (crono)logicamente improponibile per
indisponibilità attuale della scelta: la pandemia è già stata
dichiarata; oltretutto questo effetto consegue, stando al ‘ragionamento’
proposto, proprio per le misure adottate già inizialmente in Cina, un
paese notoriamente non cattolico  (non so quanto melodrammatico) e
comunque storicamente e politicamente poco incline a sentimentalismi.  Ma
la vera fallacia sta nel proporre come risultato di una ‘scelta’, cioè
di una derivata della libertà  di giudizio, il passivo affidamento alla
mera economia biologica.  Dal momento in cui nel percorso evolutivo è comparso
Homo (già prima che sapiens e doppiamente sapiens) la teoria dell’evoluzione ha
dovuto integrare nella sua teoria (rischiando la sua stessa fondatezza)
comportamenti biologicamente insensati e prospetticamente sfavorevoli.
Proprio perciò, tra l’altro, nelle parti del mondo in cui ha maggiore
espressione il ’disagio della civiltà’, l’età media e la speranza
(guarda un po’ che parola!) di vita sono ‘irragionevolmente’ aumentate.
Quindi la posizione proposta, per avere senso, dovrebbe,
autoconfutandosi (dunque riconfermandosi insensata) dichiarare che, in
generale, la facoltà, tipicamente umana, di scegliere indipendentemente
da vincoli biologicamente preordinati sia invece tenuta a uniformarsi a
essi, sconfessando tutta la storia della nostra biologicamente
irrazionale umanità; o, tutt’al più, dovrebbe limitare tale scelta
‘dis-umana’ a casi eccezionali, per i quali è noto o almeno
plausibilmente calcolabile il rapporto costi/benefici.  Ma non è questo
il caso del coronavirus: in realtà ne sappiamo ancora troppo poco per
estrapolare dati prospettici relativi al suo impatto sulla popolazione
di un dato gruppo e sulle percentuali per fasce di età.  Inoltre, stante
la pandemia ormai vigente (il deprecato, a tempo scaduto, rischio del
‘test’ proposto), il paese che volesse seguire il criterio ‘scremante’
si troverebbe a dover ‘desiderare’ la pandemia per approfittarne e
favorire così  (‘intra moenia) l’auspicata immunità di ‘gregge’
(appunto!).  E comunque le misure riportate per gli altri paesi europei e
per gli  stessi USA vanno modificandosi ‘esponenzialmente’ a mano a mano
che il contagio aumenta, divenendo meno lontane dalle italiane, esse
stesse progressivamente modificatesi.
Per tornare a un discorso più ‘umano’: non credo si tratti di un aut aut
fra contenimento alla diffusione e attesa dell’immunità di gregge,  ma
di uno sforzo di integrazione fra due vettorialità.

Qualcuno potrebbe replicare (di fatto è già successo in altra sede) “La
c.d. proposta mi pare in effetti una scelta tra una inclinazione
‘passiva’, verso una accettazione della dimensione biologica, né
razionale o irrazionale, né buona o cattiva, solo necessaria e capace di
autoregolarsi; e una inclinazione ‘attiva’, mirante a utilizzare gli
strumenti della cultura, quelli sì razionali o irrazionali poiché
finalistici, quindi provvisoriamente adeguati o inadeguati a seconda del
livello di conoscenza, per correggere la biologia.  E questa inclinazione
attiva non accade da quando c’è Homo, sapiens o sapiens al quadrato, ma
da una manciata di migliaia di anni, una inezia rispetto alla
traiettoria di alcune centinaia di migliaia di anni di vita del povero,
imperfetto Homo S .  Bada bene: la mia storia, educazione, inclinazione
(cultura?) mi pone da un lato ben preciso, pure non si può non
considerare, come da più parti si comincia a fare, questo richiamo alla
natura e alle sue autoregolazioni, che non guardano mai alle storie
individuali ma solo ai grandi numeri”.

.
Ma io gli risponderei:

.
Tu dici che la scelta sarebbe fra “una inclinazione ‘passiva’, verso una
accettazione della dimensione biologica, né razionale o irrazionale, né
buona o cattiva, solo necessaria e capace di autoregolarsi; e una
inclinazione attiva, mirante a utilizzare gli strumenti della cultura,
quelli sì razionali o irrazionali poiché finalistici, quindi
provvisoriamente adeguati o inadeguati a seconda del livello di
conoscenza, per correggere la biologia”.
Ecco, a me non pare che in nessun caso noi, ironicamente autodefinitici
‘sapientes’, da quando l’evoluzione ha corso il rischio di farci
apparire sulla scena di questa terra potremmo definire ‘passiva’ una
scelta; nemmeno quella della “accettazione della dimensione biologica”,
proprio perché è una ‘scelta’, dunque ‘attiva’ e cioè tautologicamente
‘culturale; anzi, in casi drammatici come questi, la ‘scelta’ è più che
mai ‘culturale’.  Noi umani, più ‘sapientes’ siamo, più abbiamo la
‘maledizione’ di essere consapevoli delle stesse ‘cieche’  leggi di
natura alle quali possiamo anche decidere di affidarci, ma
inevitabilmente ‘a ragion veduta’.  E’ una strana condizione la nostra,
che sterminiamo altre specie viventi e poi ci affanniamo per
salvaguardarle dalle estinzioni, distruggiamo l’ecosistema e diamo
l’allarme per salvare il pianeta; costruiamo abitazioni fragili in zone
sismiche e quando viene un terremoto scopriamo virtù eroiche rischiando
la nostra vita per tentare di salvarne anche una sola dalle macerie,
riusciamo a far sopravvivere figli che altrimenti dovremmo gettare dalla
rupe del Taigeto (anche questo è ‘umano’)…e potrei continuare a lungo
a elencare le nostre connaturate contraddizioni.  Dunque la scelta di cui
stiamo trattando non può che essere valutata culturalmente, che vuol
dire ‘giudicata’ nella sua logicità, razionalità e valorialità.  Non ho
neppure sfiorato l’ultimo criterio, ma sulla logica e razionalità ho
provato a chiarire la mia opposizione.  A parte quella empirica
sull’inesistenza dell’alternativa nella fattispecie a pandemia
conclamata, quali criteri ‘razionali’ giustificherebbe in questa
circostanza l’applicazione di una decisione tanto grave, non avendo a
tutt’oggi alcun criterio credibile per valutare (contare) i costi (i
morti) rispetto ai benefici (immunità di gregge)?  Mi hanno richiamato il
”lassammo fa’ a Dio’ di Salvatore Di Giacomo
(https://www.youtube.com/watch?v=WoeoWYzRGb4 ; ma, a ben guardare, questa
non è altro che una versione ‘sublimata’ del ‘lasciamo fare alla natura’.

Vi saluto, tutti e ognuno come ormai sto concludendo ogni mia
interlocuzione, con una antica locuzione latina che, forzando un po’ la
sua forma condizionale, ci permette di evocare concetti come Mitwelt,
Mitsein, Miteinandersein, che di questi tempi mi sembra utile ricordare:
Vale si valeo.

PS aggiungo questi due supplementi: Per restare alla ‘fredda’ obiettività
(sul giudizio di valore non credo ci sia tanto da discutere) soltanto
due osservazioni:

.
1- per l’immunità di gregge: finora non abbiamo acuna ragione per essere
del tutto certi che il solo contagio la garantisca appropriatamente,
neppure per tempi brevi (gli altri corona comunque non la garantiscono
a’vita’).  Quindi la ‘scommessa’ sarebbe comunque avventata, non essendo
calcolabile il rischio:

2-non esagererei in contrapposizioni monolitiche fra le scelte come
finora apparse: un ‘fotogramma’ non ci permette, soprattutto in queste
condizioni ‘nuove’ in cui le cose cambiano rapidamente, di estrapolare
lo sviluppo ‘cinematografico’; anche in Italia c’è stata una inevitabile
resistenza a inseguire la velocità dei cambiamenti e già oggi le notizie
dei provvedimenti negli altri paesi europei li descrivono molto più
assimilabili ai nostri italiani.  Perfino in GB sono comparse prime
indicazioni controtendenza rispetto a quelle iniziali.

Biografia dell'autore:

Giovanni De Renzis, psichiatra e psicoanalista, membro associato della SPI. E’ stato per molti anni redattore della “Rivista di Psicoanalisi”.  Negli anni iniziali della sua presenza nella SPI, già prima dell’associatura, ha partecipato, nei limiti consentiti dalla distanza geografica, con Enzo Morpurgo alle iniziative di Psicoterapia Critica, condividendo l’iniziativa editoriale del “Progetto psicoterapico”.  Negli anni ’8a ho insegnato psicoterapia presso la Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’Università di Napoli.  Nel decennio successivo è stato membro della Commissione ministeriale per l’inserimento della psicoterapia nel SSN; ha compilato i lemmi “Desiderio” e “Immaginario”, per “Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze” (Einaudi, 2006) e “Rappresentazione” e “Simbolo” per il “Dizionario internazionale di psicoterapia” (Garzanti, 2012).  E’ autore di molte pubblicazioni in libri e Riviste nel più vasto anbito delle cd ‘scienze umane’, tra cui ricorda soltanto: la sua prima presenza nella Rivista di Psiconalisi della SPI (1978) per il valore simbolico e affettivo che conserva per lui, essendo questo il suo titolo: “L’uomo col magnetofono” e questi i suoi autori: E. Fachinelli e G. de Renzis; e ancora: “La mente è estatica. di ciò non so nulla”, in Notes per la psicoanalisi (2012), perché vi è contenuta una sua problematica interlocuzione con il testo di Fachinelli forse oggi più ricordato.

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European Journal of Psychoanalysis