BRUNO MORONCINI (Napoli 1946 – Napoli 2022)

Bruno Moroncini (Napoli, 1946 – Napoli, 2022) ha insegnato Filosofia morale, Antropologia filosofica e Psicologia clinica nelle Università di Messina e Salerno. Tra le sue pubblicazioni: La comunità e l’invenzione (Cronopio, 2001); Il sorriso di Antigone. Frammenti per una storia del tragico moderno (Filema, 2004); Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz (Quodlibet, 2006); L’autobiografia della vita malata (Moretti & Vitali, 2008); Walter Benjamin e la moralità del moderno (Cronopio, 2009); Gli amici non si danno del tu (Cronopio, 2011); Il lavoro del lutto: materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin (Mimesis, 2014); Perdono, giustizia, crudeltà. Figure dell’indecostruibile in Jacques Derrida (Cronopio, 2016); La morte del poeta. Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini (Cronopio, 2019); La lettera che cade. Jacques Lacan e l’uomo come scarto (Orthotes 2022); Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone (terza edizione accresciuta, Cronopio 2022).

Carmelo Colangelo

Bruno Moroncini è scomparso il 12 dicembre 2022 a Napoli.

Verranno presto il tempo di un ricordo più meditato e occasioni per discutere il suo complessivo – e ricchissimo – itinerario intellettuale. Già ora, nell’immediatezza della perdita, desideriamo però ricordare e salutare il collega, il maestro, l’amico per l’intensità del suo contributo alle tematiche della Filosofia morale e al loro sviluppo.
Dal 2001 professore Professore Ordinario di Filosofia morale presso il Dipartimento di Scienze umane, filosofiche e della formazione dell’Università degli Studi di Salerno, Bruno Moroncini ha offerto letture innovative e acutissime di Walter Benjamin, Jacques Derrida, Jacques Lacan, a cui ha dedicato pagine rigorose e avvincenti per concatenazione dimostrativa, capacità di interpellazione, eleganza di dettato. La sua interrogazione insistita dei rapporti tra filosofia e prassi discorsiva psicoanalitica è tra gli snodi maggiori e più fruttuosi della sua riflessione. I suoi testi, il suo appassionato insegnamento testimoniano una ricerca rigorosa, libera, irrequieta, continuamente intesa all’ideazione di prospettive etiche capaci di far fronte agli enigmi del nostro presente.

 

Gianni de Renzis – Un ricordo di Bruno Moroncini

Ci ho pensato e ripensato, ma infine mi sono risolto a “autorizzarmi” a proporre qui un mio timido e certo inadeguato ricordo di Bruno Moroncini. Qui, perché proprio in questo ambito negli ultimi tempi, insieme a tutti voi, ho avuto le più frequenti opportunità di condividere le sempre stimolanti interlocuzioni con lui.

Mi sono autorizzato da me, ma permangono in me tante fondatissime esitazioni che a questo punto e prima di proseguire non posso fare a meno di esplicitare a chi legge le ragioni della resistenza a questa mia ‘esposizione’, come a chiedere se non una piena assoluzione, almeno una qualche benevolente ‘comprensione’.

Dunque: io sono un medico psichiatra, non sono un filosofo (anche se non mi sono mai liberato dalla fascinazione della filosofia, giustificandomi con la considerazione forse fin troppo ovvia che in fondo si tratta di un’attitudine umana ‘generica’ prima che di una ‘professione’); non sono un analista lacaniano (sono psicoanalista di scuola freudiana di “rito viennese antico ed accettato”, anche se provo da molto tempo a confrontarmi con il pensiero di Lacan, riconoscendovi un’eminenza imprescindibile che trascende lo stretto àmbito ‘specialistico); non appartengo nemmeno al mondo dell’Università, da cui (mi) sono stato ‘espulso’ in virtu’ dell’onda del ‘68, Non avrei perciò i requisiti minimi per pretendere di affrontare con un minimo di credibilità il pensiero di Bruno Moroncini. Certo non all’altezza della sua rilevanza filosofica; ma neppure rispetto alla peculiarità della appassionata, approfondita attenzione da lui dedicata a Lacan, originalmente proposto non come l’oggetto di una qualche speculazione filosofica, ma come il soggetto in grado di interrogare criticamente la stessa filosofia, fin dai suoi stessi presunti fondamenti. Infine non posso neppure pretendere di aver condiviso con lui momenti di confidenziale amicizia, nel senso più consueto del termine. Mi resta soltanto, in quanto napoletano, una conoscenza che risale ormai a tempi davvero antichissimi, almeno all’inizio, parlo degli anni ’80, soltanto indiretta e poi per la sua convinta partecipazione alla coraggiosa, quasi temeraria iniziativa editoriale avviata da Maurizio Zanardi con Cronopio.

Ma allora, per quanto esitante, che cosa mi ha infine spinto a correre il rischio di espormi in questa pretesa di autorizzazione, di lasciapassare? Può sembrare strano, ma in fondo è la logica conclusione: esattamente l’infondatezza di questa pretesa, proprio in quanto non garantita da alcuna mia qualità particolare, proprio in quanto proveniente da qualcuno che è poco più di semplice ‘testimone’.  Quello che voglio dire che è proprio nella capacità di Moroncini di attivare coinvolgimenti, di lasciare un segno anche al di là della cerchia delle persone più prossime per vicinanze famigliari, amicali o lavorative, la vera giustificazione di questa mia altrimenti infondata presa di parola. Insomma, a ben vedere, non mi autorizzo da me: mi autorizza la rilevanza ‘esuberante’ del pensiero e della personalità di Bruno Moroncini.

E perciò, fin dal titolo di questo intervento, ho tenuto a dire che il mio è soltanto un ricordo di (non in ricordo, neppure in memoria di o per Bruno Moroncini o ancora a…) Come a voler contenere nei limiti di una rispettosa simpatia questo ricordo, senza alcun eccesso dedicatorio, senza alcuna indebita familiarità (anche se un testo di Moroncini avvertiva che Gli amici non si danno del tu). Un ricordo, infine, di Bruno Moroncini, cui continuerò dunque a riferirmi evitando la semplificazione del solo nome di battesimo con cui pure, ovviamente, prima che ci lasciasse, reciprocamente ci parlavamo.

Il mio primo incontro personale con Moroncini risale alla metà degli anni ’90, quando fummo insieme richiesti di presentare da Virginia De Micco, curatrice dell’edizione italiana, il libro di Wolfgang Loch Psicoanalisi e verità. Lo ricordo non soltanto perché in quella occasione ebbi modo di riconoscere immediatamente in Moroncini una cultura (un sapere e una intelligenza) non comune, non soltanto per quel suo stile personale particolarissimo, fatto di disponibilità dialogica ma al contempo di rigorosa proposta delle proprie tesi e quasi schivo riserbo nel contegno comunicativo, ma ancor più perché quel titolo, quel tema, “psicoanalisi e verità” – lo avrei compreso sempre meglio col passare del tempo – racchiudeva in una sorta di endiadi la “questione” in cui Moroncini avrebbe sempre più riconosciuto il suo più proprio argomento, logico, epistemologico e, infine, riassuntivamente etico: la questione della verità cui la certezza autofondativa del cogito cartesiano, raggiunta attraverso il travagliato percorso della revoca in dubbio di ogni fiducioso ricorso alla affidabilità dell’Altro, non soltanto non forniva più alcun ‘appoggio’, ma al contrario rendeva definitivamente ‘orfana’ e per così dire ‘in cerca di autore’. Objekt e non Gegenstand, garantita ormai soltanto dal rigore etico di una ricerca mossa dall’unico tragitto percorribile, quello indicato da un inesausto ‘discorso del metodo’, guidato da una ‘altra’ fiducia, quella nella causa (in tutti i sensi del termine) del proprio ‘desiderio’: unica religione (ma solo nel senso di un dispositivo di com-unione, forse meglio: di con-divisione) laica (se mi è consentito usare questa attribuzione su cui egli aveva espresso, con la consueta intelligenza critica, più di una riserva) in cui si riconosceva e che teneva a testimoniare.

Bruno Moroncini era sempre generosamente disponibile, aperto con attenzione critica alle riflessioni che lo chiamavano esplicitamente al confronto o a cui lui sentiva di voler portare il suo contributo. Un contributo portato con quel suo eloquio piano discorsivamente ‘ragionante’; con quella sua espressione particolarissima, per lo più gentile, alquanto sorniona, spesso enigmaticamente sorridente fino a risultare allusivamente ironica, ma anche talvolta palesemente contrastata. Un contributo mai scontato, mai conclusivo (‘occludente’), ma invece sempre capace di rilanciare, di riaprire un’ulteriorità di elaborazione, che spesso mi sorprendeva per l’adesione pressocché immediata con cui, almeno a me, capitava di riconoscermi consenziente: come se mi trovassi portato per mano a dirmi: ‘ma, certo, ma come ho fatto a non pensarci prima’!

Si tratta di un’esperienza che ho ritrovato innumerevoli volte anche nella lettura dei suoi testi; neppure avevo messo a fuoco un interrogativo, una perplessità che a un certo punto mi sembrava di poter riconoscere rispetto a qualche passaggio del suo discorso, articolato, complesso, ma (di)spiegato con socratica ancorché implicita attitudine dialogica, che già in un passaggio immediatamente successivo trovavo la ‘soluzione’ alle mie domande… che a sua volta ri-invitava al piacere, non scontato, della prosecuzione di una lettura davvero ‘dialogica’, spesso ritornante nelle tematiche che più gli stavano a cuore, eppure sempre sorprendente per l’originalità delle risposte che proponeva alle sue stesse domande.

Ma allora sì, procedendo faticosamente in queste mie impressioni, ho preso fiducia, magari potrei anche dire di riconoscermi infine, anche io, in un qualche modo, suo amico: proprio continuando a mantenere un doveroso rispetto e senza avere ora l’ardire di interpellarlo con quel tu confidenziale che disinvoltamente potevo usare prima.

Mi permetto dunque di concludere riportando qui, quasi fantasticando che in qualche modo la cosa possa ‘riguardare’ anche me (ma solo per dire tutti noi, almeno tutti quelli che leggendo queste note possono riconoscere in esse una qualche consonanza), questi stralci da un brano che, mentre procedevo in questo ricordo, la memoria mi ha condotto a rintracciare dall’ultimo libro di Moroncini che avevo letto, La lettera che cade, Jacques Lacan e l’uomo come scarto:

“Perché vi sia comunità, anche la comunità minima rappresentata dalla coppia, dall’io e dall’altro, da me e te, è necessaria la sopravvivenza, è necessario che uno sopravviva all’altro e che da questo spazio della sopravvivenza lo invochi e prenda il coraggio o abbia l’arroganza di dire noi. ‘Noi ci siamo amati’, per esempio. Noi, quindi, la possibilità di dire noi, la sua stessa esistenza, presuppone la morte dell’altro, ne dipendono e di conseguenza lo esigono. Da qui il dolore e la vergogna connessi al prendere la parola: si parla infatti sempre al posto di un altro e in suo nome, si parla e si dice noi sempre a partire dalla morte dell’altro, vale a dire da un altro morto, da questo morto qui, una volta in carne e ossa, da questo altro talmente determinato e singolare […] ora che si scopre che per il solo fatto di essergli sopravvissuti, si è divenuti, senza volerlo o in verità avendolo voluto da sempre, la sua sopravvivenza, il suo modo di continuare a morire senza morire che è quanto intendiamo quando diciamo che qualcuno o qualcosa sopravvive”.

La lettera che cade, che già per il suo solo titolo mi rimanda a un altro memorabile testo di Moroncini: Il discorso e la cenere

Tutto ciò letto, riletto e detto e confermato… addio, mio caro Bruno,

Gianni de Renzis.

 

Sergio Benvenuto – A Bruno

L’European Journal of Psychoanalysis piange un suo grande collaboratore e sostenitore, ma chi scrive piange anche l’amico. Amico da decenni.

Di lui chiunque l’abbia conosciuto dice che era persona mite e gentile, eppure sono riuscito a far emergere da lui anche un io battagliero. In effetti, non nascondo affatto che la nostra amicizia ha avuto momenti burrascosi, perché spesso non eravamo d’accordo su questioni teoriche. Eppure, il giorno dopo, amici come prima. Le nostre sfuriate erano conviviali, accompagnavano la cena e si mescolavano col vino. Entrambi eravamo persone entusiaste di quel che pensano, per cui eravamo entrambi entusiasticamente polemici. Lui sapeva che non condividevo il suo marxismo, ma questo non gli ha impedito di chiedermi di presentare pubblicamente uno dei suoi libri su politica e psicoanalisi.

Moroncini è stato uno di quei filosofi – ben pochi – che in Italia hanno coniugato filosofia e psicoanalisi, sulla scia di Jacques Derrida, il filosofo moderno che ha dato più importanza in assoluto alla psicoanalisi, facendo di essa fonte di ispirazione filosofica. In questa prospettiva che univa Derrida a Benjamin, Bruno ha studiato e capito profondamente Jacques Lacan. Dalla lettura di Lacan nel seminario Il transfert, Bruno ha tratto un gioiello di scrittura, “Sull’amore”, qui riprende la lettura lacaniana del Simposio platonico con spunti molto originali. Credo che riflettere sull’amore, “ragionare d’amore” come dicevano i medievali, interrogarsi sull’amore, fosse il tema che lo toccava di più, anche filosoficamente.

Eppure so che Bruno non si è mai impegnato a fare analisi. Ciò non gli impediva di capire molto meglio di molti clinici la pratica analitica. Egli, come me, insegnava alla Scuola di Psicoterapia ICLES a Napoli, promossa dal compianto amico Fulvio Marone, psichiatra e psicoanalista, anche lui collaboratore del nostro Journal. In un Seminario al quale sia Bruno che io eravamo presenti, Marone illustrò un caso clinico, e chiese al pubblico – nel quale alcuni non erano affatto principianti – come valutare psicoanaliticamente quel caso. Ci furono solo risposte confuse. Poi si alzò Bruno e in poche frasi inquadrò perfettamente il caso clinico, io non avrei potuto dirlo meglio. Lui che non aveva mai fatto pratica clinica. Ma era colto e intelligente, però cultura e intelligenza spesso non vanno assieme e quindi non producono quella misteriosa congiunzione che si chiama “capire veramente le cose”. Del resto, gli allievi della Scuola dicevano che, grazie alle sue lezioni, si capiva finalmente qualcosa di Lacan… Da qui mi venne fuori la battuta: forse solo i filosofi – se sono bravi – riescono a spiegare bene la psicoanalisi, soprattutto ai clinici in formazione.

Con la sua scomparsa, purtroppo molti giovani capiranno meno le cose. E io non avrò più la gioia delle amichevoli sfuriate con lui.

Sergio Benvenuto.

 

«Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini. Conversazione con Bruno Moroncini» di Doriano Fasoli. 

Apparsa su La letteratura (On Literature) il 28 marzo 2019.
https://sullaletteratura.blogspot.com/2019/03/potere-e-storia-ditalia-in-pier-paolo.html

Professor Moroncini, quando Pasolini avverte per la prima volta che i tentacoli del Potere si stanno insinuando lui?

Non saprei datare con assoluta precisione il momento in cui Pasolini si rende conto di essere anche lui parte, sebbene in un modo periferico, del potere, né so se ciò sia possibile di per sé. Quel che è certo è che da un certo punto in poi, verso la fine degli anni ’60, forse per la notorietà procuratagli dal cinema, Pasolini incomincia ad avvertire che la gente intorno a lui lo considera un uomo di potere. È lui stesso a darne testimonianza: in un articolo del giugno del 1969, intitolato Travestiti da poveri, racconta una sua esperienza accadutagli in Turchia dove si è recato per girare alcune scene di Medea. Il sindaco della cittadina dove si trova, accortosi della sua presenza ad una rappresentazione teatrale, lo tratta con grande deferenza, lo fa sedere in un posto d’onore del teatro all’aperto, insomma fa gli onori di casa all’ospite famoso. Pasolini si interroga allora su due cose: sul fatto che anche lui è trattato come una persona importante, di potere, e che il povero sindaco della cittadina turca soggiace al fascino che promana dal potere. Il punto è che questo fascino lo prova anche Pasolini, che lo confessa nello stesso articolo ricordando l’emozione intensa e sconvolgente che ha provato all’apparizione in un film di Miklòs Janksò di un gruppo di ufficiali ungheresi a cavallo che incarnavano ai suoi occhi la forma più estrema del potere, quella della possibilità di infliggere la morte. Ne era totalmente affascinato. Credo che da queste esperienze nasca la riflessione sul potere che occupa l’ultimo Pasolini e in che in esse siano presenti in nuce anche le tesi della abiura della Trilogia della vita.

Non era scettico Pasolini, come tanti intellettuali, nei confronti della psicoanalisi? Perché poi vi fa ricorso nella stesura di Petrolio? 

Non so se Pasolini fosse scettico nei confronti della psicoanalisi: come ho scritto nel libro il rapporto che aveva con i saperi era ‘sagittale’, la lettura e l’uso che fa della semiotica, della sociologia e della psicologia, per non parlare del marxismo e di Gramsci, assomiglia, per dirla con Foucault, ad una freccia scagliata nel cuore dei saperi o a ‘un piano ideale d’immanenza che li divide lungo il loro asse’. Aspettarsi da Pasolini una conoscenza accademico-universitaria della semiotica, della sociologia e della psicologia, è tempo perso. Può darsi quindi che il suo non fosse scetticismo ma, per parafrasare Hölderlin, ‘un libero uso di ciò che è proprio. 

In verità, a me sembra che, Pasolini, scettico nei confronti della psicoanalisi, non lo fosse affatto, anzi mostrasse un interesse fortissimo per Freud e per molti dei suoi allievi, soprattutto Ferenczi, anche se si può dire che il suo era un uso ludico-inventivo della psicoanalisi.  Cita anche Lacan più volte, nonostante sia quasi impossibile individuare che cosa possa aver letto degli Scritti, disponibili in italiano già dal 1966. Mi conforta d’altronde il fatto che una studiosa che di Pasolini ne sa sicuramente più di me ritenga non solo attestata la presenza della psicoanalisi nella sua produzione   ma prenda sul serio la sua affermazione di aver letto precocemente’ tutto Freud’. Mi riferisco a Silvia De Laude che ha scritto sull’argomento un bel saggio che apparirà prossimamente in un volume collettaneo sul romanzo italiano pubblicato da Carocci. Per rispondere quindi alla sua domanda, penso che Pasolini faccia ricorso alla psicoanalisi sempre e non soltanto in Petrolio.

In cosa consiste precisamente il fascino del fascismo?

Come aveva dimostrato Elvio Fachinelli, il fascino del fascismo, il cosiddetto ‘fascismo eterno’ di cui parla Umberto Eco, nasce anche per Pasolini dalla capacità di legare in un sintomo (termine da intendere nel senso proprio della psicoanalisi) due correnti contraddittorie che appartengono alla vita storica dei popoli e che non possono non ripercuotersi su quella psichica dei singoli: la caducità di tutte le cose umane e il bisogno altrettanto primordiale di sicurezza e continuità. Come aveva dimostrato Elvio Fachinelli, il fascismo storico era stato la risposta sintomale all’effetto della prima guerra mondiale, vale a dire alla morte della Patria. Da un lato il fascismo con il suo tratto rivoluzionario la faceva propria (fine dell’Italia liberale e risorgimentale), dall’altro con il ricorso al passato romano la negava. Il passato remoto stabilizzava la turbolenza del passato prossimo e permetteva di leggere la discontinuità e la rottura come fattori di stabilizzazione. Il dispositivo psichico in atto nel fascismo storico era quello della rimozione: nel momento in cui la rappresentazione inaccettabile della morte della Patria fosse stata rimossa, ad essa era consentito ritornare nella forma del sintomo, nascosta sotto la rappresentazione sostitutiva del passato vittorioso. La controprova era nel fatto, individuato correttamente da Pasolini, che se la rappresentazione rimossa si fosse invece manifestata senza veli in parole e comportamenti coscienti, la reazione (come quella del padre di Pasolini) sarebbe stata aggressiva e violenta: la rappresentazione deve restare rimossa pena la rottura del soggetto.  

Si potrebbe dire che vent’anni dopo, una seconda morte della Patria, questa volta definitiva, ossia quella susseguente all’8 settembre del ’43, abbia prodotto un’altra categoria di sintomi, raggruppabili sotto il dispositivo freudiano della Verleugnung, termine traducibile con diniego, ossia un dispositivo con cui si nega qualcosa in cui al contrario si continua tranquillamente a credere senza che questo comporti una pur minima lacerazione soggettiva. Questo nuovo meccanismo di difesa, la scissione dell’io, individuato da Freud quasi a fine carriera, spiega agli occhi di Pasolini le nuove forme del potere, quelle del neocapitalismo di cui sono responsabili, in gran parte inconsapevoli, gli uomini della Democrazia cristiana e i cattolici di sinistra non senza il contributo del partito comunista, e la cui caratteristica è appunto quella di poter respingere le lusinghe del potere mentre si contribuisce intensamente al suo sviluppo. I nuovi fascisti quindi non sono individui tutti d’un pezzo, bensì individui ‘problematici’, scissi, esattamente come il protagonista di Petrolio, e come sarebbe diventato anche Pasolini se da questo esito non lo avessero protetto la poesia e la perversione, soprattutto il masochismo.

Per il resto la questione del fascismo è per Pasolini la questione dei Padri e del loro rapporto con i Figli, ossia è una questione edipica. Il fascino del fascismo equivale a quello dei Padri che rappresentano appunto il legame fra caducità e sicurezza, fra debolezza e forza. Oggetto della prima identificazione del bambino, il Padre, che per il resto partecipa anche lui della caducità di tutte le cose umane, incarna la forza che resiste al rovinio inevitabile dell’esistenza. I Padri trasmettono il fascismo ed è il compito ingrato dei figli amarli e allo stesso tempo rifiutare la loro eredità che come ogni eredità è anche un peso ed una pena.  

Quali culture entravano in gioco nell’educazione intellettuale di Pasolini?

Un uomo di cultura nato all’inizio del Novecento e giunto a maturità verso la fine del fascismo ha due numi tutelari cui fare riferimento per orientarsi nella vita e nel pensiero: Marx e Freud. Poi dal momento che Pasolini voleva esser poeta c’è la presenza di tutta la tradizione della poesia italiana, in primo luogo Dante e all’altro estremo Pascoli. Dall’esterno Baudelaire e Rimbaud e poi vari compagni di strada: Rebora, Penna, Fortini, Luzi. Dal momento tuttavia che Pasolini non era un conservatore ma, come Benjamin, stava nel fronte dei tradizionalisti, di quelli che distruggono per salvare, ci sono le avanguardie artistiche, i formalisti russi, Roland Barthes e Philippe Sollers, forse Maurice Blanchot. Gadda, Proust e Joyce. Tutto lo sperimentalismo contemporaneo (di cui per lui non faceva parte la neoavanguardia); basterebbe Petrolio da solo a dimostrare il carattere sperimentale della ricerca di Pasolini: questo romanzo che non è un romanzo sta alla stessa altezza della Recherche proustiana, dell’Ulisse di Joyce, se non di Finnegans wake, dell’Uomo senza qualità di Musil, del Processo di Kafka, del Pasticciaccio di Gadda, ossia di tutti i tentativi di fare letteratura dopo la morte della letteratura, dopo la fine del romanzo borghese. Non a caso è un’opera postuma e non finita, pensata e voluta come tale ancor prima di incominciarla a scrivere. Una scrittura frammentaria secondo il dettato di Maurice Blanchot.

Conobbe personalmente Foucault, Deleuze, Derrida, Barthes?

Nel catalogo della biblioteca di Pasolini redatto da Graziella Chiarcossi e Franco Zabagli troviamo due testi di Roland Barthes, l’edizione originale di Sade, Fourier, Loyola, libro che compare anche nella ‘Bibliografia essenziale’ presente nei titoli di testa di Salò-Sade, e un saggio su Ertè tradotto in italiano; un testo di Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni; uno di Foucault, Le parole e le cose; tre di Blanchot, il Lautréamont et Sade, anch’esso presente nella ‘Bibliografia essenziale’ di Salò-Sade, un altro scritto su Sade L’inconvenance majeure e Le livre à venir; niente di Derrida e Lacan. Aggiungerei, a dimostrazione dell’apertura e della curiosità di Pasolini, tre scritti fondamentali di Walter Benjamin: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, la raccolta Avanguardia e rivoluzione e, dulcis in fundo, Il dramma barocco tedesco. 

Ovviamente tutto ciò di per sé non vuol dir molto: la sola presenza dei libri nella biblioteca non significa che li abbia necessariamente letti, né quale uso ne abbia fatto. E può aver letto tanti altri libri che non si ritrovano nella biblioteca: Lacan, ad esempio, visto che, come già accennato, lo troviamo citato a più riprese in articoli e saggi. Né dalla sola lettura si ricava il tasso di influenza – angosciosa come direbbe Bloom – che libri e autori possono aver avuto su Pasolini, o il debito che con loro egli possa aver contratto. A meno che tutto ciò non sia documentato e documentabile attraverso citazioni e rimandi che legittimino la messa in rapporto o almeno giustifichino le eventuali forzature interpretative. A parte dunque conoscenze dirette che escluderei per Derrida e Foucault, più che sicura è l’influenza di Barthes (forse anche conosciuto personalmente, non so), di Sollers e di Blanchot. Per il resto quando si stabiliscono relazioni o omologie concettuali fra Pasolini e la teoria del potere del tardo Foucault (di cui si viene a conoscenza solo nel 1976, anno della pubblicazione del primo volume della Storia della sessualità, intitolato La volontà di sapere) o fra Pasolini e Il discorso del capitalista di Lacan (una conferenza tenuta a Milano nel 1972 ma pubblicata, piena di lacune dovute alla registrazione, nel 1978) bisogna andarci con i piedi di piombo. Non perché non si possa fare (io lo faccio abbondantemente) ma perché, in assenza di riscontri filologici diretti, bisogna maneggiare con estrema cautela gli strumenti ermeneutici (e non è detto che mi sia sempre riuscito) cercando di isolare nella produzione dei rispettivi autori dei luoghi testuali la cui comparazione regga, per quel che è sufficiente, la tesi su una loro presunta, possibile, eventuale, identità concettuale. 

Qual era il suo identikit politico?

Comunista: che altro se no? Comunista non appena, alla metà del secolo, ha cervello per pensare, cuore per sentire e occhi per vedere. L’ho già detto: un uomo di cultura nato all’inizio del secolo e che ha ventun anni nel 1943 ha già nel suo destino il nome di Marx: prima o poi questo nome gli andrà incontro e lui lo farà suo. E poi, visto che è italiano, incontrerà Gramsci, quello delle lettere e quello dei Quaderni. Altra cosa è invece il rapporto con il Partito comunista che è un rapporto conflittuale, alle volte di grande vicinanza, altre di scontro e incomprensione. I comunisti non hanno mai amato molto Pasolini: a parte la macchia della morte di Guido, a parte l’espulsione per indegnità morale, c’è tutta la difficoltà a capire Ragazzi di vita, molta poesia, quasi tutto il cinema.  Soprattutto c’è la resistenza nei confronti del suo rifiuto di un marxismo anchilosato, burocratico e nel caso italiano intriso anche di uno storicismo invaghito delle ‘magnifiche sorti e progressive’, e che tende a scambiare l’attenzione rivolta alle vittime del progresso con il conservatorismo, la lucida descrizione delle vite distrutte, quelle che Emanuele Trevi chiama ‘anime perse’, con il disprezzo e l’odio borghesi, il porre un limite alla potenza della storia con il rifiuto del materialismo storico. So di dire una cosa poco di moda, ma Pasolini è comunista esattamente perché è dalla parte della coscienza, della ragione e della storia. Pasolini sa che sia il mondo contadino che quello del sottoproletariato urbano non hanno chances storiche, non hanno un futuro all’interno della storia che è tutta dalla parte della classe operaia, quindi dal lato delle forze della moderna civilizzazione. Ma è questa una buona ragione per lasciar morire, giusto secondo il dettato foucaultiano, tutto ciò che da questa storia, o dalla storia in quanto tale, è escluso? Di abbandonare all’irrilevanza e all’oblio ciò che è fuori dalla storia o che fatica a stare al passo della storia, che arranca e incespica, che vive la ragione come un invito o un’imposizione alla rinuncia al godimento? Non bisogna essere dei reazionari, ché anzi è l’acquisizione del miglior marxismo novecentesco, per sapere che la storia non è tutto, che esiste il non storico, ossia un dolore e un piacere che si ripetono intatti, incuranti di tutte le svolte della storia, che tornano incessantemente allo stesso posto nella vita delle comunità e dei singoli, che non vengono né scalfiti né modificati dai progetti coscienti e dalle intenzioni razionali. In psicoanalisi il non storico si chiama ‘reale’ e la sua incidenza nella vita storica ‘pulsione di morte’. Il comunismo di Pasolini è un comunismo del reale.

Con quale altro intellettuale italiano stabilì rapporti d’amicizia e d’intesa?

Quasi con tutti, direi. Con Roversi e Leonetti, cui si aggiunge Fortini ai tempi di Officina. Con Moravia, Morante, Siciliano, a Roma. Strabiliante è anche la sua generosità verso giovani poeti in cerca della loro prima pubblicazione: ricordo fra tutti Amelia Rosselli e Giorgio Manacorda. Eppure tutta questa gentilezza, apertura, disponibilità, convivono con polemiche furiose, impietose stroncature, discussioni violente e scontri all’ultimo sangue. Fatti, tuttavia, il più delle volte, rigorosamente in versi. Oggi si fa fatica a capirlo, oggi che non esistono più una società letteraria e una repubblica delle lettere, soppiantate dall’industria culturale di massa; ma una volta, le stesse idiosincrasie personali, le gelosie e rivalità, che pure c’erano, erano per lo più mediate attraverso la cultura. Lo scontro non era mai solamente privato: riguardava sempre anche opzioni culturali, scelte artistiche, differenze ideologiche, e alla fine erano queste a prevalere. Tolti pochi casi – quello, ad esempio, di Edoardo Sanguineti – in tutti gli altri l’amicizia sopravviveva alla polemica: sono convinto che Fortini, che pure non fu mai molto tenero con Pasolini, gli era rimasto egualmente amico – lo attesta, al di là di ogni dubbio, il necrologio. Ricordo per finire il caso eclatante della stroncatura da parte di Pasolini del romanzo La storia di Elsa Morante uscito nel 1974. Lo scontro, che dovette avere un doloroso peso personale, verteva in realtà su una questione letteraria e artistica: che ne è della forma-romanzo nell’epoca nel neocapitalismo? Si può continuare a scrivere romanzi secondo il modo antico o bisogna inventare un ‘nuovo ludo’. Come fare letteratura dopo la sua morte? Oggi lo sappiamo: la risposta alla Storia non era la sua stroncatura, era Petrolio.

Data:

19/12/2022

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