Oggi, la guerra. Kiev, 26 agosto 2022
Freud aveva proposto ad Einstein di sostituire alla coppia diritto (Recht)/potenza (Macht) da lui proposta, quella di diritto (Recht)/violenza (Gewalt)[1]. Questi due termini, che sembrano opposti, hanno per lui un’origine comune. «L’uno si è sviluppato dall’altro».
In origine, la legge s’impone attraverso la forza, la forza fisica che viene esercitata su di un’altra persona in relazione a un oggetto o sull’altra persona stessa in quanto oggetto. La pace sociale viene concepita come il superamento della violenza attraverso il suo trasferimento alla comunità. Ma all’origine c’è la guerra fra tutte le comunità[2]. Ma, a un certo momento, il vincitore, o anche il gruppo dominante, sostituisce la schiavitù alla messa a morte. Il corpo dell’altro può servire agli interessi economici di colui che impone la sua legge, ma nello stesso tempo il vincitore «rinuncia in parte alla propria sicurezza» perché il vinto, da vivo, costituisce una minaccia. In altri termini, per Freud la pace contiene la guerra come suo fondamento e non è altro che l’espressione di una violenza collettiva che i vincitori impongono ai vinti, l’espressione di una violenza in potenza. In altri termini, la pace sociale è una guerra che instancabilmente ripete lo spossessamento originario ottenuto tramite la violenza di cui il vinto è stato oggetto. Quest’ultimo, infatti, continua ad essere in parte spossessato di ciò che gli appartiene e di ciò che produce. Viene così estesa la formula di Clausewitz, che cioè la guerra sia la continuazione della politica con altri mezzi, che Lacan aveva a suo tempo commentato. Lacan sottolineava, in consonanza con Freud, che la guerra era una delle forme di “commercio interumano” e che era profondamente radicata nella struttura dello scambio, di cui rappresenta una delle modalità. Questa è la ragione per la quale poteva dire che, se Clausewitz avesse conosciuto l’oggetto a, questo gli avrebbe permesso di vedere un po’ più chiaramente quella che lui chiamava la dissimmetria fondamentale delle due parti in guerra. E infatti chi è stato sconfitto è costantemente spossessato di quel che gli spetta, in altri termini alienazione del lavoro, e quindi plusvalore, ciò che Lacan chiamerà plusgodere (plus-de-jouir). Questo godimento originario, questa violenza che circola in modo canalizzato e regolare nel vincolo sociale, è la funzione del diritto. Per Freud, la violenza è alla base del diritto. Così si comprende ciò che scrisse nelle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte: «Non solo essa» [si riferisce alla Prima guerra mondiale] «è più cruenta e più distruttiva di tutte le guerre del passato, per i terribili perfezionamenti apportati alle armi di difesa e d’attacco, ma è altrettanto, se non più, crudele, accanita, spietata che qualunque di esse. Essa non tiene alcun conto delle limitazioni alle quali ci si attiene in tempo di pace e che formano ciò che chiamiamo il diritto delle genti, […] non fa alcuna distinzione tra combattenti e popolazione civile».[3] E Freud constata che lo Stato che garantisce il diritto e una certa correzione dell’ingiustizia sociale, divenuto belligerante «si permette tutte le ingiustizie, tutte le violenze, la più piccola delle quali basterebbe a disonorare l’individuo».
Va sottolineato, nonostante e con Freud, che «i terribili perfezionamenti» della tecnica e il posto della «popolazione civile» in quella Prima guerra mondiale sono delle novità di non poco conto che non mancheranno di attirare l’attenzione di Walter Benjamin.
Ora, anche Walter Benjamin ha tentato di distinguere fra diversi statuti della violenza (Gewalt), in particolare la violenza che fonda il diritto e quella che la preserva[4]. Due tipi di violenza che secondo lui si trovano mescolate nell’operato della polizia. Ma questo lasciamolo da parte. Sarà quindi opportuno soffermarsi ancora per un po’ su questo periodo, quello della Prima guerra mondiale, perché esso segnò una svolta che Lacan ironicamente descrisse come la fine del cavallo nel suo essere emblema e mezzo di combattimento militare che aveva segnato la storia dei conflitti armati. A partire dall’arrivo degli achei dotati di cavalli fino alla Grande guerra del 1914, il cavallo è stato un essenziale elemento bellico. Lacan fa questa osservazione dopo aver raccontato una divertente storiella raccontatagli da Raymond Queneau. La guerra del 1914-18 segnò infatti una prima svolta e (come evidenzia l’argomento dell’incontro e di questo nostro colloquio) noi stiamo indubbiamente per viverne una seconda. Perché già Freud poneva in rilievo – e si può solo rimanere colpiti dall’ironia che questa osservazione implica, sapendo che veniva rivolta ad Einstein – una cosa che gli sembrava essere propria all’età moderna: «Inoltre la guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti». Ma Benjamin aveva già scritto un testo che era una replica o un commento a un libro di Ernst Jünger nel quale ci si rammaricava della scomparsa nel conflitto del 1914-18 del vecchio ideale eroico delle guerre di un tempo[5]. In questo libro Jünger invocava il ritorno all’antico statuto delle guerre prima di quell’ultima, e in particolare al valore dell’eroismo. Tuttavia, sottolinea Benjamin a proposito di tali nostalgici, di quelli da lui chiamati i mistici della guerra, ma anche dei pacifisti: «Non si rendono mai conto che la battaglia di materiali in cui alcuni di loro vedono la più alta rivelazione dell’esistenza, squalifica i miseri emblemi dell’eroismo».
La guerra ha cambiato statuto perché è diventata una battaglia di materiali. E nel suo testo Benjamin, come già faceva Freud, insisterà sull’uso del gas nei combattimenti di trincea, il gas di cui si farà un terribile uso nella guerra mondiale successiva. E infatti, egli sottolinea, gli attacchi col gas danno alla guerra un nuovo volto «che cancellerà definitivamente le categorie guerriere a vantaggio di quelle sportive». Non è più, egli afferma, la dimensione militare a prevalere, ma una logica da record, e in particolare quella del numero dei morti. E quindi secondo lui viene a cadere la classica distinzione tra civili e combattenti, il che fa scomparire il diritto internazionale, che in questo modo perde uno dei suoi principali fondamenti. Da questo punto di vista, la Seconda guerra mondiale, ma anche quella attualmente in corso in Ucraina, conferma tragicamente questa profetica osservazione. La guerra, si potrebbe dire con Benjamin, ha perso la sua aura, l’eroismo non può più rendere nella sua singolarità colui che non è altro che carne, un elemento puramente contabile nel bilancio del numero dei caduti. Questa guerra, quindi, non è più la guerra nella sua immutabilità dei mistici della guerra, e non è più l’ultima guerra come pensano i pacifisti, ma, sottolinea Benjamin, «l’unica, spaventosa ed estrema possibilità che abbiamo di correggere l’incapacità dei popoli di mettere ordine nei propri rapporti reciproci, in conformità al rapporto che, attraverso la tecnologia, essi instaurano con la natura. Se questa correzione fallisce, milioni di corpi umani saranno certamente destinati a essere ridotti a brandelli e divorati dai gas e dall’acciaio». Poiché la tecnica non è necessariamente «un feticcio del declino ma “potrebbe essere” una chiave della felicità». Quindi, per Benjamin, la tecnica non è univoca, e ciò che aliena può anche liberare. Ma occorre togliere alla guerra la sua magia, altrimenti il ritorno dell’aura, congiunta alla tecnica, genererà solo fascismo. In questa prospettiva, il capo, il leader, il Führer non sarà quel sovrano nel quale vengono riuniti i pieni poteri legislativi ed esecutivi, quell’Uno di diritto divino e inscritto nel simbolico, ma uno qualunque, simile e riproducibile, prodotto di un’aura essa stessa riproducibile, casuale, che le tecniche della comunicazione modelleranno.
Lacan attribuirà al progresso delle scienze e delle tecniche una portata del tutto esemplare, soprattutto nel suo legame con il capitalismo, che porta a pesanti «conseguenze nella riorganizzazione dei gruppi sociali»; questa riorganizzazione, che si traduce in quella che di recente viene chiamata globalizzazione, produce in compenso un numero considerevole di sistemi segregativi, e l’attuale guerra a cui assistiamo non è estranea a tale dimensione. Per Lacan, tutto questo movimento può essere letto in termini di godimento, godimento che può essere situato solo come quello dell’Altro. Ma che, aggiunge, «è in quanto ne siamo separati». Ora, la nostra moderna modalità di godimento si situa solo nel plusgodere, nella a piccola e non nel grande Altro che l’ha organizzato e inquadrato. Ecco, quindi, ciò che avrebbe potuto illuminare Clausewitz quanto allo statuto del corpo umano, civile o militare che sia, nella macabra contabilità delle guerre contemporanee.
In che modo la nuova svolta tecnologica che stiamo affrontando influirà o inciderà su questa odierna guerra così particolare che ha luogo in Europa, ovverossia, come il tema del convegno sottolinea, quali sono gli effetti apportati dall’invasione del digitale? Come comprenderlo, come interpretarlo?
C’è ovviamente, di fondo, un’amplificazione di ciò che è sempre esistito, ovvero la propaganda e un certo uso della menzogna fin dai tempi degli antichi greci, con celebri esempi di menzogna storica come quella dell’Invincibile Armata. Ma la propaganda moderna ha trovato uno straordinario sviluppo con i moderni mezzi di diffusione delle informazioni. Walter Lippmann e il nipote di Freud, Edward Bernays, organizzarono, su richiesta del presidente Woodrow Wilson, una campagna di propaganda per influenzare l’opinione pubblica americana a favore dell’intervento americano nella Prima guerra mondiale. A questo possiamo aggiungere di seguito Goebbels e tutti coloro che dopo hanno organizzato la propaganda dei regimi autoritari, ma anche dei paesi democratici: e da qui si è aperto il dibattito se ci sia o no una differenza tra pubblicità e propaganda. Ciò che è sicuramente cambiato nelle varie epoche sono i mezzi tecnici e il loro potere di diffusione. Oggi Internet, le “fattorie” di hacker, ecc., amplificano ulteriormente il fenomeno, ma le bugie, le fake news sono sempre esistite. Gli effetti della globalizzazione hanno però distrutto i vecchi ideali che tenevano insieme i collettivi, ad esempio l’idea di nazione attorno a ideali comuni incarnati in una figura elettiva. I gruppi si costituiscono certamente secondo il solido modello di gruppo descritto da Freud: un Führer, un leader che incarna una figura ideale con cui identificarsi e grazie alla quale i membri del gruppo possono giungere a una identificazione tra loro. Freud sottolineava che tale configurazione fornisce a ciascuno un notevolissimo beneficio narcisistico. Ma aggiungeva anche poco dopo, non nella Massenpsychologie ma nel Disagio, che ogni gruppo ha un fondo paranoico in quanto conserva sempre, al di là dei suoi confini, un gruppo di esseri umani a cui vengono destinati aggressività e odio. È questa la funzione delle frontiere di cui parlava Lacan, di situare sempre il nemico in un al di là. È bene notare che i confini lineari che oggi conosciamo non sono molto antichi – risalgono alla Pace di Westfalia del 1648 – e sono concomitanti con la grande ascesa del discorso della scienza…
Nel mondo di oggi, l’effetto di frammentazione dei collettivi prodotto dalla globalizzazione reintroduce nuove frontiere immaginarie per consentire a tutti di sostenere un’identità di fronte alla brutale disidentificazione prodotta dall’avanzare del discorso scientifico. Lo sviluppo del digitale contribuisce a questo, ma non crea affatto questa necessità. Il discorso della scienza ci disidentifica – pensiamo al soggetto cartesiano, senza qualità. Ma allo stesso tempo ci sovraidentifica, come sottolineava Foucault, e viviamo in un mondo in cui tutti siamo sovraidentificati. «Alla fine del 1700 la società produsse una modalità di potere che non si basava sull’esclusione, come viene ancora affermato, ma sull’inclusione all’interno di un sistema in cui tutti devono essere localizzati, ispezionati, osservati giorno e notte, in cui ognuno resterà legato alla propria identità[6]». Successivamente Foucault evoca Bentham e sostiene che il panopticon benthamiano sarebbe fondamentalmente la verità paranoica del nostro mondo, il che peraltro rinvia a ciò che Deleuze ha detto sulle società di controllo. Si pensi a questa evoluzione in rapporto ad un tempo non così antico, la fine del medioevo, nel quale il cognome era un particolare appannaggio dell’aristocrazia! Oggi invece impronte digitali, foto d’identità, codici vari (l’INSEE, quello della Social Security, ecc.), ancor più di recente il DNA: tutte cose che ci danno identità ma allo stesso tempo non conferiscono alcun senso a questa dimensione. La nostra urgenza identitaria deriva dal fatto che la modernità ci ha resi tutti degli sradicati, degli ibridi culturali e sociali. Cerchiamo disperatamente di dare un senso a questi dati, di farli entrare nel nostro immaginario, così come fanno coloro che cercano le proprie radici e origini etniche nel loro genotipo.
Ma il peso della propaganda e la potenza del digitale hanno fatto sì, per esempio, che si potesse concretizzare la finzione di una «guerra pulita», come la propaganda americana presentava la guerra in Iraq, nella quale era previsto, grazie a pretesi nuovi modi d’identificazione del bersaglio, un tipo di bombardamenti detto «chirurgico» che avrebbe permesso di prendere di mira solo le popolazioni che si volevano effettivamente colpire. Oggi sappiamo che quella era solo una bugia mediatica e con gli sviluppi della guerra in Ucraina vediamo ora fino a che punto le vecchie strategie di distruzione totale siano ancora quelle prevalenti, insieme alle devastazioni che esse producono.
Se quelli digitali sono strumenti di propaganda di enorme efficacia, non sono meno efficaci nell’incredibile potere di controllo che comportano e che sempre più si estenderà. Esso si è già sviluppato in alcuni paesi grazie a tecniche come quella del riconoscimento facciale e di altro tipo: a questo proposito vi consiglio di guardare, se lo trovate su YouTube, un piccolo film fatto da un francese residente in Cina riguardante sua moglie, che si chiama Ma femme a du crédit (Mia moglie ha credito): è una testimonianza di tale cambiamento. Ma potremmo anche citare la raccolta di dati che le GAFAM operano grazie all’utilizzo che ognuno di noi fa degli strumenti digitali. Ora, questo sistema di potere che il digitale permette, un sistema di controllo generalizzato, arriva in un momento in cui la storia ha dimostrato che, contrariamente a quanto i teorici avevano saputo proporre riguardo i fondamenti del capitalismo, ci troviamo adesso in una situazione in cui ci rendiamo conto che il capitalismo può benissimo esistere in società di tipo autoritario. Ma l’uso dei social network ha potuto allo stesso tempo permettere l’emergere di movimenti popolari in difesa delle libertà individuali e consentire addirittura esercizi di democrazia partecipativa. Si ripropone qui l’alternativa di Benjamin.
In un contesto come questo, la psicoanalisi e il rapporto così particolare alla parola che essa implica, come può sopravvivere? Vediamo come questa dimensione del discorso scientifico, questo rifiuto dell’inconscio, si sviluppa in tutto il discorso contemporaneo sull’umano. A cominciare da un certo uso delle neuroscienze che, per il momento, non hanno consentito alcun reale progresso nel campo che qui ci interessa, ma che servono da alibi nello sviluppare un’ideologia in cui è la coscienza a dominare, dal momento che l’inconscio viene assimilato ai fenomeni neurologici che regolano la vita cerebrale. Allo stesso tempo, va sottolineato il disagio del soggetto contemporaneo, di cui è testimonianza lo sviluppo di numerosi movimenti religiosi (nei quali vanno inclusi tutti i movimenti settari, o meglio complottisti, il cui scopo è il medesimo: restituire senso a tutto ciò a cui la scienza lo sottrae) ma non meno il moltiplicarsi delle psicoterapie, fra le quali la psicoanalisi conserva il suo posto, un posto che spetterà agli psicoanalisti preservare nella sua peculiarità. È quanto si può constatare nella vita professionale, in Francia come negli Stati Uniti: la psicoanalisi non ha più diritto di cittadinanza nei media e sempre meno nei grandi dibattiti intellettuali, ma le sale d’attesa degli psicoanalisti sono sempre piene. Sopravviverà quindi in questo mondo, mi sembra, in modo più o meno clandestino, sopravviverà come una maledizione poiché, in un certo senso, è suo destino prendersene cura.
Data:
6/10/2022
Note:
[1] S. Freud, (1932), Warum Krieg ?, G.W. XVI.
A proposito di questo passo si veda: A. Vanier, «Droit et violence. Freud et Benjamin», Le Bloc-notes de la psychanalyse, n° 18, Genève, Georg Editeur, 2003.
[2] Il che si trova in linea con un’osservazione di Pierre Clastres ne La Société contre l’État, Paris, Minuit, 1974.
[3] S. Freud, (1915) Zeitgemässes über Krieg und Tod, G.W. X.
[4] W. Benjamin, (1921) « Critique de la violence », trad. M. de Gandillac, Œuvres I, Paris, Gallimard, 2000.
[5] W. Benjamin, (1930) «Théorie du fascisme allemand», Œuvres II, op. cit.
[6] S. Wade, Foucault en Californie (2019), trad. G. Thomas, Paris, La Découverte, 2021.