Recensione a: Mario Perniola, ‘Freud, l’inconscio come opposto (1892-1905)’
Mario Perniola, Freud, l’inconscio come opposto (1892-1905), a cura di Milosh F. Fascetti, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 99. “Collana opere di Mario Perniola”. ISBN 978-88-5759-727-0.
Rimasti occultati per anni in fascicoli di riviste degli anni Settanta oggi irreperibili come “L’Erba voglio”, “Errata” e “il verri”, le tesi avanzate da Perniola (1941-2018) su Freud, accendono un significativo faro su quanto vi è di fondativo e inaugurale nel passato di un filosofo al quale va riconosciuta una rara coerenza, la forza di non smentirsi mai, di perseguire il suo progetto teorico facendolo interagire con più ambiti disciplinari. Oggi, per la pregevole cura di Milosh F. Fascetti, tutti gli scritti di quel periodo sono a disposizione degli studiosi in uno smilzo volumetto della collana “Opere di Mario Perniola” voluta da Mimesis, editore a cui lo stesso filosofo astigiano ha legato diversi suoi lavori.
Perniola ha subìto il richiamo e la passione per l’opera di Freud già in età adolescenziale. Tra i 12 e 14 anni aveva già avuto tra le sue mani L’interpretazione dei sogni, presente nella biblioteca del padre. La lettura del primo libro di psicoanalisi andrà ad incidere profondamente nel suo animo di ricercatore per assumere il prestigio di una scoperta simbolicamente rilevante, un testo portatore in sé di un segno/sogno premonitore. Non è da escludere dunque che tale incontro abbia funzionato quale esclusivo imprinting, se così si può dire, pulsionale, da annotare come l’annuncio di un interesse rimasto a varie fasi presente nella sua vasta produzione. I testi qui presentati ne sono sicuramente una conferma, un prolungamento di interrogativi covati per anni da un pensatore che ha già maturato una prospettiva filosofica. E non è forse nemmeno un caso che i lavori qui ripubblicati si soffermino lungamente sul sogno quale, a suo giudizio, ingannevole formazione di compromesso.
Heidegger ha sostenuto che un filosofo nella sua vita pensa una sola cosa, gli ha fatto seguito Klossowski nel quale l’ossessione per il “segno unico” sfocia nella monomania. Perniola non smentisce né Heidegger né Klossowski: nella sua vita è stato tormentato da un’unica esigenza, il superamento della metafisica, a cui i saggi su Freud mirano in maniera inaugurale, mettendo al centro della sua riflessione la possibilità di pensare gli opposti oltre l’opposizione, dunque sotto l’egida dell’eccesso. Senza avventurarci in acrobazie esegetiche qui non giustificabili nella loro complessità, appare sicuramente di un qualche significato sottolineare quanto la mitologica figura di Tiresia, eletta a soggetto di un singolarissimo romanzo/non-romanzo dal titolo appunto Tiresia, pubblicato nel 1968 (poi riproposto da Mimesis nel 2019), quindi prima dei saggi in argomento, segni l’articolato cammino intellettuale (ma anche erotico e sentimentale) di Perniola. L’indovino greco stende la sua ombra fino alla ponderosa autobiografia scritta quasi in punto di morte. Tiresia contro Edipo (il melangolo, 2021) esorta a pensare, senza possibilità di essere contraddetti, ad un’estrema lotta contro l’identità (Edipo) e a favore della molteplicità (Tiresia). Il racconto di se stessi, genere letterario oltremodo problematico dal punto di vista della costruzione dell’immagine del proprio sé, sembra pensato dall’autore come un privato ritorno (eterno?) al punto di partenza, o, per mimare il titolo di un libro di Klossowski, quale compimento di un circolo vizioso, destinato ad arrestarsi solo perché il protagonista è andato via.
Il ritorno all’inizio per ripercorrere sempre daccapo il circolo vizioso del pensiero, rimane per noi un compito lasciatoci in eredità quale impegno filosofico indirizzato a una ricerca serrata, estenuante e senza sconti, perché infinita.
Perniola confessa: “Tiresia costituisce la chiave per intendere tutti i mie libri successivi in cui le problematiche qui esposte nel modo più crudo e diretto sono trasposte in un linguaggio razionale e ordinato […]” (Tiresia, cit. p. 9). Tiresia è il primo e l’ultimo perché è l’espressione perturbante di un continuo transito da una condizione all’altra, da una modalità dell’essere ad un’altra, senza però mai uscire da se stessi. È l’ambiguo personaggio nel quale alberga l’immagine più eccessiva di una familiarità della non-familiarità. L’altro non è l’alterità, l’abisso che ci sprofonda nell’ignoto, l’altro è lo stesso. Da qui quella nozione che appare essere l’ossessione di cui si diceva, cioè il transito (concetto dai molti significati a cui Perniola ha dedicato nel 1985 un ponderoso lavoro dal titolo Transiti. Come si va dallo stesso allo stesso. Il sottotitolo è già un invito a pensare in maniera altra). Il transito nasce dall’opposizione nei confronti di ogni ipostasi, dal contrasto della ragione già conciliata e soddisfatta di sé, ma anche da ogni forma di prolessi, sia che provenga dal passato (ermeneutica) quanto dal futuro (utopia concreta), è, insomma, la teorizzazione di una filosofia dell’entre-deux. Proposta con cui invita a meditare sul presente, a manifestare la totale disponibilità verso di esso, anche se ci appare grigio e privo di fascino. Il pensiero del transito è il leitmotiv che l’ha accompagnato in tutte le declinazioni teoriche susseguitesi nel tempo, per confermarlo in ogni contesto fino alle opere più recenti. Il movimento senza tregua “rimanda alla nozione di Transito che costituisce – scrive lo stesso Perniola – una delle nozioni chiave” del suo lavoro. Citazione tolta da un libro da titolo anch’esso eccessivo, Del terrorismo come una delle belle arti (Mimesis, 2014, p. 56). E non è un caso che con quanto riportato esergo abbia voluto darci un segnale ben preciso, due intime e inquietanti situazioni mentali nelle quali sembra celebrare la condizione spirituale sotto la cui costrizione mentale è stato pensato tutto il saggio-racconto: Le moi est haïssable (Blaise Pascal), Je est un autre (Arthur Rimbaud). Da qualsiasi parte lo si prenda, è sempre la potenza dell’Io a ossessionare Perniola, è la metafisica a diventare il bersaglio irraggiungibile di ogni suo libro, anche quando si occupa di arte, di simulacri, di enigmi, di transiti, di disgusto, di Bataille, di Debord o di Freud.
Nell’introduzione coglie bene questo aspetto Fascetti, quando sostiene che Perniola è andato ostinatamente alla ricerca di un passaggio il quale permettesse di superare (oltrepassare) la banale giustapposizione conflittuale tra l’identico e l’altro, pervicacemente a caccia “di una relazione tra gli opposti che andasse oltre, e in maniera ‘eccessiva’, il semplice concetto di polarità variamente declinato dalla tradizione metafisica occidentale” (p. 8). E in questa fase della sua vita il filosofo astigiano trova in Freud quel mentore disposto ad accompagnarlo, pur tra mille perplessità e contraddizioni, nei meandri della metafisica. È nella metapsicologia che possiamo incontrare l’al di là della coscienza, quest’ultima tradizionalmente intesa quale sostenitrice di una identità immutabile e non scalfibile da nessuna potenza. Freud insomma individuerebbe con convinzione “l’opposto dell’inconscio” (p. 15). Il manifestarsi di un Freud-Tiresia indicherebbe la possibilità di pensare non l’altro come altro dall’inconscio, ma l’altro quale volto minaccioso partecipe del medesimo inconscio, insomma un transito dallo stesso allo stesso che farebbe deflagrare l’identità dell’io.
“La differenza, l’eccesso non è un attributo dell’identità, ma la qualifica dell’opposto” (p. 21). Questa affermazione così netta e convinta sembra contenere tutto il programma da sviluppare nel prosieguo del libro. È l’opposto a istituire la differenza rispetto all’identità; quest’ultima non differenzia da sé nulla, piuttosto fa dell’altro una sua determinazione. Per la metafisica l’opposto sarebbe solo una manifestazione dell’identico. L’ipotesi di oltrepassamento, nella versione metafisica, secondo Perniola, svolgerebbe un ruolo rassicurante, l’io verrebbe ancorato saldamente alla sua identità; nella metapsicologia, avrebbe invece una funzione del tutto contraria, fino alla “perturbante effettualità del differente” (p. 15). Perniola in sostanza vuole dirci di non immaginare l’oltrepassamento come una panacea per guarire da tutti i mali partoriti dalla metafisica. Non bisogna illudersi perché oltrepassare, come dimostrerà a proposito del sogno, può costituire più che un indebolimento dell’identità, un suo rafforzamento. Insomma non tutti gli oltrepassamenti possono essere inquadrati entro una benefica abolizione delle nefaste dicotomie imposte dalla metafisica.
Nonostante questa incertezza Freud rimane il maggior sostenitore dell’opposizione eccessiva, dal momento in cui “apre, tra l’identità della metafisica e la differenza dell’opposizione, uno spazio intermedio, che definisce col termine di formazione di compromesso” (p. 16). Come chiarito, non ogni formazione di compromesso accompagna oltre la metafisica, è pura illusione pensare la via d’uscita dal recinto dell’identità come una passeggiata senza pericoli incombenti. Perché di rischi e di imboscate è disseminato tutto il cammino inaugurato da Freud. Perniola mostra in più punti del suo lavoro come la formazione di compromesso riesca, in determinate condizioni, a rafforzare, paradossalmente, proprio il principio di identità. “Il lavoro onirico – dice a questo proposito – è un’attività di compromesso che tende a garantire la sopravvivenza della metafisica in una situazione caratterizzata dall’efficienza e dalla potenza dell’opposizione” (p. 61). Insomma solo se l’opposizione non rimane confinata entro l’inespugnabile dicotomia io e l’altro, se riusciamo a pensarla come “eccessiva”, cioè innervata dentro la stessa identità, così da metterla in crisi, in quanto coverebbe in se stessa quell’opposto che la farebbe implodere, l’uscita dalla metafisica rimarrà un puro sogno del sogno. Nel capitolo “Lapsus, errori e contro-veridicità”, è ancora più netto sull’impossibilità di pensare l’uscita dalla metafisica. Infatti, né il lapsus, né gli errori, né le contro-veridicità gli appaiono così eccessivi da poter essere il motore di una lotta senza fine. Freud, in fondo, non s’accorge che in ognuno di essi si annida il ritorno ad una identità sempre più determinata e potente. La non-veridicità, per esempio, è una posizione impossibile da sostenere sia per la metafisica sia per Freud: “Le ragioni sono però opposte: per la metafisica ciò avviene perché la veridicità è un processo esclusivo dell’identità e della coscienza, le quali detengono l’intero ambito della realtà; per Freud invece, perché la potenza dell’opposto, dell’inconscio, è tale da manifestare sempre la propria contro-veridicità” (p. 74). Così però si ricade serenamente dentro quelle dicotomie di cui vorremmo disfarci. Non sembra essere un ragionamento rivoluzionario quello di continuare a pensare l’opposizione sotto le insegne del contrario: verdicità/contro-veridicità, memoria/contro-memoria, volontà/contro-volontà. Sono tutte dicotomie incollate alla metafisica le quali possono diventare esperienze sovvertitrici solo se pensate in quanto differenza.
A salvare Freud da tale illusione, secondo Perniola, ci pensa l’arguzia. La sua grandezza sta nel fatto che questa formazione di compromesso, rispetto alle altre non si lascia abbindolare dalle sirene della metafisica: “essa crea un compromesso ineguale che torna a proprio vantaggio, in cui ottiene tutto concedendo all’essere solo l’apparenza momentanea, all’identità solo una pseudo-uguaglianza che la inganna, alla coscienza quanto basta per farle allentare la rimozione” (p. 96). Quella qui celebrata è l’“astuzia dell’opposto”, un differire rimasto fedelmente al servizio dell’eccesso, “senza rovesciarsi in inganno, in realtà, in potere” (Ivi). “Essa è la politica dell’impossibile” (Ivi), commenta Perniola con accento sibillino, quasi a voler dire che nulla può essere considerato concluso, non vi è un traguardo segnato da appagamento e riposo. L’ultima speranza (i cui toni farebbero pensare a Debord), nonostante l’imperialismo dell’identità, è messa in mano proprio all’arguzia: “Essa è fondo – scrive – la risposta più adeguata dell’opposizione all’oppressione esercitata dall’identità nelle società oniriche e tendenziose, perché si avvale dei suoi stessi mezzi. Opportunamente generalizzata ed estesa anche ad altri tipi di segni non linguistici, può diventare uno strumento rivoluzionario fondamentale” (p. 99).
Aldo Marroni ha insegnato estetica presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara. Ha ultimamente pubblicato L’arte ansiosa. Perché non ci sono più né artisti né arte (Milano, Bruno Mondadori, 2019); Laure. Colette Peignot ou l’érotique engagée (Milano, Mimesis France, 2020). Melchiorre Delfico pensatore europeo (Lanciano, Carabba, 2021); E. M. Cioran lo stilita senza colonna. Anatemi e tormenti di un apolide metafisico (Milano, Mimesis, 2022); Muse senza mito. Meteore esistenziali vissute nell’ombra (Milano, Mimesis, 2022). Ha in pubblicazione il saggio: Pierre Klossowski e il mistero dell’incarnazione (Ágalma. Rivista di studi culturali e di estetica, n.45, 2023). Inoltre, per la sua cura, è in stampa l’edizione italiana di un volume a firma di Pierre Klossowski dal titolo: Un monomane impenitente. Scritti e interviste sul simulacro (Milano, Mimesis).