Recensione di Pierre Klossowski, La Somiglianza

Pierre Klossowski, La Somiglianza, tr. it. A. Campo, Orthotes, Napoli-Salerno, pp. 158, € 18,00 ISBN 978-88-9314-358-5.

Torna in libreria dopo oltre trent’anni dalla prima edizione italiana (La Rassomiglianza, Sellerio, Palermo 1987) e quasi quaranta da quella francese (La Ressemblance, Ryoân-ji, Marseille 1984), in una nuova traduzione con il titolo La Somiglianza (Orthotes, Napoli-Salerno 2022), uno degli ultimi libri pubblicati da Pierre Klossowski (1905-2001), scrittore, pensatore, artista e, prima ancora di tutto questo, monomane. Su Klossowski esiste una vasta bibliografia a cui va aggiunta l’articolata introduzione di Alessandra Campo, nella quale cerca, per quanto possibile, di preparare il lettore a un pensiero che non si lascia prendere attraverso una sola ed unica idea. L’opera narrativa, filosofica e artistica del monomane Klossowski è stata ed è da lungo tempo oggetto di approfondimenti (anche in Italia, dove i suoi libri sono tutti disponibili), di interpretazioni molto acute (una di queste la si deve a Alain Arnaud), in altri casi di letture poco convincenti o meramente espositive che, il più delle volte, hanno reso il filosofo francese più oscuro e impenetrabile di quanto già non lo sia. La letteratura sulla sua opera è cresciuta enormemente negli ultimi anni e gli esegeti hanno messo allo scoperto ogni particolare pure della sua biografia, grazie alle interviste rilasciate, e da ultimo a Isabelle Sobelman anche dalla moglie Denise, la Roberte dei suoi fantasmi pulsionali.

Quando ci accingiamo a leggere i romanzi (Le leggi dell’ospitalità o Il Bafometto, e il non meno importante La vocazione interrotta oggetto di una poco convincente sconfessione da parte dell’autore), a riflettere intorno al suo Nietzsche (Nietzsche e il circolo vizioso) o al marchese de Sade pensatore (Sade prossimo mio), ad osservare i grandi tableaux, tanto drammaturgicamente coinvolgenti quanto deprecabili sotto il profilo della morale comune, insomma a meditare su quanto ci ha confidato con i molteplici mezzi espressivi impiegati, abbiamo continuamente l’impressione di avere a che fare con un messaggio indecifrabile, con una rivelazione pronta a rifiutare ogni interpretazione univoca. Tutta la sua enigmaticità deriva in realtà da un pensiero intenso la cui possibilità di divulgazione può avvenire unicamente attraverso esperienze esclusive rivisitate e rivissute in piena inquietudine spirituale, partecipate con forme comunicative multidisciplinari. Abbiamo, insomma, l’impressione di conoscere soltanto la parte comunicabile e comunicata del nostro filosofo. Dobbiamo dunque credere a quanto sostiene commentando Nietzsche: “il pensiero cosciente produce la parte più utilizzabile di noi stessi, essendo la sola comunicabile, quel che avremmo di più essenziale resterebbe dunque l’incomunicabile e inutilizzabile pathos”.

Per accedere nell’anima-pensante di Klossowski è richiesto uno spirito paziente nell’attendere, una mente agguerrita nell’indagare e una coraggiosa follia nel farsi complice del monomane. A mezzo delle sue ossessioni (una di queste è il “segno unico” di Roberte, protagonista delle Leggi dell’ospitalità), penetrando nella sua perversa monomania, Klossowski ci apre la prospettiva e la visione di un rinnovato e forte sentire. Assume su di sé l’enigmatica funzione comunicativa di un dèmone (lo stesso che fa da ruffiano tra Diana e Atteone) destinato a trasmetterci un messaggio nel quale è possibile forse decifrare gli antichi segni di un’anima pragmatica, una figura intermediaria con l’incarico di guidarci oltre la trivialità e la bassezza spirituale di cui siamo diventati ostaggio, noi contemporanei, a nostra insaputa. E questo sentire intenso può essere esercitato non inaugurando una civiltà post-contemporanea, ma restando nella contemporaneità, sfruttandone e prendendone in prestito gli strumenti di divulgazione, immuni da censure preventive.

Nell’importante opera La Somiglianza, questi temi sono affrontati con grande chiarezza, soprattutto nel capitolo La funzione esorcizzante del simulacro nella comunicazione pittorica. Di questa sezione prendiamo in esame Sul quadro come simulacro nel quale Klossowski vi sostiene che la rappresentazione ha origine da un tableau preliminare, la cui pubblicazione presuppone il doppio gioco del simulacro, consistente da una parte nell’assolvere a un ruolo imitativo, dall’altra a un compito esorcizzante. “Il simulacro nel senso imitativo è l’attualizzazione di qualche cosa che, in sé, è incomunicabile o irrapresentabile: propriamente il fantasma [phantasme] nella sua costrizione ossessiva” (p. 130). Sennonché i concetti di simulazione e di imitazione sembrano in palese opposizione: simulare presuppone la presenza di un originale transitato in altro luogo, nella convinzione d’essere rimasto uguale a se stesso; imitare invece indica la necessità di pensare nella rappresentazione qualcosa in meno o in più del modello. Posta così la nozione di simulacro imitativo non avrebbe sbocchi o applicazioni. Se però riflettiamo attentamente al movimento delle due componenti troviamo delle straordinarie affinità. Simulare non è forse una sorta di migrazione dell’autentico in altro luogo ove diventa spettacolo? Imitare non ha forse originariamente legami col mimo e con l’esibizione cultuale? Non è anch’esso un processo di trasferimento esorcizzante?  La simulazione imitativa evidenzia dunque una disgiunzione, ma anche un rapporto esclusivo ed esorcizzante. L’accordo disgiuntivo tra simulazione e imitazione avviene sul piano della spettacolarizzazione, riscontrata sia nella simulazione, come obiettivazione, sia nell’imitazione, come pratica mimetica. Ambedue hanno a che fare con il fantasma costrittivo (quello del monomane), indicibile e non mostrabile, però imitabile e simulabile nella raffigurazione, nella visione come tableau, nel teatro come messinscena, vale a dire nella ricerca di un percorso verso l’esteriore e l’estraneo rispetto alla via inversa dell’originario, dell’autentico e dell’interiore (con la sua degenerazione in intimismo).

Il secondo aspetto su cui si sofferma Klossowski sta nella ricerca del mezzo più idoneo a divulgare e socializzare il simulacro. Qui incontriamo lo stereotipo, definito quale forma schematizzata atta ad esprimere ciò che la società sostiene lecitamente comunicabile.  L’adozione dello stereotipo e l’elaborazione di una “scienza degli stereotipi” segna l’ulteriore passo verso l’esteriore, coincidente con l’attenzione sempre più convinta per il livello istituzionale e convenzionale della vita. Uscire allo scoperto significa rinunciare all’unicità della rivelazione in favore della proliferazione nei luoghi consuetudinari e tradizionali del sentire, del vedere, del guardare un corpo abbagliante. Questo tracciato è chiarito da Klossowski quale passaggio dallo speculativo allo speculare, transito non privo di una funzione interpretante e falsificante, in quanto lo stereotipo, volgarizzando il fantasma ossessivo, ne perde i connotati pulsionali, diviene autonomo, stereotipo di se stesso, totale falsificazione e contraffazione del fondo incomunicabile. Per questo motivo ha senso dire: “lo stereotipo svolge la funzione occultante. Tuttavia, se lo si accentua sino alla dismisura, riesce esso stesso a operare la critica della propria interpretazione occultante” (p. 151). Lo stereotipo ha il pregio di permettere la divulgazione delle ossessioni del monomane, nel contempo però, per lo stesso motivo, occulta la cosa esteriorizzata, ne falsifica l’essere, perché l’incomunicabile non può volgarizzarsi se non assumendo le sembianze di tipo, ripetuto convenzionalmente. La comunicazione integrale, insomma, è esclusa. Il simulacro decaduto a stereotipo accenna dunque a una presenza finalmente priva di storia, candidamente falsa, senza rimpianti. Lo stereotipo istituzionale disegna anche i contorni del corpo in uno stile accademico, le cui tensioni impulsionali salgono in superficie mano a mano che il tratto ne dettaglia le parti.  Da qui passare all’attività artistica il passo è brevissimo. Ecco la motivazione: la scrittura – nel nostro caso il romanzo – si avvale di argomentazioni le quali implicano l’intervento delle facoltà razionali, della coscienza, che annullano lo sforzo di far trapelare un senso nascosto dalla stessa scrittura nella misura in cui si impegna ad interpretare il fondo incomunicabile del monomane. Mentre l’incomunicabile diventa scrittura, riflessione mentale, esso perde di forza, esorcizza solo la parte riconoscibile e ammessa dalla coscienza. Più ci avviciniamo al piano della comprensione più ci allontaniamo dal nucleo pulsionale che vorremmo costringere a manifestarsi. Questo fondo è imbavagliato da quelle nozioni chiamate a reggere la scrittura dal momento in cui la comprensione mentale è puramente analogica, cioè un simulacro di ciò che si riesce a provare solo spazialmente. Klossowski ci pone di fronte all’equivalenza scrittura-nozione-comprensione. Così il linguaggio proprio del monomane si lascia sedurre da un altro linguaggio ed il circolo si chiude sulle parole dalle quali non trapela nulla di pulsionale: la scrittura è in definitiva il simulacro di un altro simulacro. La lettura rimane esteriore al testo e le Leggi dell’ospitalità rischiano d’essere catalogate quale letteratura erotica (giudizio avvenuto più volte). Ovviamente Klossowski non è soddisfatto di questo risultato equivoco. Prende le distanze dalla scrittura ed apre a se stesso l’esperienza del disegno. Ha inizio il “gesto muto del passaggio materiale al disegno” il quale si configura come uno scorrimento controllato e concettuale dal far capire al far vedere con lo scopo di condividere in forma diretta e non mediata il “motivo” che ossessiona l’autore. Il senso del passaggio pragmatico dallo speculativo (argomentazione-nozione) allo speculare (simulacro-riproduzione) consiste proprio nell’alternanza del mezzo. Si tratta di ripristinare quelle tensioni che già la scrittura aveva assimilato a partire dall’immaginazione, riconquista realizzata tornando direttamente alla traccia pulsionale e alla muta espressione visiva. Il momento spaziale di tale visione corrisponde al fantasma il quale, manifestando un atto di resistenza alle imposizioni esterne, crea un suo luogo abitabile (luogo imposto dall’intensità dell’ossessione). La sua evidenza sensibile fonda, a parere di Klossowski, il fenomeno delle arti plastiche ed esclude un interpretazione del far vedere nel senso di un puro e semplice far comprendere con lo strumento specifico della pittura (non è l’illustrazione di quanto narrato nei romanzi, ribadisce con forza lo scrittore francese). Tale transito è sia materiale che pulsionale (o fantasmatico), perché le visioni restano le medesime, continuano ad agire con la stessa forza invasiva, trovano però un altro mezzo di divulgazione. Le ossessioni che informavano le opere letterarie, dominano ora nella realizzazione dei tableaux vivants.  Da qui in poi Klossowski si dedicherà alla creazione di quelle artistiche macchine drammaturgiche immaginate e costruite a grandezza naturale, con insuperabili problemi realizzativi.

La Somiglianza è un testo nel quale tutte queste problematiche, qui appena accennate, sono affrontate estesamente. Non ci si illuda però di trovare nella sua lettura la via d’uscita per la trasparente e sicura conoscenza del pensatore francese. Klossowski è e rimane un monomane le cui ossessioni sono impermeabili alla ragione dominante. Il suo sentire richiede spiriti affini, non comprensione ma complicità.

 

 

 

 

 

 

 

Aldo Marroni insegna estetica presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara. Ha ultimamente pubblicato L’arte ansiosa. Perché non ci sono più né artisti né arte (Bruno Mondadori, 2019); Laure. Colette Peignot ou l’érotique engagée (Mimesis France, 2020); Melchiorre Delfico pensatore europeo (Carabba, 2021); E. M. Cioran lo stilita senza colonna (Mimesis, 2022); Muse senza mito (Mimesis, 2022). È membro del comitato di redazione di Ágalma. Rivista di studi culturali e di estetica.

 

 

 

 

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