Riflessioni sul valore della vita individuale in un collettivo afflitto dalla pandemia
Non è il caso, credo, di fare considerazioni sulla pandemia se non si è esperti di epidemiologia. Come non credo sia il caso di fare ipotesi sulla crisi che seguirà la pandemia a meno di essere esperti di politica economica. Mi permetto allora solo qualche breve considerazione, molto generale, sul valore della vita in relazione ai fondamenti politici di un collettivo.
Che gli stati si preoccupino di salvaguardare la salute dei cittadini in casi come questo è normale. Di fronte a crisi eccezionali, è ovvio che vengano prese misure eccezionali. E questo – non occorrerebbe nemmeno dirlo, tanto è ovvio – non c’entra nulla con lo stato di eccezione. Fa parte dei compiti assolti da uno stato – sia che viga un regime democratico, sia che viga un regime totalitario – reagire con qualsiasi mezzo di fronte a un evento come una pandemia. Detto questo, vale la pena chiedersi quale sia la funzione di una organizzazione come lo stato in relazione alla vita in generale.
Rispetto alla vita dei singoli, in caso di pandemia si fanno scelte specifiche, che non vengono decise dallo Stato, ma da coloro che amministrano la salute pubblica: se ci sono pochi posti in terapia intensiva, e il numero dei contagiati è molto grande, si valuta caso per caso e si sceglie chi curare e chi no. Questo non è un problema rilevante, si applicano quei criteri di giustizia locale di cui parla Elster in un suo libro. Passata la pandemia, si potrà discutere se non sia il caso di destinare più finanziamenti al sistema sanitario pubblico. Ma ben più rilevante è il problema che si deve porre una organizzazione come lo Stato quando si trova a prendere decisioni che riguardano il benessere del collettivo tenendo conto sia di ciò che accade durante la pandemia, sia di ciò che accadrà dopo. Queste sono decisioni che non possono essere prese solo considerando il valore che hanno le vite dei malati da curare, ma devono considerare anche la qualità della vita dei singoli membri del collettivo dopo la fine della pandemia. In ogni singolo caso, poi, c’è da tener presente l’insieme dei vincoli a cui è in qualche modo sottoposta l’azione statuale, vincoli che rimandano non solo al tipo di regime di governo, ma anche a ciò che gli antropologi chiamano cultura. Uno Stato come quello cinese, governato da un partito unico, ha come priorità il mantenimento del consenso: tutti i mezzi sono buoni per sconfiggere la pandemia, dal momento che, una volta ottenuta la vittoria sul virus (ben più pericoloso dei milioni di passeri la cui morte venne decretata da Mao tra gli anni cinquanta e sessanta), il consenso verrà rafforzato. In un paese democratico, si deve far di tutto sia per salvare più vite possibile, sia per dare l’impressione che l’economia non verrà soffocata dalle misure emergenziali volte a contenere il virus, le quali, di per sé, risultano micidiali per la salute dell’economia. In un paese come l’Italia, tanto per fare un esempio, si tenta di compensare i danni provocati dalle restrizioni al movimento dei cittadini nonostante il forte indebitamento del Paese, contando sul fatto che i partner europei, a loro volta colpiti in misura massiccia dalla pandemia, non vorranno approfittare dell’indebitamento dello Stato, che crescerà ulteriormente, per poi assestare un colpo mortale al nostro Paese, trasformandolo in un malato da curare con gli stessi mezzi con cui a suo tempo si volle “curare” la Grecia. Anzi, magari si spera che la pandemia possa poi portare a un rafforzamento delle politiche comunitarie e a muoversi, di conseguenza, verso una maggiore coesione tra membri dell’Unione.
Ma al di là dei casi specifici, vale la pena staccarsi per un momento dal terreno concreto delle misure prese da questo o quel paese e considerare quelle opzioni di natura antropologica che precedono, logicamente, uno specifico ventaglio di scelte politiche. Insomma, qui si è di fronte alla domanda: cosa significa vivere una vita buona in un collettivo? Si tratta di una domanda che ci colloca su un terreno di riflessioni del tutto estraneo alla trattazione foucaultiana della biopolitica. Ciò su cui si sposta lo sguardo una volta che ci si pone tale questione è la relazione tra scelte di vita dell’individuo e scelte del collettivo di cui l’individuo fa parte. Per dirla in modo ancora più stringente: in che misura le scelte di chi governa i collettivi possono – o debbono – incidere sulla vita dei singoli? Domanda classica, per rispondere alla quale si sono versati i famosi fiumi di inchiostro. Ma la presente pandemia ci costringe a riformularla, o almeno a riproporla con un’urgenza di cui non eravamo forse più consapevoli.
Ogni individuo deve avere il diritto di scegliere di vivere come gli pare, cioè in conformità ai propri gusti. Certo, se Tizio vuol morire di coronavirus, va comunque costretto a stare in casa, perché se esce senza motivo mette a repentaglio la vita altrui. Ma in base alla logica che governa le misure restrittive della libertà adottate durante l’emergenza pandemica, deve essere poi possibile, finita la pandemia, adottare misure di contenimento della crisi economica che permettano di ripartire in modo equo gli oneri della crisi economica che alla pandemia fa seguito. Qui mi pare opportuno ricordare uno di quegli esperimenti che tanto piacciono agli economisti e ai teorici della scelta razionale. Ad A diamo 100, e gli si dice che deve dividere la somma con B, ma B può rifiutare l’offerta se la ritiene iniqua, e in tal caso anche A perde tutto. Di solito, B rifiuta un’offerta molto bassa, tipo 10 o 20 – se B fosse un ottimizzatore, dovrebbe in teoria accettare, perché 10 o 20 sono maggiori di 0. Ma l’esperimento si fa interessante se entra in scena un osservatore esterno, C, che guarda l’interazione tra A e B. Ora, di fronte ad A che, poniamo, offre 10 o 20 a B, C prova disgusto. Il punto mi pare cruciale. Per ragioni mostrate con dovizia di particolari da studiosi di teorie economiche non insensibili alla storia evolutiva di Homo sapiens, noi umani troviamo disgustose le palesi ingiustizie, e ciò indipendentemente dalle teorie della giustizia che formuliamo coscientemente quali attori razionali, quali cittadini che votano per questo o quel partito, dalla vittoria elettorale del quale ci aspettiamo la tutela dei nostri valori o dei nostri interessi. Quando sarà finita la pandemia, gli stati democratici vorranno adottare misure volte a far ripartire l’economia che tengano conto di una equa ripartizione degli oneri derivanti dalla crisi economica? Saranno cioè capaci di adottare politiche liberali?
A me pare sia questa la domanda che ci dovremmo porre, già ora, di fronte alla pandemia. Se torneremo a implementare politiche neoliberali, volte a favorire le grandi concentrazioni di ricchezze e a distruggere la logica di mercato (il mercato, per definizione, funziona se e solo se non ci sono monopoli o rendite di posizione), i nostri collettivi non saranno luoghi in cui la vita valga la pena di essere vissuta. Se di fronte a una pandemia si può solo aspettare che passi, o che tra un anno tutti possano accedere al vaccino, è invece disgustoso assistere ora, più o meno impotenti, al delinearsi di uno scenario che comporta il proprio impoverimento mentre altri non vengono toccati minimamente dai danni economici causati dalla pandemia (sui social, di cui tutti ora facciamo un uso maggiore di prima, se ci fate caso sono individui molto benestanti quelli che ti dicono che ora, finalmente, di fronte alla pandemia, bisogna riscoprire i valori veri della vita, il gusto per le cose semplici, ecc). Henri Simons, economista di Chicago e maestro di coloro che poi divennero famosi quali fondatori della Scuola di Chicago, è stato uno degli ultimi grandi liberali e, in quanto tale, sosteneva che l’unico argomento valido per opporsi a politiche che favoriscono l’insorgenza di diseguaglianze sociali eccessive è appunto il disgusto. Non è una vita buona quella che si vive se si è oppressi dal disgusto.
Ma da qui non ci si può non spingere in direzione di riflessioni ulteriori, che, come detto sopra, rimandano ai fondamenti antropologici del politico. Se, come temo sia probabile, non verranno adottate politiche di stampo liberale, cioè redistributive, ciò dipenderà dal fatto che ormai nelle nostre società si è persa da tempo la centralità del godimento. Tale centralità è strettamente correlata agli assunti di natura antropologica che stanno alla base della concezione liberale. Nell’ottica di quest’ultima, non tutte le forme di incertezza possono essere tradotte in rischio (lo mostrò bene Knight, un altro economista liberale, in un suo libro del 1921 dedicato alla distinzione tra rischio e incertezza – distinzione che, per i neoliberali, non ha alcun senso). Puoi prevenire alcune conseguenze non desiderate dei corsi di azione che decidi di intraprendere, ma non tutte. Vi sono elementi imponderabili nell’agire che dipendono non dalla tua capacità (comunque limitata) di prevenire i mali, ma dipendono da ciò che Machiavelli, nel capitolo 25 del Principe, chiama fortuna. La nozione di fortuna serve a delimitare il campo in cui agiscono forze che non dipendono da noi – come l’esplosione dell’attuale pandemia. Contro di esse non possiamo far nulla. Possiamo solo accettare la contingenza del nostro agire, possiamo solo cercare di vivere una vita buona sapendo che non sappiamo come andranno a finire le cose che ci riguardano, e ciò in tutte le sfere rilevanti della nostra esistenza: non sappiamo se moriremo o no per una polmonite indotta dal coronavirus, se il nostro matrimonio durerà o no, se perderemo o no il lavoro a causa di una crisi economica, se moriremo o no in un incidente stradale, e così via. Ora, un’esistenza che si basi sull’accettazione della contingenza è un’esistenza che pone il godimento al centro delle motivazioni che inducono l’individuo a scegliere di vivere e di non suicidarsi. Certo, aiutare le persone che soffrono o che stanno peggio di noi, così come essere grati per il bene che altri ci hanno fatto quando eravamo nel bisogno, sono elementi altrettanto importanti per condurre una vita buona – una vita, cioè, tale per cui l’individuo che la vive può dire a se stesso una cosa del tipo: “a parità di condizioni, considerando le scelte fatte in precedenza e le opportunità che la fortuna mi ha parato dinanzi, sono contento di essere ciò che sono e mi aspetto di poter migliorare la mia condizione in futuro”. Ma una vita in cui non si cerchi di gestire in modo non nevrotico il rapporto tra il proprio desiderio e il godimento sessuale difficilmente sarà una vita buona – pur restando in qualche modo degna di essere vissuta. Chiunque si confronti con il proprio desiderio fa, nel contempo, anche esperienza della contingenza.
Vi è insomma una stretta parentela, che può essere esibita in sede di storia delle idee, tra la tradizione illuminista, alcune varianti del liberalismo classico e la teoria psicoanalitica. La concezione dell’azione umana articolate in seno a quest’ultima non sono tanto diverse da quelle esposte dai grandi classici della tradizione liberale erede del materialismo illuminista. Vivere è un’impresa rischiosa, per varie ragioni. Esiste l’inconscio, esiste cioè la possibilità che molte delle nostre scelte siano motivate non dal desiderio di perseguire il benessere, ma dalla spinta a soffrire, a farsi del male da soli, a punirsi. Poi: oggi ci piace una cosa, domani questa cosa non ci piacerà più (un lavoro, una moglie, un marito, insomma si sta qui parlando anche di sfere dell’esistenza in cui sono stati fatti investimenti di tempo, risorse ed energie sul lungo termine per raggiungere un determinato obiettivo). Esistono, parimenti, le incertezze legate a ciò che gli economisti classici chiamavano mercato (una nozione, questa, che nell’ambito delle teorie economiche mainstreamdominate dal paradigma neoliberale, ha assunto tutt’altro significato): il prodotto del tuo lavoro (qualunque esso sia) può non trovare acquirenti, persone interessate, ciò su cui hai investito può insomma cessare di acquisire valore (vale la pena tener presente che il valore di qualcosa non deriva dal lavoro incorporato, ma dipende dalle leggi della domanda e dell’offerta). In entrambe le prospettive, emerge un dato antropologico che mi sembra innegabile, ovvero il nesso che lega la consapevolezza che si è sempre immersi in un mare di incertezza alla consapevolezza che poche cose dipendono da noi, ma solo agendo su di esse otterremo quel poco di felicità che è concesso agli umani.
Se la pandemia, una volta finta, ci renderà tutti migliori è dubbio. Ciò accadrà, suggerisco, se dalla pandemia ciascuno imparerà ad amare la contingenza – e dunque cercherà di venire a capo del difficile rapporto che unisce desiderio e godimento. E questa, sia chiaro, è una questione eminentemente politica: chi non se ne fa nulla del proprio desiderio e del proprio godimento, sarà sicuramente ben disposto ad accettare quelle misure securitarie che ora, nel corso della pandemia, hanno una ovvia legittimità, ma che dopo, finita la pandemia, non sarà facile togliersi di torno.