Su Pier Paolo Pasolini – un confronto

In concomitanza con il quarantennale della morte di P.P. Pasolini, apriamo qui una Tribuna di confronto sul personaggio, il poeta, il cineasta, il saggista Pasolini, e sull’impatto che esso ha avuto nella cultura italiana (e non solo) fino a oggi. Chiunque, se vuole, può proporre un proprio intervento.

Questa iniziativa segue alla pubblicazione di due testi di due soci ISAP:

Cristiana Cimino, “Lucciole, testimoni del desiderio”

Sergio Benvenuto, “Innamorarsi delle nuvole”

in: https://www.journal-psychoanalysis.eu/isap/saggi-ed-articoli/

 

PERCHÉ LEGGERE PASOLINI

Un intervento di Gabriele Fadini

La quasi unanime celebrazione dell’opera e della figura di Pier Paolo Pasolini quale radicale diagnosta e “martire” – nel senso greco di martys ovvero “testimone” – del suo tempo e profeta del nostro, pare non sentire il bisogno di porsi la domanda apriorica rispetto a questo clima di “addomesticamento” del poeta, ovvero come leggere oggi Pasolini? E, più radicalmente, perché leggere (ancora) Pasolini?

In un breve passaggio dell’ultima intervista prima di morire, Pasolini concreta quella che forse è l’essenza di un’opera peculiare perché trascritta dal testo alla carne vivente del corpo del suo autore: “scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati un piacere”. Ove il significato di “scandalo” è proprio quello greco di “ostacolo”, “inciampo”. Se Pasolini cioè non è più pietra di inciampo, qualsivoglia lettura della sua opera non può che tradirne un’irriducibile infedeltà. Ecco perché il modo migliore per leggere Pasolini oggi è quello di restituirlo a un antagonismo che non è categoria politica né riferimento storico volto a declinare il poeta all’interno di quel filone cosiddetto degli “antagonisti” che la teoria politica ha delimitato. Pasolini infatti fu antagonista in personalissima e singolarissima tenzone rispetto al proprio tempo, e lo è ancora oggi solo a patto di determinare rispetto a che cosa il suo antagonismo viene a darsi. Se è indubbio che molti dei temi che delineano quella che il poeta bolognese definiva la mutazione antropologica, furono affrontati e approfonditi da autori a lui coevi o immediatamente successivi, è d’altra parte vero che egli fu niccianamente inattuale rispetto a ciò per cui Jacques Lacan fu, e continua ad essere, un antagonista, ovvero rispetto alla peculiarità del discorso del capitalista, e cioè l’industrializzazione del desiderio.

Quello che Franco Fortini definiva come il suo carattere ossimorico, è cifra in Pasolini di una Spaltung secondo la quale la soggettività è sempre costitutiva relazione all’Altro, in una tensione in cui tesi e antitesi non vengono a patti in una sintesi, ma convivono conflittualmente ed insieme inseparabilmente.

Parlando del montaggio cinematografico in Empirismo eretico Pasolini sostiene che solo la morte opera sulla vita dell’uomo un conferimento di senso definitivo, che “solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci”. Fuori della morte, dunque, per il poeta non v’è senso compiuto, ma solo l’ambiguità di un senso perennemente mutevole. Ambiguità è dunque il movimento del vivere e dell’esistere, movimento contraddittorio e privo di quella linearità che solo il rapido montaggio operato dalla morte è in grado di dare alla vita. La morte dunque non è semplice fine della vita, ma sua sublimazione assoluta poiché essa non è limite del linguaggio ma eschaton del linguaggio stesso, sua traducibilità e suo senso definitivi. L’iscrizione della morte nel corpo non è solo il fare Uno della singolarità con se stessa, la perversa eliminazione della Spaltung, ma anche l’affermazione ultimativa per cui “Io è Altro”, per cui il soggetto è impensabile fuori dal linguaggio poiché il suo stesso morire è gesto ed atto linguistico e la morte culmine di quell’opera che è la vita stessa. Ecco l’ossimoricità pasoliniana: l’essere Uno della soggettività al culmine del suo essere Altro e viceversa.

Non è dunque un caso che Pasolini, sempre in Empirismo eretico, paragoni il montaggio ad un attentato autolesionistico all’istinto di conservazione. L’autore che predilige il piano-sequenza al montaggio non muore a sufficienza nella propria opera, mentre la vocazione propria del montaggio è “vocazione alle piaghe del martirio che l’autore fa a se stesso nel momento in cui trasgredisce l’istinto di conservarsi con quello di perdersi”. Il montaggio dunque è il luogo in cui l’autore compie gli atti necessari allo scandalo dell’infrazione del codice. Una infrazione che non è mai definitivo passaggio al di là del codice stesso ma un sostare sulla linea del fuoco in una lotta continua. “Bisogna dunque obbligare se stessi a non andare troppo avanti, interrompendo lo slancio verso il martirio; e ritornare continuamente indietro, sulla linea del fuoco” ad inventare “applicando la propria libertà di morire in barba ad alla Conservazione”. “Solo nell’attimo in cui si è a tu per tu con la regola da infrangere, e Marte è ancipite, sotto l’ombra di Thanatos, si può sfiorare la rivelazione della verità, o della totalità, o insomma qualcosa di concreto: operata la trasgressione – che si realizza in una nuova invenzione – cioè in una nuova realtà costituita – la verità, o la totalità o quel qualcosa di concreto, si vanifica perché non può essere vissuto né stabilizzato in nessun modo”.

In Pasolini è dunque la pulsione di morte a produrre sempre uno scarto inassimilabile dal discorso del capitalista. Non è infatti un caso che proprio a livello di queste riflessioni sul cinema, Pasolini intrecci la propria critica all’omologazione. Chi supera infatti la linea del fuoco e non vi ritorna più sopra è come rinchiuso in una sacca, in un lager che diviene automaticamente un ghetto, poiché là dove tutto è diventato trasgressione non c’è più pericolo e la vittoria su una norma trasgredita rientra subito nell’infinita possibilità di modificarsi e allargarsi che ha il codice. Se la morte è definizione ultima di un’invenzione, il morire è ripetizione dell’atto creativo, mentre il Potere non è solo la conservazione di uno status quo che ne giustificherebbe l’utilizzo del termine con la “P” maiuscola, ma è anche quell’insieme di pratiche che “dal basso” esso mette in atto al fine di riorganizzarsi non solo neutralizzando le singolarità soggettive, ma sussumendole al proprio interno come momenti di un costante rinnovamento.

Vale dunque la pena leggere ancora Pasolini, poiché la sua opera è espressione di un desiderio che nasce dall’intreccio di pulsione di morte e di sublimazione – e non dalla loro esclusione reciproca – e che si ribella alla serializzazione capitalistica per affermare la soggettività come inassimilabile eccedenza pulsionale.

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Un commento a: Rocco Ronchi, “Contro il pasolinismo”, Doppiozero https://www.doppiozero.com/materiali/ppp/critica-del-pasolinismo

di Sergio Benvenuto

Concordo visceralmente con la critica di Rocco Ronchi a quella che chiama “l’ideologia italiana” che il “pasolinismo” incarnerebbe. Visceralmente, appunto, perché adottando una distanza – che poi si rivelerà un altro tipo di vicinanza – posso concludere altrimenti.

All’epoca, Pasolini ancora vivo, leggevo, come tutti, i suoi articoli, e già allora formulavo le critiche che Ronchi esprime oggi nel suo pezzo. In effetti, non sono mai stato “incantato” dal Pasolini saggista, anche se lo apprezzavo moltissimo come cineasta, e anche come poeta. Come nota Ronchi, la sua era una retorica giornalistica che risultava rozza rispetto alle analisi ben più affinate di autori come Marcuse o Ivan Illich, per non parlare dei francesi di allora, Foucault, Deleuze, Bourdieu.

In sostanza, Ronchi riporta la critica pasoliniana della propria epoca alla critica conservatrice della cultura di marca tedesca, dalla filosofia di Spengler a Joseph Görres. “Il DNA di Pasolini è di destra”, conclude (e io vedrei un DNA simile nei “francofortesi”, segno che forse questo DNA trascende destra e sinistra). Ma questo DNA è miele per “l’intellettuale italiano (cioè il “letterato”) sguarnito, privato della sua specifica “aura”” – scrive – in un mondo molto diverso da quello che l’intellettuale (di cui Ronchi insinua il provincialismo) aveva categorizzato.

Non dimentichiamo però che il riferimento fondamentale di Pasolini era il nazional-popolare gramsciano. Non a caso nel libro di Alberto Asor Rosa che Ronchi cita (Scrittori e popolo) la critica a Pasolini è parte di un attacco generale al gramscismo dei letterati italiani. Con i suoi articoli Pasolini cercava di incarnare “l’intellettuale organico” – organico alla Rivoluzione – che Gramsci aveva teorizzato. Ma Gramsci non è un pensatore della provincia sarda, è il più famoso e letto pensatore italiano del XX° secolo nel mondo. Si dirà che quella di Pasolini è un’interpretazione orientata, conservatrice, del pensiero complesso e sfaccettato di Gramsci. Ma non bisogna dimenticare che quando Pasolini muore gran parte dell’intellighentja italiana – me incluso – era dedita al culto del teatro e canzoni popolari, alla riscoperta delle “culture subalterne” come si diceva allora, per cui il musicista Roberto de Simone e La gatta Cenerentola divennero emblemi, e il film dei fratelli Taviani Padre padrone (che descrive una Sardegna agro-pastorale già sparita all’epoca del film) divenne un successo mondiale. Ora, dobbiamo condannare tutte queste opere e gli umori quasi archeologici che le ungevano solo perché trasudano una sorta di amore regressivo per l’Italia rurale pre- e proto-capitalista?

Ora, mi chiedo: come si conciliano il mio rigetto dell’”usignolo” ideologico Pasolini e il mio apprezzamento dell’artista? Possibile che teoria e arte siano così divaricati? Non so se la domanda si imponga anche a Ronchi (ammesso che lui apprezzi il Pasolini artiste).

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La mia impressione è che non solo nell’Italia di Pasolini, ma in tutte le epoche, alcune grandi opere si pongano, talvolta anche provocatoriamente, come denunce della “modernità” in cui emergono in nome di valori del passato. Ronchi a Pasolini contrappone Leopardi (“Penso al Leopardi materialista radicale, illuminista disincantato, irriducibilmente acattolico e politicamente riformista (cioè, in Italia, rivoluzionario)”[1]). Eppure si dà il caso che Leopardi nella querelle tra Antichi e Moderni che si svolgeva all’epoca si schierasse decisamente per gli Antichi; non si sentiva in sintonia con il clima romantico della propria epoca (da qui il tenore direi concettoso della sua poesia).  E, a differenza di Pasolini, non credeva nell’impegno politico dello scrittore, cosa troppo “moderna” all’epoca.

E che dire di Platone? A differenza di Aristotele, Platone attacca a fondo la democrazia e la tragedia ateniesi, ovvero due delle grandi rivoluzioni culturali del mondo greco. Leggiamo oggi con passione Platone malgrado la sua critica di ciò che del mondo greco ci sembra più importante, oppure ci appassiona anche per questa sua critica di quel mondo di cui egli era anche se nolente parte costitutiva? Lutero non compì la sua rivoluzione opponendo un ritorno all’agostinismo, a un tipo di cristianesimo che appariva anacronistico al ben più arioso, sensuale e raffinato mondo rinascimentale? Freud disprezzava l’arte moderna, in particolare quella – surrealista – che si ispirava alla psicoanalisi (anche se fece un’eccezione per Dalì). E gli esempi si potrebbero moltiplicare. La modernizzazione spesso sbandiera vessilli passatisti, non futuristi.

Si prenda l’attacco di Pasolini all’”omologazione culturale”, che Ronchi (non a torto) interpreta come un rimpianto per i forti markers di classe che in teoria il poeta criticava, ma che di fatto lo deliziavano. Sarebbe facile mostrare che l’omologazione culturale (la cui critica è oggi cavallo di battaglia degli xenofobi di ogni risma: “l’integrazione culturale degli immigrati porta all’entropia” ripetono) è un’illusione, perché se è vero che per certi versi tutti nel mondo facciamo e guardiamo le stesse cose – per lo più anglo-americane, per cui oggi parlerei di “americanizzazione planetaria” piuttosto che di omologazione – è anche vero che in apparenza “piccole differenze” emergono e a un certo punto diventano faglie abissali. A queste nuove differenze non solo Pasolini allora, ma anche noi oggi, siamo in parte ciechi. Poi scopriamo che il nostro vicino di casa che sembrava a me del tutto “omologo” – veste come me, prende la mattina il mio stesso autobus, ecc. – è di fatto un fondamentalista pronto a farsi esplodere in mezzo a una folla di bambini. Allora scopro che l’omologazione era solo una maschera. Del resto, quattro anni dopo la morte di Pasolini la rivoluzione in Iran dette al mondo una botta di de-omologazione che oggi più che mai ci dilania. Certe cose si omologano, ma altre differenze esplodono, come gli ultimi decenni ci hanno mostrato.

Eppure, questa denuncia superficiale dell’omologazione ci attrae anche irresistibilmente proprio per la sua superficialità. Una mia amica che ha viaggiato molto mi dice “Mi sono stufata di viaggiare, tanto tutto il mondo ormai è eguale”. Trent’anni fa Shangai era una misera, irripetibile, affascinante città cinese, oggi appare una ricca, eguagliata, noiosa città americana. Anche qui si dirà: è apparenza. Dentro i grattacieli di Shangai ci sono cinesi che hanno creato altre differenze nel mondo che ancora stentiamo a cogliere. Ma è un fatto comunque che tutti – inconfessabilmente – eravamo legati a quelle superficiali, spettacolari, esotiche, indegne (perché erano marchi di povertà) differenze. Quelle catapecchie di Shangai ci piacevano, è inutile negarlo! C’è, anche se buttato sotto il tappeto della correttezza post-moderna, un Pasolini entro ciascuno di noi.

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Insomma, ogni epoca non è solo “se stessa” ma anche ciò che vi si oppone, che essa stessa denuncia di sé contrapponendo a se stessa un passato struggente o glorioso. La storia è un processo contraddittorio, in cui ciò che un’epoca perde è non meno determinante per definirla di ciò che quest’epoca aggiunge. In questa prospettiva, Pasolini può ri-apparire come un sintomo (in senso psicoanalitico) della modernizzazione, e quindi, per certi versi, come una sua verità.

E’ proprio nell’epoca in cui un mondo sta scomparendo – nel caso di Pasolini, l’Italia accattona, post-contadina – che quell’epoca se ne accorge, e in questo rammarico matura il nuovo.

C’è un vertiginoso passatismo in ogni tempo mutante, in quanto ogni epoca si vive come perdita di quell’Altro che essa è stata. Ci strugge una sorta di pentimento in ogni epoca di mutazione.

Ora, sono proprio l’arte e la letteratura che ci hanno fatto scoprire certe culture marginali o diseredate ad aver fortemente contribuito a distruggere queste stesse culture. Penso allo straordinario saggio di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli. Pochi anni dopo la pubblicazione di quel libro, la Lucania stracciona, arida, malarica, di cui nessuno si era accorto prima di lui, era già praticamente scomparsa proprio sull’onda del successo del libro. I Sassi di Matera, “la vergogna d’Italia” secondo Togliatti, furono evacuati nel giro di pochi anni. Ma Pasolini capì la bellezza scabra e scontrosa di una Matera vuota girandovi Il Vangelo secondo Matteo, eleggendola da allora a fondale quasi obbligato di gran parte dei film biblici. Girò in una Matera morta proprio perché la letteratura l’aveva “denunciata”.

Così, non appena l’arte e la letteratura riescono a descrivere un mondo di miseria, per ciò stesso lo sublimano, ci pungono col fascino di questo orrore, ma allo stesso tempo – grazie proprio all’aura con cui aureolano i diseredati – contribuiscono a eliminarlo in actu, inoculandoci così una sorta di inammissibile rimorso. E’ anche il paradosso di Pasolini: facendoci amare i suoi borgatari, che il suo cinema ha contribuito a far sparire – e che poi sono diventati qualcosa come la banda della Magliana, o i camorristi di Alberto Saviano, insomma altra cosa ben più micidiale e torva – ci ha iniettato il veleno dolceamaro della nostalgia per un mondo ‘basso’ che non c’è più.

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Io vedo Pasolini, Scritti Corsari inclusi, come un moderno Don Chisciotte. Che crea lui stesso opere donchisciottesche. In effetti, la rivendicazione da parte di Don Chisciotte di un mondo cavalleresco che non esisteva più non rivelava obliquamente il donchisciottismo dell’intero Rinascimento?[2] Ma il punto è che, ancor oggi, come non amare Don Chisciotte? Intendo il personaggio, oltre che il romanzo.

Ad esempio, quando Pasolini scrive “Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore”, qualcosa di donchisciottesco qui ci fa sorridere eppure ci convince. In effetti Pasolini ha sempre rivendicato la libertà sessuale – e omosessuale – contro il bacchettonismo dell’Italietta democristiana; e quando capisce che questo suo progetto sta trionfando, lo denuncia. Ma che cosa credeva che fosse la libertà sessuale? E’ un costume come ce ne sono tanti altri (in Occidente abbiamo avuto epoche di grande libertà sessuale, altre epoche di costumi austeri, direi ciclicamente). Ma lui pensava che la libertà sessuale fosse l’Eden promesso dai profeti della palingenesi libidica, da Reich a Deleuze. Invertendo Hannah Arendt, possiamo dire che Pasolini non sopportava la banalità del Bene. Ci sarà sempre grigiore quotidiano, anche in un’epoca come la nostra che accetta i matrimoni gay e nei film ci mostra i coiti etero e omo da tutte le angolazioni. Pasolini è deluso dal successo del proprio sogno perché, come Don Chisciotte, pensava di battersi contro giganti, e poi capisce che aveva a che fare solo con mulini a vento.

Eppure ancor oggi Don Chisciotte si fa amare perché non lo sentiamo semplicemente come un illuso delirante: sotto sotto condividiamo quella sua passione di vita eroica, quel suo non voler rassegnarsi alla prosaica prosa della vita. Nemmeno Pasolini volle rassegnarsi, suggellando con la sua morte la propria assoluta non-banalità.

Per concludere: non sono le idee scritte di Pasolini a convincermi, piuttosto mi intenerisce l’uomo Pasolini che combatte contro i mulini a vento pensando che siano giganti che chiama ”omologazione”, “genocidio culturale da parte del neo-capitalismo”, ecc. Che pensa di essere l’Hidalgo moderno: l’Intellettuale Organico gramsciano. Al contrario dei tanti (anche di sinistra) che detestano Pasolini oltre che il pasolinismo, gli voglio bene come fossi Sancho Panza.

Grazie per l’attenzione

Sergio Benvenuto

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Da Sergio Benvenuto.

Una mia amica, che preferisce restare anonima, mi fa partecipe di alcune sue riflessioni sulle mie riflessioni su Pasolini.

Le riassumo.

–  Ma davvero gli scritti di Gramsci li ha letti tanta gente? intorno a me non li ha letti nessuno – dico nessuno, io compresa. Eppure tutti amici con lauree, frequentazioni colte, seminari…

E’ probabilissimo che in Italia pochi abbiano letto Gramsci, come pochi hanno letto Machiavelli, Kant, Hegel, Wittgenstein… Gli scrittori teorici sono comunque poco frequentati; si preferiscono romanzi e novelle. Quando dico che Gramsci – o Machiavelli, Kant, Hegel… – sono popolari, mi riferisco a una élite.

Sta di fatto che quando parlo con una persona colta di qualsiasi paese, dagli Stati Uniti alla Russia, dal Brasile al Giappone,…., questa sicuramente sa chi sia Gramsci e conosce l’essenziale del suo pensiero. Mentre è molto difficile che conoscano i filosofi italiani che ci fanno studiare a scuola, come Gioberti, Rosmini, Ardigò, Gentile, Croce…. I soli pensatori italiani di notorietà quasi-universale sono Machiavelli e Gramsci (tralasciamo i viventi). E’ un dato di fatto.

Ma forse è vero che Gramsci è più letto all’estero che in Italia. Del resto, in Italia si legge meno, in generale, che negli altri “paesi del G8”.

— E quanti hanno letto Don Chisciotte. E sei sicuro che Sancio amasse don Chisciotte? A me non è sembrato.

Stesso ragionamento come sopra. I cosiddetti “classici” si leggono poco. O meglio, si leggono a scuola, nella nostra adolescenza. Suppongo che i bambini di tutte le scuole spagnole abbiano letto almeno alcune parti del Don Chisciotte, come a noi fanno leggere “I Promessi Sposi”.

Da bambino “Don Chisciotte” era il mio libro preferito. Spiego così la mia vocazione per la psichiatria.

Sancho Panza amava Don Chisciotte? Lo ha seguito sempre, e quando si segue qualcuno o lo si odia a morte, o lo si ama a morte. Propendo per la seconda ipotesi.

– Ma come fate a dire che l’Italia era così, ora è cosà? Che è sparito questo, è sparito quello? Non è questo un pensiero omologante?

Nella piccola città in cui vivo, da un quartiere all’altro non si sa come si vive nell’altro quartiere. A me non sembra che siamo tutti omologati.

D’accordo. E’ proprio quello che cercavo di dire nel mio intervento: l’omologazione è un’illusione. Viviamo gomito a gomito in universi diversi.

Il fatto che alcune cose siano quasi scomparse (non del tutto, ma ridotte al lumicino) è un dato di fatto meramente numerico. Ci sono sempre meno persone dedite alla pastorizia così come ci sono sempre meno analfabeti, sempre meno arrotini, sempre meno persone che usano il calesse, sempre meno professori di francese, sempre meno persone che ascoltano Beniamino Gigli, sempre meno lavandaie a mano, sempre meno macchine da scrivere Olivetti, ecc.

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Intervento di Marie Eve Gardère [traduzione italiana a seguito]

Pier Paolo Pasolini, la transmission.

On parle de migration de formes et d’idées, de migration géographique et générationnelle. On parle aussi d’apprentissage et de constitution d’une base commune.

Pour poser d’emblée l’urgence du fait communicatif, j’ai mis l’œuvre cinématographique de Pasolini  au centre de mes réflexions sur l’art et l’histoire. Le cinéma, en effet, est l’unique forme d’art qui reproduit et fixe l’effective consistance du temps, c’est à dire l’essence de la réalité, parce qu’il opère à l’intérieur du concept et de la dimension du temps.

Venir à Rome, c’est choisir d’aller quelque part.

Attirés par une certaine pratique de l’art, qui est en train de se faire ou de se refaire, on est à Rome précédé et suivi par des artistes. « Je ne suis pas un artiste mais je ne sais pas vivre sans eux » disait Alain Resnais. J’ai donc choisi de mener parallèlement à mon activité de psychologue celle de promotrice culturelle. Parce que çà se tient. Et puis, aussi, parce que je pense qu’une nation dans laquelle un dirigeant peut sérieusement demander : « Est-ce que vous pensez que l’artiste est une personne spéciale ? » est une nation en péril.

La veille de sa mort Pasolini a dit : « Peut-être que c’est moi qui me trompe. Mais je continue à dire que nous sommes tous en danger. »

Je suis arrivée à Rome quelques mois avant l’assassinat de Pasolini et j’ai choisi de vivre ici, au cœur de la réflexion pasolinienne, à la source de son inspiration poétique. Je me fais penser – un tout petit peu – à Freud qui, fasciné par l’Italie, a mis du temps pour arriver jusqu’à Rome.

C’est très honorant d’être ici, parce que l’Italie est un état d’âme.

On ne comprend rien du projet de Pasolini si on considère Rome comme  une sorte de  réserve naturelle où l’on respire le bon air de la culture, avec des gens concernés par la culture et donc, de près ou de loin, par la folie.  Rome constitue le lieu d’une hypothèse pas le lieu d’une aventure. Les aventuriers peuvent lorgner du côté de Rome et, s’ils en goûtent parfois, ils s’en dégoûtent rapidement. Pasolini lui est là, encore.

Toute son œuvre est marquée par une forte poussée didactique c’est-à-dire morale.

Il était professeur de lettres. Il enseignait l’italien, l’histoire et la géographie. « Il m’a enseigné à raconter le Pays » disait Vincenzo Cerami qui a été son élève au collège de Ciampino. Cerami était écrivain, il a écrit entre autre le scénario d’un chef d’œuvre, le film de Roberto Benigni La vita è bella dont le sujet est la Shoah.

Parce qu’une œuvre d’art n’est pas un règlement de compte, sinon ce n’est pas une œuvre d’art. Et parce que aucun artiste ne peut réaliser son œuvre s’il ne l’a pas, préalablement, désirée en dehors de toute pensée historique.

Une hypothèse n’est pas une rêverie et son cheminement n’est pas une répétition dogmatique. Pasolini, comme tant d’autres, a parcouru le même chemin, la même distance, fait les mêmes détours, s’est installé dans les mêmes quartiers, dans les mêmes maisons et dans la même coupure.

La panne, si on se réfère à la mécanique, est celle du propre processus de présentification, de  production  du sujet lui-même. Il ne s’agit pas de la  production sociale et négociable d’un individu social quelconque, mais de la propre production du sujet. C’est cette production qui est en panne.

L’histoire est entre les mains des artistes qui lui donnent une forme en dessinant des connexions. Ils tissent une trame entre les choses et plongent dans l’histoire de l’humanité, dans l’histoire géologique de la planète, celle du début et de la fin. L’artiste investit son propre verbe, Pasolini était travaillé par son verbe, il y jouait de son être, son discours était porté par son corps. Son lyrisme n’était pas une fuite dans l’imaginaire et s’il s’envolait, c’était pour mieux voir, pour prendre ses distances en vue de nouvelles actions plus opératoires. Il se méprenait parfois et ses méprises étaient plus lourdes de conséquences du fait de ses engagements.

Il n’était pas difficile de saisir l’appel surgi de la rigueur structurale et structurante de sa pensée poétique.

Les jeunes savent un peu qui est Pasolini et qu’il était un prophète.

Il ne cachait pas son travail de polisseur de concepts, ces  armes-outils de l’artisan.

L’artisan  respecte la matière qu’il travaille. Il en saisit les lignes de force et les dégage à l’aide de ses outils. Voilà ce qui parfois, et c’est important en ce qui concerne l’artisan Pasolini, peut susciter des peurs. Ces peurs apparaissent et se propagent là où certains se sont soustraits à l’ouvrage. Aucun menuisier, ébéniste ou sculpteur ne pourrait formuler une accusation de violence, visant un autre artisan, sous prétexte que celui-ci travaille, frappe avec ses outils, marteaux et scies. Il faut avouer que la manipulation d’outils, vue de loin, peut faire peur. Un accident, dit-on, est vite arrivé. Le mieux, le plus sage, le plus prudent, c’est donc de ne rien faire.

C’est vrai, des accidents  truffent la vie avec les autres. Il y a toujours de l’imprévu et de l’énigmatique. Naviguer avec les autres ne se réduit pas à la mise en acte d’une pure chimère.

L’artiste, à l’encontre de certains aventuriers irréfléchis, a devant soi la cartographie que d’autres navigateurs ont dessinée auparavant. Cela ne l’empêche pas d’être en éveil et, au réveil des variations incessantes de la mer, d’être à la quête de l’inconnu et d’un peu plus loin.

Pasolini ne cherchait pas la tempête mais il faisait face. Et c’était toujours pour aller quelque part. Sa navigation artistique présupposait l’existence d’un champ de l’illusion, dont il définit la portée fonctionnelle dans le processus d’humanisation de chacun.

J’ai connu en 1975 une jeune fille qui m’avait demandé d’écrire, sous sa dictée, tout ce qu’elle disait.

Cette enfant souffrait beaucoup et sa fin fut tragique. Ceci se passait à Rome, au moment historique où Pasolini, un poète continuellement sous procès, a été assassiné.

Cette jeune fille nous l’appellerons Marie. Une jeune artiste a lu ce texte et m’a écrit ceci :

« J’ai réfléchi à ce que vous m’avez dit concernant le texte de Marie. Je suis d’accord avec vous, je vais laisser le projet d’enregistrement de côté pour l’instant. Mais il s’est passé quelque chose de beau. J’ai photographié un des dessins de Marie, celui où elle a écrit « idées cachent ma base de pierre » et j’ai intégré ce dessin au reste de mes photos. Ce dessin et cette phrase fonctionnent comme une clé et je suis contente que Marie y apparaisse de cette manière-là discrète et puissante, bien plus que dans l’intégralité du texte.

Cette phrase et le dessin, confrontés à d’autres images, deviennent plus lisibles. J’ai  montré à X cette photo du dessin, au regard de mes autres photos il a perçu plus clairement la dimension politique du discours de Marie. Il a dit que ce dessin lui faisait penser au Socle du monde de Piero Manzoni. L’expérience de Marie devient plus constructive pour moi parce que, au-delà de l’aspect tragique de son histoire, c’est son intelligence qui  m’aide à penser mon propre projet. » Les schizophrènes ne sont pas des rêveurs, ils sont rêvés.

La sculpture de Manzoni est un hommage au monde qui nous porte et  nous tient debout. Manzoni imagine un piédestal, vu de l’espace, capable de soutenir la Terre et de la transformer, toute entière, en œuvre d’art : « Aussi toi qui lis, sache que la considération que tu dois avoir de toi est bien plus haute que ce que tu crois. »

C’est une question très difficile que le problème de la transmission de l’analyse. Elle est peut-être impossible.

Ce qui peut être utile c’est la manière qu’ont les analystes d’intervenir de telle façon  que cela puisse avoir des effets dérangeants, à charge pour chacun de faire ce qu’il a à faire avec ce qui va le déranger là.

C’est une question très difficile, parce que c’est la question même de l’écriture. Écrire c’est séparer les morts des vivants. L’écriture est une enveloppe et il faut des enveloppes pour transmettre les choses. Transmettre est un passage, porter, transporter, mettre en marche, traverser,  transpercer, franchir, parcourir, dépasser. Il n’y a pas de santé sans historicité et sans mémoire. Le malade est un être bloqué, obstrué. La guérison consiste à dénoncer les nœuds qui bloquent la vitalité.

Dans la Kabbale, le thérapeute a un rôle d’enseignant, il apprend aux autres comment prendre soin de leur être.

La santé c’est prendre soin de l’Etre, c’est prendre soin du temps, de son inscription juste dans la temporalité de l’existence, tendu entre ce que nous sommes, ce que nous avons été et ce que nous pourrons être. C’est faire en sorte que ne se produise aucun dysfonctionnement de la temporalité.

Nous devons soigner ce qui n’est pas mortel en nous. Le regard du thérapeute est tourné vers ce qui, dans le malade, est hors d’atteinte de la maladie et de la mort. L’Être est un espace qu’il s’agit de garder libre, prendre soin de cette liberté, de ce qui nous échappe, la guérison arrive en plus.

Jean-Marie Straub et Danièle Huillet filmaient sans déranger le monde. Ils filmaient la platitude suspecte d’une plaine, ils indiquaient l’oubli. Ils filmaient un site qui est autre chose que ce que l’œil perçoit, parce que le site est un espace fait de temps, un espace qui s’ouvre à une terre. Leur cinéma est un geste qui nous apprend à combler des séparations. C’est un cinéma éducatif parce qu’il fait sortir le spectateur de sa subalternité.

Les Straub sont irréductibles et persévérants comme Pasolini. L’homme et la terre des hommes n’ont pas encore été découverts. Ils tentent cette découverture. Ils disent : « Le peuple manque. »

Pasolini tente de sauver le passé en mettant en image des corps pauvres, en faisant surgir dans le présent des blocs de passé. L’intrusion du passé dans le présent est l’accomplissement d’une image dialectique. L’arrêt du temps linéaire produit une rencontre à effet révolutionnaire. Pasolini est à la recherche d’une identité commune et puisque ce sont toujours les différences qui se ressemblent, c’est bien dans l’écart entre les œuvres que les artistes produisent, qu’on pourrait chercher cette identité.

Il s’agit de mettre en place une identité produite par la mise en résonance de plusieurs systèmes pour qu’une identité tierce apparaisse entre elles, sans se confondre ni avec l’une ni avec l’autre.

Dans l’œuvre de Pasolini la remémoration s’effectue à partir des corps plébéiens qu’il aimait, du corps qui garde, dans ses fibres, le souvenir de ce qu’il n’a pas vécu du passé des ancêtres oubliés. Peut s’ouvrir alors un devenir identique, une réciprocité dans la créativité.

La description que fait Pasolini d’un garçon dans le récit Da Monteverde all’Altieri, dansStorie della Città di Dio, indique ce que je cherche à dire :

« Il descendit de Monteverde, il erra un peu au pied du Capitole et enfin entra dans l’Altieri, suivi, comme d’une trainée pointue, par la puanteur de pauvre et de fourgon qu’exhalaient ses vêtements. Fendant l’air avec cette odeur, il entra dans la salle où des hommes et des garçons en bonne santé, comme lui, purgeaient leurs infirmités. Modelé par la race qui depuis quelques centaines d’années absorbe la couleur des ruines et du Tibre, avec un visage à la Leonardo Cortese et peigné de façon à faire envie à Marie Antoinette, il trouva dans la pénombre de la salle une espèce de cosmétique qui lui patina les tempes et le profil, émacié, florissant et brûlé, de la joue. Un roi latin extraordinairement jeune et vivant au fond d’un sarcophage.»

En recueillant des miettes de passé que des corps discrédités expriment, une histoire du peuple est possible. L’œuvre de Pasolini est un travail d’historien-ferrailleur qui cherche un matériau dévalué et hors d’usage, pour faire revenir ce passé ignoré et méprisé, par la sublimation des corps dévalués et de tout le monde plébéien.

Il n’y a pas de meilleur témoin des profondeurs de l’histoire que la musique. La musique est fondamentale dans l’œuvre de Pasolini. Dans Accattone il se produit, sur la scène de la bagarre, une sorte de contamination entre la laideur de la situation et le sublime musical de Jean-Sébastien Bach. La lutte devient alors épique et quelque chose de sacré surgit dans cette dégradation. C’est la célébration de la sacralité du sous prolétariat.

Le présent est gros de tout le passé. Le but est atteint si, en voyant certaines images de Pasolini semblables à des fragments de passé, frappés d’actualité, on ne peut pas les déconnecter d’un prolongement.

Parce que les vrais messages transitent dans les corps, à l’insu de ceux qui les échangent.

Il n’y a pas d’identité sans mémoire, parce que l’identité remonte bien plus loin dans le temps que notre naissance. Et on ne peut parler de temps, c’est-à-dire de sa propre histoire, que quand le corps est reconstitué.

Une œuvre d’art est une circulation, il y a quelque chose de primitif et de sincère. Tout à coup une communication s’établit, comme un cadeau.

« L’art est une promesse de communauté. »Emmanuel Kant.

 

Marie Eve Gardère, séminaire La transmission dans l’art,

    Académie de France à Rome Villa Medici, juillet 2014.

 Traduzione italiana

Pier Paolo Pasolini, la trasmissione.

 

Si parla di migrazione di forme e di idee, di migrazione geografica e generazionale. Si parla anche di apprendimento e di costituzione di una base comune.

Per porre di primo acchito l’urgenza del fatto comunicativo, ho messo l’opera cinematografica di Pasolini al centro delle mie riflessioni sull’arte e la storia. Il cinema, infatti, è l’unica forma d’arte che riproduce e fissa l’effettiva consistenza del tempo, cioè l’essenza della realtà, perché opera all’interno del concetto e della dimensione del tempo.

Venire a Roma è scegliere di andare quelque part.

Attratti da una certa pratica dell’arte, che si sta facendo o rifacendo, si sta a Roma preceduti e seguiti da artisti. “Non sono un artista, ma non so vivere senza di loro” diceva Alain Resnais. Ho scelto, dunque, di condurre parallelamente alla mia attività di psicologa quella di promotrice culturale. Perché sono attinenti. E poi, anche, perché penso che una nazione nella quale un dirigente può chiedere seriamente: “Lei pensa che l’artista sia una persona speciale?” è una nazione in pericolo.

Alla vigilia della sua morte Pasolini ha detto: “ Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.”

Sono arrivata a Roma qualche mese prima dell’assassinio di Pasolini e ho scelto di vivere qui, nel cuore della riflessione pasoliniana, alla fonte della sua ispirazione poetica. Mi penso, un pochino, come Freud che, affascinato dall’Italia, ha messo del tempo per arrivare fino a Roma.

Mi onora molto essere qui, perché l’Italia è uno stato d’animo.

 

Non si capisce niente del progetto di Pasolini se si considera Roma una sorta di riserva naturale dove si respira l’aria buona della cultura, con persone interessate alla cultura e quindi, prima o poi, alla follia. Roma costituisce il luogo di un’ipotesi non il luogo di un’avventura. Gli avventurieri possono sbirciare dalle parti di Roma e, se a volte ne godono, se ne disgustano rapidamente. Pasolini lui, è qui. Tuttora.

Tutta la sua opera è segnata da una forte spinta didattica vale a dire morale.

É stato professore di lettere. Insegnava l’italiano, la storia e la geografia. “Mi ha insegnato a raccontare il Paese” diceva Vincenzo Cerami che fu suo allievo al collegio di Ciampino. Cerami era scrittore, ha scritto tra l’altro la sceneggiatura di un capolavoro, il film di Roberto Benigni La vita è bella il cui soggetto è la Shoah.

Perché un’opera d’arte non è un regolamento di conti oppure non è un’opera d’arte. E perché nessun artista può realizzare la sua opera se non l’ha, innanzitutto, desiderata al di fuori di ogni pensiero storico.

Un’ipotesi non è un sogno e il suo sviluppo non è una ripetizione dogmatica. Pasolini, come tanti altri, ha percorso lo stesso cammino, la stessa distanza, ha fatto le stesse svolte, si è installato negli stessi quartieri, nelle stesse case e nella stessa frattura.

La panne, se ci riferiamo alla meccanica, è quella del proprio processo di presentificazione, di produzione del soggetto stesso. Non si tratta della produzione sociale e negoziabile di un individuo sociale qualsiasi, ma della produzione di un soggetto. È questa produzione che è en panne.

La storia è nelle mani degli artisti che le danno forma disegnando delle connessioni. Tessono una trama tra le cose e si tuffano nella storia dell’umanità, nella storia geologica del pianeta, quella dell’inizio e della fine.

L’artista investe il proprio verbo. Pasolini era travagliato dal suo verbo, ha messo in gioco il suo essere, il suo discorso era portato dal suo corpo. Il suo lirismo non era una fuga nell’immaginario e, se a volte volava via, era per meglio vedere, per prendere le distanze in vista di nuove azioni più operative. Si sbagliava a volte e i suoi sbagli erano più carichi di conseguenze dovute ai suoi impegni.

Non era difficile catturare l’appello sorto dal rigore strutturale e strutturante del suo pensiero poetico.

I giovani sanno un po’ chi è Pasolini e sanno che era un profeta.

Non nascondeva il suo lavoro di lucidatore di concetti, i suoi arnesi di artigiano.

L’artigiano rispetta la materia che lavora. Ne afferra le linee di forza e le libera con i suoi attrezzi.

Ecco quello che talvolta, ed è importante per quanto riguarda l’artigiano Pasolini, può suscitare delle paure. Queste paure appaiono e si propagano laddove alcuni si sono sottratti all’opera. Nessun falegname, ebanista o scultore potrebbe formulare un’accusa di violenza, prendendo di mira un altro artigiano, con il pretesto che questo lavora, batte con i suoi arnesi, martelli e seghe. Si deve ammettere che il maneggiamento di attrezzi può fare paura, visto da lontano. Si dice che un incidente accada così, da un momento all’altro. La cosa migliore, la più saggia, la più prudente è dunque non fare niente.

É vero, degli incidenti infarciscono la vita con gli altri. C’è sempre dell’imprevisto e dell’enigmatico. Navigare con gli altri non si riduce alla messa in atto di una mera fantasticheria.

L’artista, contrariamente a certi irriflessivi avventurieri, ha davanti a sé la cartografia che altri navigatori hanno disegnato prima. Ciò non gli impedisce di stare all’erta e, al risveglio delle variazioni incessanti del mare, di essere in cerca dell’ignoto e dell’ancora più lontano.

Pasolini non cercava la tempesta, ma faceva fronte. Ed era sempre per andare quelque part. La sua navigazione artistica presupponeva l’esistenza di un campo dell’illusione, di cui definisce la portata funzionale nel processo di umanizzazione di ciascuno.

Ho conosciuto nel 1975 una ragazza che mi chiese di scrivere, sotto dettatura, quello che diceva.

Questa bambina soffriva molto e la sua fine fu tragica. Questo succedeva a Roma, nel momento storico in cui Pasolini, un poeta continuamente sotto processo, fu assassinato.

Questa ragazza la chiameremo Marie. Una giovane artista ha letto questo testo e mi ha scritto:

“Ho riflettuto su quanto mi ha detto lei riguardo al testo di Marie. Sono d’accordo con lei, lascio per il momento il progetto di registrazione. È pero successo qualcosa di bello. Ho fotografato uno dei disegni di Marie, quello dove ha scritto “idee nascondono la mia base di pietra” e ho integrato questo disegno al resto delle mie fotografie. Questo disegno e questa frase funzionano come una chiave e sono felice che Marie ci appaia in questa maniera discreta e potente, molto di più che nell’interezza del testo.

Questa frase e il disegno, confrontati ad altre immagini, diventano più leggibili. Ho mostrato a X questa foto del disegno, rispetto alle mie altre foto ha percepito più chiaramente la dimensione politica del discorso di Marie. Ha detto che questo disegno lo faceva pensare alla Base del mondo di Piero Manzoni. L’esperienza di Marie diventa più costruttiva per me perché, al di là dell’aspetto tragico della sua storia, è la sua intelligenza che mi aiuta a pensare il mio progetto.” Gli schizofrenici non sono dei sognatori, sono sognati.

La scultura di Manzoni è un omaggio al mondo che ci porta e ci tiene in piedi. Manzoni immagina un piedistallo, visto dallo spazio, capace di sostenere la Terra e di trasformarla, tutta intera, in opera d’arte: “Anche tu che leggi, sappi che la considerazione che devi avere di te è molto più alta di quanto tu creda.”

 

É una questione molto difficile il problema della trasmissione dell’analisi. É forse impossibile.

Quel che può essere utile è la maniera che hanno gli analisti di fare interventi in modo tale che abbiano degli effetti disturbanti. È a carico di ciascuno fare quello che c’è da fare con ciò che sta per disturbarlo.

É una questione molto difficile, perché è la stessa questione della scrittura. Scrivere è separare i morti dai viventi. La scrittura è un involucro e c’è bisogno di involucri per trasmettere le cose. Trasmettere è un passaggio, portare, trasportare, mettere in moto, attraversare, trafiggere, superare, percorrere, oltrepassare.

Non c’è salute senza storicità e senza memoria. Il malato è un essere bloccato, ostruito. La guarigione consiste nel denunciare i nodi che bloccano la vitalità.

 

Nella Kabbalah, il terapeuta ha un ruolo d’insegnante, insegna agli altri come prendersi cura del proprio essere.

La salute è prendersi cura dell’Essere, è prendersi cura del tempo e della sua giusta iscrizione nella temporalità dell’esistenza, teso tra ciò che siamo, ciò che siamo stati e ciò che potremo essere. É fare in modo che non avvenga nessuna disfunzione della temporalità.

Dobbiamo curare ciò che non è mortale in noi. Lo sguardo del terapeuta è rivolto verso ciò che, nel malato, non è sotto il tiro della malattia e della morte. L’Essere è uno spazio che bisogna mantenere libero, prendersi cura di questa libertà, di ciò che ci sfugge, la guarigione è un di più.

 

Jean-Marie Straub e Danièle Huillet filmavano senza disturbare il mondo. Filmavano la piattezza sospetta di una pianura, indicavano l’oblio. Filmavano un sito che è altra cosa rispetto a ciò che vede l’occhio, perché il sito è uno spazio fatto di tempo, uno spazio che si apre a una terra. Il loro cinema è un gesto che ci insegna a colmare delle separazioni. È un cinema educativo perché fa uscire lo spettatore dalla sua subalternità.

Gli Straub sono irriducibili e perseveranti come Pasolini. L’uomo e la terra degli uomini non sono stati ancora scoperti. Tentano questa rivelazione. Dicono: “ Il popolo manca.”

 

Pasolini tenta di salvare il passato mettendo in immagine dei corpi poveri, facendo sorgere nel presente dei blocchi di passato. L’intrusione del passato nel presente è il compimento di un’immagine dialettica. L’arresto del tempo lineare produce un incontro a effetto rivoluzionario. Pasolini è alla ricerca di un’identità comune e siccome sono sempre le differenze che si rassomigliano, è proprio nello scarto fra le opere che gli artisti producono, che si potrebbe cercare questa identità.

Si tratta di istituire un’identità prodotta dalle risonanze di molteplici sistemi affinché un’identità terza appaia tra di loro, senza confondersi né con l’una né con l’altra.

Nell’opera di Pasolini la rimemorazione si svolge a partire dai corpi plebei che amava, dal corpo che custodisce, nelle sue fibre, il ricordo di ciò che non ha vissuto del passato degli antenati dimenticati. Può aprirsi allora un divenire identico, una reciprocità nella creatività.

La descrizione che fa Pasolini di un ragazzo nel racconto Da Monteverde all’Altieri, in Storie della Città di Dio, chiarisce quel che cerco di dire:

“Scese da Monteverde, vagò un poco sotto il Campidoglio e infine entrò all’Altieri, seguito, come da una scia acuminata, dal lezzo di povero e di carrozzone che emanavano le sue vesti. Tagliando l’aria con quell’odore, entrò nella sala, dove uomini e ragazzi sani, come lui, spurgavano allegramente le loro infermità. Plasmato dalla razza che da qualche centinaio di anni assorbe il colore delle rovine e del Tevere, con un viso da Leonardo Cortese prima di incivilirsi e pettinato in modo da fare invidia a Maria Antonietta, trovò nella penombra della sala una specie di belletto che gli patinò le tempie e il profilo, smunto, florido e bruciato della guancia. Un re latino stupendamente giovane e vivo in fondo al sarcofago.”

Raccogliendo delle briciole di passato che dei corpi screditati esprimono, una storia del popolo è possibile. L’opera di Pasolini è un lavoro di storico-rottamaio che cerca un materiale deprezzato e fuori uso, per fare ritornare questo passato ignorato e disprezzato, con la sublimazione dei corpi svalutati e di tutto il mondo plebeo.

Non c’è testimone migliore delle profondità della storia che la musica. La musica è fondamentale nell’opera di Pasolini. In Accattone avviene, sulla scena del tafferuglio, una specie di contaminazione tra la bruttezza della situazione e il sublime musicale di Johann Sebastian Bach.La lotta diventa allora epica e qualcosa di sacro sorge da questa degradazione. È la celebrazione della sacralità del sottoproletariato.

Il presente è gravido di tutto il passato. Lo scopo è raggiunto se, vedendo certe immagini di Pasolini simili a dei frammenti di passato, impressi d’attualità, non si può staccarle da un prolungamento.

Perché i messaggi veri transitano nei corpi, all’insaputa di quelli che li scambiano.

 

 

Non c’è identità senza memoria, perché l’identità risale a un tempo molto più lontano di quello della nostra nascita. E non si può parlare del tempo, cioè della propria storia, se non quando il corpo è ricostituito.

Un’opera d’arte è una circolazione, c’è qualcosa di primitivo e di sincero. A un tratto una comunicazione si stabilisce, come un regalo.

“L’arte è una promessa di comunità.” Emmanuel Kan

 

Marie Eve Gardère, seminario La trasmissione nell’arte,

Accademia di Francia a Roma Villa Medici, luglio 2014.

Traduzione dal francese di Marie Eve Gardère e Giuseppina Valenti.

Notes:

[1] L’ambiguità di questa parentesi mi stimola. Si può interpretare l’inciso nel senso che in un paese fondamentalmente conservatore come l’Italia l’essere semplici riformisti è già qualcosa di rivoluzionario. O anche nel senso che in un paese dove tanti si vantano di essere rivoluzionari, il dirsi riformisti è una provocazione, di fatto, rivoluzionaria.

[2] Il Rinascimento, non solo spagnolo, è quello che derideva gli abbagli di Don Chisciotte, o non è quello che espresse grazie a Cervantes una sorta di auto-ironia sul proprio medievalismo? E in effetti il XVI° secolo non fu affatto epoca di razionalismo scientifico (che verrà dopo) ma epoca di risorgenza di superstizioni antiche. (Fu il Rinascimento, non certo il Medioevo, a inventare la caccia alle streghe. L’umanesimo e il Witch Hunt sono due facce della stessa medaglia.) Ma il regressivo Rinascimento è per noi anche un salto in avanti storico

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European Journal of Psychoanalysis