Una risposta ai miei critici – con postilla
A seguito di: “Un dibattito con colleghi russi”,
e di: Commenti italiani al conflitto
(Pubblicati in questa sezione)
Care colleghe e colleghi, care amiche e amici,
non sono un lacaniano “di scuola”, ma mi piace ogni tanto citare il mio maestro Lacan. Lui diceva: « il faut refuser le discours analytique aux canailles ». Bisogna rifiutare il discorso analitico ai farabutti.
Mi fa piacere che il reportage della mia discussione con i colleghi russi (altri colleghi, sia ucraini che russi, mi dicono che dovrei scrivere “colleghi”) abbia suscitato un dibattito denso tra voi, e tra molte altre persone nel mondo. Segno che la situazione in cui mi sono trovato senza volerlo rivela un nervo scoperto, o forse un buco nero, nella pratica (che è sempre anche etica) analitica. Vi dico che cosa pensavo prima di fare quello che ho fatto – sotto l’onda dell’indignazione per l’invasione dell’Ucraina, paese in cui ho tante persone care.
Il giorno prima avevo tenuto online un seminario all’istituto psicoanalitico di Kiev presso cui insegno regolarmente. La guerra era già scoppiata, sapevo che alcuni amici erano già andati nei rifugi anti-aerei. L’amministrazione dell’istituto, che mi aveva colpito per la sua sottovalutazione dei pericoli di guerra (quando ne parlai con loro a fine gennaio, escludevano che Putin scatenasse una guerra!), mi aveva proposto di parlare sulla “Psicoanalisi francese”. Era il sabato 26 gennaio, e gli organizzatori insistevano che io parlassi della psicoanalisi francese. Ricordai loro la leggenda secondo cui mentre Maometto II assediava Costantinopoli nel 1452, i teologi bizantini discutevano appassionatamente sulla natura degli angeli. Mi impuntai: “No, parlerò della guerra che VOI state subendo! Parlerò anche del carteggio Freud-Einstein sul perché la guerra”. Gli organizzatori accettarono un po’ obtorto collo la mia deviazione dalla retta via del programma annuale.
Parlai quindi della guerra appena iniziata, e di un possibile uso dell’insight analitico per spiegarla – proclamando subito la mia solidarietà a loro ucraini contro la “vile aggressione” voluta dalla Nomenklatura russa. Con mio stupore, mentre sviluppavo il mio seminario, una studentessa (il mio seminario rientra nel corso di formazione per analisti) mi disse: “Ma lei vuole parlare di questa guerra o di psicoanalisi?” Risposi che la psicoanalisi è nata per rettificare il nostro rapporto al reale, non per rimuoverlo e ignorarlo, e che per me parlare come io parlavo dell’attualità e fare teoria psicoanalitica erano la stessa cosa. Come vedete, quella che chiamerei etica dello struzzo è presente sia in Ucraina che in Russia. Lunedì avevo il gruppo di supervisione con i colleghi o “colleghi” russi, e si aspettavano che io parlassi del caso clinico di cui mi era stato mandato il testo. I nostri incontri clinici durano un’ora e mezza, e l’incontro di cui ho pubblicato la sintesi è durato anch’esso un’ora e mezzo. Sapete come è andata.
Dalla mia trascrizione sembra che io parli più di loro, ma di fatto hanno parlato quasi sempre loro. Purtroppo, non avendo registrato l’incontro, ho dovuto riassumere sulla base della mia memoria. Ma io che cosa mi aspettavo? Avevo escluso di parlare del caso clinico come se niente fosse… Non parlare di certe cose, far finta di niente, è una complicità oggettiva con l’aggressore. Avrei quindi chiesto a ciascuno la sua opinione.
Non so se esista un manuale di tecnica psicoanalitica che istruisca su come condurre una supervisione – o co-visione, perché i leader della società, una coppia, sono essi stessi analisti che supervisionano con me – in ogni caso non lo conosco, dovevo decidere da solo. Da discorsi fatti tempo prima mi ero reso conto già che i due leader del gruppo erano anti-ucraini. Mi sono detto: se alcuni nel gruppo dissentono dalle posizioni putiniane, se qualcuno di loro esprime solidarietà se non altro nei confronti dei loro colleghi ucraini che passano la notte nei rifugi, prenderò atto del fatto che ci sono posizioni diverse nel gruppo e quindi accetterò di continuare la supervisione clinica. Posso ammettere che ci siano divergenze di opinioni politiche in un gruppo di analisti. Per questa ragione ho chiesto a ciascuno di pronunciarsi, non per redigere una Lista di Proscrizione, ma per rendermi conto se nel gruppo c’era unanimità.
C’era unanimità.
O forse qualcuno non si è pronunciato per timore di dissentire dai “capi”, ma credo che tutti si siano espressi. Nessuno ha detto qualcosa del tipo “gli ucraini hanno torto, eppure capisco le loro sofferenze!” Nessuno ha detto “I am sorry”. Essi credono alla propaganda del regime secondo cui bisogna de-nazificare l’Ucraina. Solo a quel punto ho deciso che era impossibile collaborare. In casi come questi ogni scelta è sbagliata. Ho sbagliato a interrompere la collaborazione, ma avrei sbagliato anche a continuare a fare clinica mentre i nostri colleghi ucraini rischiano la pelle. Decidere è decidere che cosa sbagliare. Facile criticarmi per alcuni, dato che per loro l’Ucraina è un’espressione geografica, nomi di città su una carta geografica. Per me l’Ucraina sono Svetlana, Inna, Vladimir (non Putin), Vitaly, Natasha, Olga, Aleksandr, Oksana…
Credo che la tolleranza nel setting analitico evocata da Manuela Fraire non c’entri nulla con la situazione in cui mi sono trovato. Anche io ho analizzanti no-vax, e non sono affatto dei buzzurri: professori universitari, persone colte, scienziati. E siccome sanno che mi sono vaccinato, alcuni non esitano a dire che sono una pecora che segue il gregge dei vaccinati, un imbecille che non vuole accettare le inoppugnabili evidenze scientifiche che il vaccino non serve a nulla… Più o meno pensano di me quel che noi pensiamo dei nostri “colleghi” russi.
Una famosa analista francese, mia amica, è molto più drastica: se un suo analizzante, anche da anni, non si è vaccinato, non lo lascia entrare nemmeno dalla porta. Anche io ho avuto analizzanti di idee politiche ben diverse dalle mie. Non proprio picchiatori fascisti, ma picchiatori ideologici direi. Certamente anche io, come Manuela, non li ho cacciati per questo. Ma questo è il principio che vale con gli analizzanti: uno può anche essere hitleriano o putiniano, l’analista prende questo solo dal lato del discorso, ovvero come maschere discorsive di problemi inconsci che si situano altrove. Cesare Musatti disse che aveva avuto in analisi un assassino: nessuno sapeva che lo fosse, lo ha confessato solo al suo analista. E non è mai stato scoperto, pare. Musatti non ha mai interrotto l’analisi con lui. Non ha detto se il suo paziente assassino si fosse pentito di aver ucciso.
In un film del 1999 di Harold Ramis, Analyze This (Terapia e pallottole), un boss mafioso di New York chiede un’analisi e l’analista finisce con l’accettarlo anche se recalcitrante. Alla fine il gangster si redimerà grazie alla terapia, capirà che il sintomo di non riuscire a essere più un assassino efficiente era proprio ciò che doveva amare… Concetto molto lacaniano, ma anche lieto fine edulcorato.
Eppure questa messa tra parentesi degli atti dei nostri analizzanti ha un limite. Mettiamo che l’analizzante fascista di Manuela in una seduta le dica che la sera stessa andrà a riempire di botte inermi ebrei o mussulmani. Che fa l’analista, gli dice, “ci vediamo alla prossima seduta, come sempre?” In questo caso mi ricorderei che prima di essere analista sono un cittadino, italiano o europeo non importa, e infrangendo la deontologia analitica avvertirei la polizia che quella sera si prepara un crimine. E avrei detto all’analizzante picchiatore: “Se questa sera picchierai, non tornare più qui da me”. Questa è la mia etica.
L’idea che l’analista svolga un lavoro avulso dalla realtà sociale, in una sorta di iperuranio mentale, è un’idea molto diffusa tra gli analisti, che considero allo stesso tempo ingenua e nefasta. Si pensa la pratica analitica come a una pratica scientifica, tipo CERN di Ginevra. Non a caso il CERN, questa enorme macchina scientifica, è stata impiantata in Svizzera, in un paese neutrale che consideriamo fuori dal mondo (in realtà non lo è). Là si può anche ignorare il mondo esterno. Si tratta solo di elettroni, bosoni di Higgs, quarks, di particelle elementari. Ma l’analista non ha a che fare con particelle elementari: ha a che fare con gente come lui, che ha spesso gli stessi suoi problemi, e che gli pongono continuamente questioni etiche e professionali allo stesso tempo.
In ogni caso, una collaborazione scientifica tra “colleghi” risponde a regole etiche diverse rispetto a quelle con gli analizzanti. Temo che Manuela confonda il setting analitico con l’impegno a una collaborazione informale tra colleghi. Il medico non mi ha ordinato di collaborare con certe persone! Ho conosciuto colleghi lacaniani (ma anche di altre scuole) i quali dicono che non potrebbero mai avere uno scambio professionale con Ego Psychologists, per esempio. Non perché gli Ego Psychologists abbiano appoggiato l’invasione dell’Iraq nel 2003, per dirne una, ma solo perché sono Ego Psychologists. E’ un loro diritto scegliere con chi collaborare.
Avrei voluto dire alla fine della seduta con i russi, ma non ho osato (abbiamo incontri periodici da tre anni circa): “Questa è stata la più importante supervisione clinica fatta finora!” Perché in quel caso abbiamo toccato lo spessore etico della pratica, che è anche spessore politico. L’analista non cura psicopatologie (per un vero analista non esistono psicopatologie: ogni essere umano è “patologico” fino alle midolla). L’analista mette ogni analizzante di fronte a possibilità etiche: accettare l’amore sensuale, rinunciare alla dipendenza, optare per l’autenticità (i tre principi etici dell’analista). L’analisi non è una ricerca del CERN, l’analista non è neutra, l’analista a suo modo milita. Perciò esclude le cure cognitiviste che puntano a soffocare il sintomo, mentre lei punta a svelare proprio attraverso l’analisi del sintomo il desiderio autentico del soggetto.
Qualcuno mi ha detto: non hai lasciato esprimere i russi! Credo invece che io sia stato uno dei pochi, in Italia e altrove, che ha dato più spazio ai filo-putiniani rispetto a tutti i media, dall’inizio della guerra. Ho chiesto anche contributi per il Journal ad altri analisti russi che so putiniani.
Che cosa intendono allora i miei critici per “lasciare la parola all’altro”?: convertirsi alle ragioni di Putin? “Lasciare la parola all’altro” è un eufemismo per dire “ma sì, capisco le tue ragioni! Capisco che l’Ucraina vada de-nazificata!”? Certo che ascolto, ma l’ascolto non è complicità. Per cui mi viene l’atroce sospetto: e se molti dei miei critici esprimessero così, via Benvenuto, una loro “sostanziale comprensione” delle ragioni di Putin? Nel fondo, simpatizzano con Putin? Secondo i sondaggi, un italiano su cinque “capisce” gli atti di Putin. Condividono la visione del mondo di Tomaso Montanari, giusto per citare una star mass-mediatica che tutti conoscono? In Italia c’è ancora libertà di parola, che lo dicano allora: “simpatizzo per Putin”. Non finiranno in galera per questo.
Per finire, un’altra citazione di Lacan (ripeto: non sono lacaniano). Negli anni 1970, a Milano, noi giovani analisti in formazione avemmo un incontro con lui. In quel frangente una giovane (allieva di Verdiglione) lesse una specie di papiro in cui celebrava il senso dis-sociale, anarchico, della pratica analitica, avulsa da ogni forma di legge della società esterna all’analisi-CERN. Lacan fece capire che la signorina aveva detto sciocchezze. “La psicoanalisi è una pratica sociale come tante altre!” Non solo nel senso che quello analitico è un lien social ben definito (che lui distingueva da altri legami sociali – dell’universitario, dell’isterico, del padrone-maestro). Ma anche nel senso, precisò, che l’atto analitico è parte integrante della società e della cultura in cui si svolge. La psicoanalisi non gode di alcuna extra-territorialità.
Ma credo che questo fantasma dell’”analista asociale”, una specie di beatnik sedentario, attraversi trasversalmente tutte le scuole analitiche. “Noi siamo puri, immacolati da tutte le macchie della Storia”. Ma quale purezza!
Chiederò presto all’amico René Major di parlare di un tema di cui è esperto: la collaborazione di alcuni psicoanalisti alla tortura politica di oppositori in alcuni paesi sudamericani. Molti hanno scritto delle collaborazioni di analisti al fascismo, al nazismo, e a vari altri sistemi repressivi. E’ arrivata l’ora di scoprire gli altarini.
Grazie per l’attenzione
POSTILLA:
Gli estremi si toccano in Putin
Ho seguito attraverso i media la manifestazione per la Pace in Ucraina del 5 marzo scorso, promossa dalla CGIL e da altre organizzazioni. Non vi ha aderito la CISL, e se io fossi stato sindacalista, avrei fatto proprio come la CISL, che si è dissociata specialmente dallo slogan della “neutralità attiva”. La prevalenza delle bandiere arcobaleno della pace e il discorso di Landini mi hanno confermato la mia profonda diffidenza nei confronti di questo tipo di sinistra. Intendo soprattutto i luoghi comuni dei pacifisti, che trovo pericolosissimi per la vera pace, non meno di quelli dei guerrafondai.
Che c’è di profondamente ipocrita (più che di ingenuo) nel semplice slogan “Per la Pace in Europa”? Tutti vogliono la pace – si fa la guerra per giungere alla pace, diceva von Clausewitz – ma vogliono la pace alle proprie condizioni. Certamente anche Putin è un grande pacifista: avrebbe voluto che l’invasione dell’Ucraina fosse una passeggiata senza resistenza armata, come avvenne nel 1968 in Cecoslovacchia, quando i cechi non ebbero nemmeno il tempo di sparare un colpo di fucile… Per quale pace ci si batte, per quella che Putin vuole imporre all’Ucraina, o per quella che vogliono gli ucraini? Da qui il cinismo, a mio avviso, di uno slogan come la neutralità attiva, che vuole dire: tra ucraini e russi (nel senso di esercito russo) siamo imparziali! Ricorda le posizioni di alcuni trotzkisti francesi, che ho conosciuto, all’epoca dell’occupazione nazista della Francia: “neutralità” tra Hitler e la resistenza francese. Tanto, dicevano, entrambi sono espressione del capitalismo egemone.
Se il criterio è quello della pace a ogni costo, allora Putin potrà dire (e l’ha già detto credo) che i veri guerrafondai sono gli ucraini, perché resistono. Perché non si arrendono subito, e non fanno entrare l’armata putiniana a Kiev? Certo che gli ucraini vogliono la guerra – ma perché l’hanno subita. I pacifisti mettono sullo stesso piano aggressori e aggrediti. Fanno credere che una guerra è qualcosa che si sceglie sempre di fare, non qualcosa che, ahimè, spesso si subisce.
Del resto, è quel che raccomandava il fondatore del pacifismo italiano, Aldo Capitini (1899-1968), un filosofo di ispirazione religiosa. Ebbi modo di conoscerlo di persona quando ero ragazzo, e colsi in lui una qualche rassomiglianza fisica, che mi turbò, con Adolf Eichmann. Secondo Capitini gli ebrei fecero male anche a ribellarsi nel ghetto di Varsavia (1943), dovevano accettare di farsi sterminare senza muovere un dito – cosa che fecero, di fatto, con i risultati bene noti. Predicare la non-violenza si risolve spesso nel sottomettersi alla volontà violenta del prevaricatore di turno, stendergli davanti ai piedi un tappeto rosso per massacrare.
Landini – il cui motto è «la guerra non si combatte con la guerra» – è contrario al fatto che paesi occidentali riforniscano gli ucraini di armi, sola possibilità che hanno per fermare militarmente i russi. Ed è vero, non raccontiamoci favolette: più gli ucraini avranno armi dalla’Occidente, più a lungo la guerra durerà. E siccome la strategia ucraina è quella di combattere i russi nelle città, il risultato potrebbe essere la distruzione totale delle città ucraine… Del resto questo spiega la “buona volontà” russa nel lasciare aperti i corridoi per i rifugiati, che sono donne e bambini: una volta che resteranno nelle città solo gli uomini ovvero i combattenti (anche donne in verità), Putin non avrà alcuno scrupolo nel fare terra bruciata… per chiamarla Pace, magari inalberando sulle rovine di Kiev bandiere arcobaleno.
Non so spesso se considerare certe sciocche affermazioni il prodotto di semplice incompetenza politica, o segnali di un cinismo di fondo a malapena represso. Per esempio mi si dice: “Speriamo che la guerra cessi presto!” C’è una sola condizione perché la guerra cessi presto: che l’Ucraina si arrenda oppure che tutti i combattenti ucraini vengano sterminati alla svelta. Se invece gli ucraini riusciranno a resistere bene, la guerra sarà molto lunga… Lo so, è la scelta fra la padella e la brace.
Giorni fa Macron disse “la guerra sarà lunga”. Era una profezia o un impegno? Secondo me aveva la forma manifesta di una profezia, ma aveva il senso latente di un impegno, ovvero: daremo tante armi e tanti aiuti agli ucraini che li metteremo in condizione di resistere a lungo… Macron è un cinico? L’Occidente fa la guerra alla Russia col sangue degli ucraini? Certo. Perciò, se fosse per me, metterei almeno la No Fly Zone (vedi: battaglie aeree sui cieli ucraini). Potremmo allora dire che non facciamo la guerra col sangue degli altri.
Dice Landini: «è il momento non di armare ma di disarmare il mondo. È il momento che l’Onu faccia la sua parte». E’ idiozia o malafede? Ve lo immaginate Churchill nel 1939, quando Germania e Unione Sovietica attaccarono la Polonia, dire una frase del genere? Che bisogna disarmare il mondo? Sarebbe stato un appoggio oggettivo a Hitler. Saggiamente invece Roosevelt riarmò in fretta e furia il suo paese.
Quanto all’ONU, la sua parte l’ha già fatta: la maggior parte dei suoi membri hanno condannato la Russia. E che può fare altro, dato che la Russia al Consiglio di Sicurezza ha diritto di veto? Sarebbe come dire: “E’ il momento non di dare armi e cibo agli ucraini, ma di pregare assieme a papa Francesco”.
Un’altra perla è venuta ieri (6 marzo) da un politico che ha perso quasi tutte le battaglie che poteva perdere, Pier Luigi Bersani. Ha dichiarato a La Repubblica che non gli piace l’Unione Europea con l’elmetto, che ci vorrebbe più diplomazia. Come si può esibire una tale ignoranza dell’a b c della politica? Diplomazia e uso o minaccia della forza sono tra loro inscindibili: hai tanto più forza contrattuale nei negoziati quanto più hai forza economica o militare. Più gli ucraini infliggono perdite all’esercito russo, più aumentano le chances di costringere Putin a negoziare. Se non hai forza contrattuale (ovvero, se hai solo gli elmetti, ma non anche fucili o razzi) la diplomazia si riduce alla tua resa. Anche la resa è parte della diplomazia.
E se tali scempiaggini pacifiste fossero solo il sintomo di una segreta simpatia per Putin? Quella simpatia che nel corso degli anni ho visto fiorire in tante persone di estrema sinistra e di estrema destra – gli estremi si toccano in Putin. L’odio per l’Occidente è tale che persino un dittatore (not mad, but bad) come Putin va meglio dell’Occidente. E’ un vecchio riflesso pavloviano della sinistra radicale che ben conosco, alla mia venerabile età.
La cosa meno grave che si può dire di questo pacifismo di maniera, rituailizzato, è che sia un diniego (Verleugnung diceva Freud) della realtà. Dico a un amico che mi chiede certe cose “Non ho tempo ora, ho cose più importanti da fare. Siamo in guerra.” Al che l’amico, piccato, risponde: “io invece non mi sento affatto in guerra!” E’ la politica dello struzzo. Voglio vedere se non si accorgerà di essere in guerra quando, con il blocco del gas russo, l’inflazione arriverà al 10% annuo, aumenterà la disoccupazione, ecc. La guerra non è per forza guerra guerreggiata. Putin ha ragione: le sanzioni contro la Russia sono atti di guerra. E atti di guerra non contro l’esercito russo, contro il popolo russo! Nelle guerre di oggi i civili subiscono i danni della guerra non meno dei militari.
Dicendo “non mi sento in guerra” l’amico peccava solo di ingenuità? Secondo me si dissociava da quel mondo occidentale che oggi è costretto a intervenire per difendere quei valori di cui lui stesso gode da sempre – libertà di espressione, democrazia, diritto al dissenso… Dopo tutto, perché non vivere nella beata ignoranza consensuale della Russia di Putin?
Data:
06/03/2022