Vitam instituere

Se dovessi nominare il compito cui il tempo del coronavirus ci chiama tornerei all’antica espressione latina ‘vitam instituere’.  Senza ripercorrerne la storia – si tratta di un passo di Demostene, citato dal giurista romano Marciano nel Digesto –, veniamo al suo significato più attuale.  Nel momento in cui la vita umana appare minacciata, e anche sovrastata, dalla morte, il nostro sforzo comune non può essere che quello di istituirla sempre di nuovo.  Cosa altro è, del resto, la vita se non istituzione continua, capacità di creare sempre nuovi significati.  In tal senso è stato detto da Hannah Arendt, e prima ancora da Agostino, che noi, gli uomini, siamo un inizio perché il nostro primo atto è quello di venire al mondo, iniziando qualcosa che prima non era.  A questo primo inizio ne ha fatto seguito un altro, un ulteriore atto istituente, costituito dal linguaggio, che lo psicanalista francese Pierre Legendre ha definito seconda nascita.  È da essa che ha preso origine la città, una vita politica che ha spinto quella biologica in un orizzonte storico.  Non in contrasto con il mondo della natura, ma attraversandolo in tutta la sua estensione.  Per quanto autonomo nella ricchezza delle sue configurazioni, lo spazio del logos, e poi del nomos, non ha mai potuto separarsi da quello del bios.  Anzi la loro relazione si è fatta sempre più stretta, al punto che è divenuto impossibile parlare di politica sottraendola all’ambito da cui la vita si genera.

La prima nascita annuncia la seconda come questa si radica in quella.  Perciò non è possibile, per gli esseri umani, cessare di istituire la vita.  Perché è la vita ad averli istituiti immettendoli in un mondo comune.  In questo senso la vita umana non è riducibile a semplice sopravvivenza – a ‘nuda vita’, per riprendere l’espressione di Benjamin.  Essendo fin dall’origine istituita, la nostra vita non è mai coincidente con la semplice materia biologica – anche quando è schiacciata violentemente sulla sua parete.  Anche in quel caso, forse mai come in esso, fin quando è tale, la vita rivela un proprio modo di essere che, per quanto deformato, violato, calpestato, resta tale – una forma di vita.  A conferirle questo carattere formale – ulteriore rispetto alla semplice biologia – è la sua appartenenza a un contesto storico, fatto di relazioni sociali, politiche, simboliche.  Ciò che fin dall’inizio ci istituisce, e che noi stessi continuamente istituiamo, è questa rete simbolica entro la quale quello che facciamo acquista significato e spessore per noi e per gli altri.

È proprio tale rete di relazioni comuni che il coronavirus minaccia di spezzare.  Non solo la vita prima, ma anche la seconda – la socialità del nostro rapporto con gli altri.  Naturalmente, come è evidente, per esprimersi, quest’ultima richiede intanto di essere in vita.  Non c’è alcun accento riduttivo nel termine ‘sopravvivenza’.  Anzi il problema della conservatio vitae è al cuore della grande cultura classica e moderna.  Esso risuona nel richiamo cristiano alla sacertà della vita come nella grande filosofia politica inaugurata da Hobbes.  Mantenerci in vita è il primo compito al quale questo maledetto virus ci richiama in una sfida mortale.  Ma, dopo la prima vita, insieme a essa, dobbiamo difendere anche la seconda, la vita istituita e solo perciò capace a sua volta di istituire, di creare nuovi significati.  Perciò, nel momento stesso in cui facciamo di tutto, come è fin troppo comprendibile, per restare in vita, non possiamo rinunciare all’altra vita – alla vita con gli altri, per gli altri, attraverso gli altri.  Ciò, al momento, non è consentito e anzi è vietato, come è giusto e logico che sia.  Ritenere questo sacrificio insostenibile, rispetto a coloro che negli ospedali rischiano la vita per difendere la nostra, è non solo offensivo, ma ridicolo.  Ciò non toglie, tuttavia, nulla al rilievo della vita istituita.  E dunque alla necessità di continuare, malgrado tutto e anzi ancor più nel momento in cui i rapporti sociali sono feriti, a vivere in comune.  Anche da soli.  Dando un senso comune a tale solitudine.  In fondo essa è proprio ciò che oggi ci lega agli altri.  A tutti gli altri – adesso metà dell’umanità, forse fra un mese l’umanità intera.  Del resto la distanza è anch’essa una dimensione profondamente umana – come la vicinanza da cui assume senso.  Non solo per contrasto – l’individuale non ha mai significato il semplice opposto del sociale, è a sua volta una forma sociale.  Oggi questo legame simbolico tra distanza e prossimità – il simbolo è precisamente la figura che le articola – acquisisce un rilievo anche maggiore.  Nel tempo della pandemia gli esseri umani sono uniti da una comune lontananza.  Anche questo è un modo – adesso il modo necessario – di istituire la vita, difendendola dalla forza cieca che rischia di inghiottirla.

Data di pubblicazione:

26-03-2020

Biografia dell'autore:

Roberto Esposito, filosofo italiano, insegna filosofia teoretica alla Scuola Normale Superiore.  Tra i suoi libri, tradotti in diverse lingue, Communitas. Origine e destino della comunità (Torino: Einaudi, 1998); Immunitas. Protezione e negazione della vita (Torino: Einaudi, 2002); Bíos. Biopolitica e filosofia (Torino: Einaudi, 2004); Terza persona. Politica della vita e Filosofia dell’impersonale (Torino: Einaudi, 2007); Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (Torino: Einaudi, 2010); Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Torino: Einaudi, 2013); Le persone e le cose, Einaudi, 2014; Da Fuori. Una filosofia per l’Europa (Torino: Einaudi 2016); Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, Einaudi 2018; Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (Torino: Einaudi 2020).

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